Eroi senz’armi
nel cuore rovente della nave

DA BORDO DI UN INCROCIATORE

Il primo giorno di navigazione, per raggiungere il locale numero 5 a sinistra del ponte di batteria dal locale numero 5 a dritta del ponte medesimo, mi condussero attraverso un andito che offriva un passaggio per mezzo di due porte stagne. In questo andito era aperto, sul pavimento, un portello d’accesso nel quale sprofondava quasi a picco una scala. Nel ponte di batteria faceva un caldo tremendo, nell’andito suddetto l’aria era ancora più torrida; pure era nulla al confronto del fiato ardente sprigionantesi dal portello menzionato, come dalla gola di un forno. E fui lieto di passare oltre, di uscire dall’andito, di sottrarmi a quel soffio che pareva uscisse dal Tartaro. Vedendomi un po’ congestionato, l’amabilissimo ufficiale che mi guidava fece un sorriso e chiese: «Avete sentito che caldo?». Al che io, simulando indifferenza per non dargli troppa soddisfazione, risposi: «Eh, sì, piuttosto ben riscaldato». L’ufficiale aggiunse: «Di là si scende nelle macchine».

Che passaggio disgraziato, pensai. Evidentemente esso costeggia qualche punto critico, che so io, la camera di combustione. Una bella pena, per i fuochisti, ogni volta che scendono, varcare quella forca caudina. Mi ricordavo di avere visto anni fa la sala macchine di una nostra grande motonave, dove non si è avari di spazio, meravigliandomi per la vastità degli impianti, i perfetti sistemi di aerazione, la monumentalità dei Diesel, assai più che per il calore il quale laggiù era abbastanza sopportabile; per scendervi non c’era davvero un passaggio tanto infuocato.

Alla sera un altro ufficiale mi chiese: «Avete già visitato le macchine?». E anche lui sorrise, come per trasparente allusione, quasi dubitasse che io mi sarei avventurato là sotto. Eh, sì – pensai – avete ragione di sorridere; non deve essere troppo divertente calarsi giù per quel buco rovente. Ma, dopo tutto, è questione di pochi istanti. Val la pena di provare.

Mi consigliarono di vestirmi molto leggero e con roba andante, che non avesse a temere le macchie; poi mi diedero un paio di guanti di filo bianchi, foderati internamente di amianto. Questi serviranno – mi dissero – per non scottarsi le mani, certi passamani essendo caldi come graticole. Bene – mi dissi – ma una volta disceso il pertugio rovente, potrò levarmeli, spero; altrimenti come maneggerò matita e taccuino?

Armatomi di una certa baldanza per fare bella figura, seguii il direttore di macchina che si era infilato giù per il portello. Un nembo di aria arroventata, quasi fiamma senza colore, ci investì rudemente, togliendoci per un istante il respiro (e tutt’intorno, in piena corsa, la nave palpitava tuonando). Giù, giù, facciamo presto, togliamoci da questo braciere, mi dicevo. E affrettai al massimo la discesa.

Ma il sollievo non venne. E quando fui nel fondo (a poca distanza dai nostri piedi, sotto la chiglia, era un fuggi fuggi di pesci terrorizzati) compresi perché l’ufficiale, domandandomi se fossi stato alle macchine, aveva fatto quel tale sorriso. Non era come avevo supposto. La scala rovente non costituiva un accesso infelice, un duro pedaggio a chi entrava, ma al contrario un pallido preludio soltanto. L’aria uscente dal portello era zefiro di primavera al confronto di quella che si respirava laggiù, stretti in un groviglio babelico e urlante di immensi tubi, valvoloni, turbine, macchinari congestionati.

Guardai quasi incredulo l’ufficiale di guardia il quale pure mi sorrideva ospitalmente come gli rincrescesse di non potermi offrire maggiori comodità, guardai il sottocapo che manovrava la leva di un quadro, guardai ai lati, attraverso la mastodontica ragnatela delle tubolature, in certi biechi anfratti perimetrali, gli uomini intenti al lavoro, nudi fino alla cintola, luccicanti per il sudore come se si fossero spalmati il corpo di olio. Anch’essi mi guardarono, me che scendevo dal regno del sole e dei venti marini ed ora, ansimando, cercavo di assuefarmi a quella atmosfera d’inferno.

Contornato da una miriade di manometri (arrivai a contarne cinquanta e poi mancò la pazienza), sovrastato da mostruosi aggrovigliamenti di tubi, tra un accavallarsi di ordigni addirittura trionfale, a oltre 40 gradi centigradi, in uno spazio non più ampio di un comune ascensore, l’ufficiale di guardia se ne stava placido e attento; signore di un fantastico regno. Ombra di stanchezza o di pena non sfiorava il suo volto, né quello dei compagni. «Vedete laggiù?» mi fu detto a proposito di un giovane che si intravedeva più sotto. «Laggiù c’è la pompa dell’olio: si passano i 50 gradi.»

Mi venne in mente allora una vecchia leggenda: pochi giorni prima delle nozze del principe, uno dei suoi ministri, passeggiando a cavallo, capitò per caso all’ingresso di una nera spelonca formicolante di uomini. Che cosa succede? domandò. Ma come, non sapete, eccellenza? Questa è la miniera degli smeraldi, qui si raccolgono le pietre per il diadema che il principe donerà alla sposa. Incuriosito, il ministro lasciò il cavallo e scese nella spelonca, sbigottendo il suo cuore per la fatica di quei minatori. Via via che scendeva, trovava sempre più caldo, sempre più fumo, sempre più serpi, vampiri e ragni che uscivano dalle rocce. Gli uomini però lavoravano tranquilli. Fino a che il ministro si fermò affranto, incapace di continuare; ma, attraverso uno stretto pertugio, poté scorgere ancora una grotta più bassa, l’ultima, invasa addirittura dalle fiamme perché era vicina a un vulcano. Anche laggiù intravide centinaia di lavoranti. A questo punto il ministro accostò un orecchio al pertugio per udire le loro maledizioni. Egli si aspettava di sentire atroci bestemmie e minacce. Invece udì un canto lieto e solenne: in coro, gli uomini della miniera levavano inni di amore al principe e alla sua sposa. Allora il ministro ebbe vergogna di se stesso, gettò il manto trapunto d’oro e scese nell’infima buca; battendo i macigni col piccone, anche lui si mise a cantare.

Non cantavano no, i macchinisti dell’incrociatore; il rombo delle turbine avrebbe del resto coperto le loro voci. Ma assomigliavano in tutto ai minatori della leggenda. Essi non si lamentano del caldo terribile, non assumono pose da vittime, non smaniano per cambiare tipo di servizio, non si rodono d’invidia per i compagni che respirano aria pura in coperta. C’è una specie di geloso orgoglio, nel loro animo – e non è retorica – perché sanno che ad essi è affidato il cuore stesso della nave.

Direttore di macchina, primi e secondi capi, fuochisti, voi che controllate i “telegrafi di macchina”, i valvoloni d’immissione, l’andatura delle pompe, gli eiettori, i polverizzatori delle caldaie e tanti altri ordigni che non conosciamo, voi che su ventiquattro ore dodici ne passate in quella fornace e le altre dodici nel ponte di batteria dove non ci sono meno di 35 gradi, nessuno si ricorda di voi vedendo dalla riva trascorrere al largo le formazioni di guerra, o quando il bollettino del Q.G. annuncia vittorie navali o quando sullo schermo del giornale L.U.C.E. compaiono le superbe sagome delle nostre unità.

La gente pensa ai cannoni, alle mitragliere, ai siluri, tuttalpiù alla centrale di tiro, alle aeree torrette dove si calcola distanza, velocità, rotta del nemico, velocità e direzione del vento, eccetera eccetera. Il pubblico pensa al comandante che tiene la sorte della nave, a chi regge il timone, o avvista per il primo il nemico, o calcola il tiro, o punta le artiglierie, questi per lui gli eroi. Ma i marinai che si logorano nei sotterranei bollenti della nave per farla andare avanti non lo interessano troppo.

Eppure è laggiù, tra le torride vampe, ai riflessi della nafta in combustione, a fianco delle turbine muggenti, che è chiuso il destino del bastimento. Perché se una torre è colpita, se crolla l’albero di prora con le sue castellature preziose, perfino se tutte le artiglierie sono ridotte al silenzio, può rimanere un po’ di speranza. Ma se si fermano le macchine tutto è irrimediabilmente perduto.

Anche laggiù si combatte: una lotta certo meno spettacolosa e esaltante di quella che si fa alla luce del sole. Del nemico non si sa nulla, se lontano o vicino, se più forte o meno. Ogni tanto giunge un rombo cupo: i nostri cannoni che sparano o un proiettile esploso nell’acqua? Sì, le macchine si trovano nel punto più protetto della nave ma credete forse che non si preferirebbe salire all’aperto e battersi guardando il nemico in faccia? La sensazione di essere chiusi in una scatola di ferro, l’oppressione della clausura e del caldo, l’estrema difficoltà di uno scampo nel caso l’offesa nemica giungesse là dentro, diventerebbe un insopportabile incubo se i cuori non fossero forti. Scherzavano, macchinisti e fuochisti di questo incrociatore, durante la battaglia dello Jonio, mentre rintronavano, al di là delle corazze, i tonfi delle granate. Un sottufficiale aveva la febbre alta quel giorno, tuttavia si trovava regolarmente al suo posto senza che alcuno l’avesse sollecitato, a 45 gradi di temperatura ambiente. E il comandante, dall’alto della torre prodiera, a un certo punto telefonò all’ufficiale di macchina: «Dite laggiù che tutto va bene, che gli inglesi sparano male (questo non era vero ma conveniva dire così) e che il nostro tiro è eccellente».

«Ragazzi» urlò l’ufficiale con quanta voce aveva per soverchiare il rombo delle turbine «il comandante telefona…» E i ragazzi gridarono evviva, qualcuno probabilmente aveva le lacrime agli occhi, ma non si poteva capire tra il gocciolio del sudore.

Sarebbe bello ora poter spiegare la vita segreta delle macchine meravigliose, come l’ordine del comandante si trasmetteva automaticamente nei più fondi pozzi della nave, come funzionano i servizi di sicurezza, come si possa salvare la situazione negli svariati casi di avaria premendo solo una leva, interrompendo un contatto, bloccando una conduttura. Mi spiegarono molte cose, laggiù, ma forse per colpa del caldo ne capii una debole percentuale. Avevo fretta – lo confesso – di uscire da quella bolgia, di raggiungere almeno il ponte di batteria, i cui 35 gradi al confronto sembravano un paradiso e dove i fuochisti del turno smontante, prostrati dalla fatica, dormivano avidamente stesi sul pavimento di ferro, sognando l’orto della loro casa lontana: un orto tutto verde con in mezzo una fontanella.

“Corriere della Sera”, 8 agosto 1940