La torpediniera di Nicolini
Quel giorno i marconisti delle regie navi e dei comandi marittimi intercettarono un messaggio diretto a una nostra torpediniera, un messaggio che diceva semplicemente: “Bravo”. Il marconigramma proveniva da un alto comando. Qualcuno, non riuscendo a capire, pensò di avere udito male il dispaccio e annotò la parola sul registro senza darvi troppa importanza. Molti invece, sicuri di non essersi sbagliati, immaginarono semplicemente che il bastimento si fosse in qualche modo meritato le congratulazioni. Se le era infatti meritate.
E un piccolo scafo, lungo un’ottantina di metri, ma veloce e moderno. Con le sue seicento e passa tonnellate può raggiungere le 34 miglia all’ora e rappresenta, per le caratteristiche delle sue armi, per la celerità e l’agilità di manovra, un elemento assai utile nella lotta contro i caccia e i sommergibili nemici. Ciò che ha saputo brillantemente dimostrare.
Come le compagne della medesima classe, recanti tutte i mitici nomi di astri e costellazioni, questa torpediniera possiede tre cannoni da 100 millimetri, otto mitragliere antiaeree da 20, quattro tubi lanciasiluri da 45 centimetri ed è in grado di seminare nell’acqua, al suo passaggio, una abbondante dose di bombe antisommergibili; una sistemazione per la posa delle mine completa le sue possibilità belliche.
Era partita per scortare un convoglio di piroscafi. E qui sarebbe doveroso ricordare degnamente l’opera, per lo più oscura, ma dura, pericolosa e spesso eroica, di queste nostre piccole navi che da mesi fanno la spola da una sponda all’altra dell’Adriatico e del Mediterraneo centrale, per difendere i nostri trasporti. Sono le trincee naviganti dei soldati in viaggio per l’Albania o per la Libia, sbarrano la via alle insidie nemiche, preservano i preziosi carichi di armi, munizioni, viveri, medicinali, destinati a quei lontani fronti.
Vanno, gli inermi vascelli mobilitati, senza esitazione sì ma con un po’ di batticuore. Sanno di essere pure essi necessari alla guerra e non si tirano certo indietro quando ricevono l’ordine di partire verso l’opposta sponda. Si tratta di temperamenti pacifici, usi a una vita regolare e scandita da precisi orari, pronti a sfidare le ire degli oceani, non i cattivi scherzi degli esplosivi. I loro fianchi sono un guscio d’uovo, un colpo di mitragliere basterebbe a bucarli: figurarsi una cannonata. E quei pezzi d’artiglieria installati per l’occasione a prora e a poppa a che cosa potranno servire? Sembra di vedere un flemmatico grosso mercante costretto a impugnare, suo malgrado, un paio di pistoloni. Questa espressione è senz’altro esagerata, perché a manovrare i cannoni non ci sono cuochi o infermieri ma marinai addestratissimi, al comando di ufficiali di vascello specialisti nel tiro; cosicché quell’aria innocua è più che altro apparente. Con quale animo però salperebbero questi piroscafi se non avessero al fianco qualche autentico guerriero, qualche caccia o torpediniera di scorta, minuscola al paragone? Se di giorno e di notte non se li vedessero guizzare intorno, sempre con gli occhi spalancati, sempre con la mano alla spada?
Bello o cattivo tempo, bonaccia o burrasca, i piccoli bastimenti da guerra vanno e vengono, quasi senza interruzione. Una vita faticosa e piena di rischi che il pubblico ignora completamente o facilmente dimentica. In fatto di missioni di guerra essi possono vantare un primato. Un comandante di torpediniera, ad esempio, ci ha detto di averne compiute, dall’inizio delle ostilità, più di cento.
Uno di questi infaticabili combattenti è la torpediniera citata dal bollettino odierno. La comanda, da circa un mese e mezzo, il tenente di vascello Nicolò Nicolini, di ventinove anni, figlio di un capitano di vascello, classico esempio di quei giovani che la passione della Marina ce l’hanno nel sangue, che per la Marina hanno cominciato a vivere, si può dire, dal giorno in cui sono nati. Un ammiraglio, che non è suo diretto superiore, quando ha saputo della sua bella impresa, ci ha detto: «Me lo ricorderò sempre per un particolare. Lo conobbi tempo fa sul “Montecuccoli”, dove lui era ufficiale E (servizio elettrico) e confesso che mi stupiva per la conoscenza che aveva della sua gente. Non solo si ricordava il nome di tutti i suoi marinai. Questo non è poi tanto eccezionale. Ma era pure perfettamente al corrente della loro situazione di famiglia; sapeva che uno era sposato con un figlio, che quell’altro aveva la madre a carico, che un terzo aveva cinque fratelli di cui due richiamati e così via…». E anche a noi questo è parso molto significativo: uno di quei piccoli sintomi che bastano a definire un ufficiale.
La torpediniera di Nicolini navigava dunque, insieme con un’altra nave della stessa classe, di scorta a due grossi piroscafi. I quali procedevano in linea di fila, cioè uno dinanzi all’altro, mentre i due agili scafi da guerra avanzavano al loro fianco uno per parte.
A una dozzina di miglia da terra era in agguato un sommergibile inglese. Quando il mare è molto tranquillo e la luce propizia le vedette riescono spesso ad avvistare, anche a una certa distanza, il periscopio emergente o almeno il baffetto di schiuma causato dal periscopio stesso. In un mare agitato come l’altro giorno, con le onde tutte frangiate di bianco, anche gli occhi più acuti, attraverso i binocoli più perfetti, non potevano certo fare altrettanto. Cosicché il battello nemico, prima di essere scoperto, lanciò due siluri – fortunatamente a vuoto – contro uno dei piroscafi.
Se il lancio viene fatto a quota periscopica, c’è il pericolo, per gli attaccanti, che la prora del sommergibile, alleggerita improvvisamente del peso di due siluri, faccia, per il principio d’Archimede, una brusca impennata; e che quindi una parte del battello, di solito la torretta, emerga improvvisamente rivelandosi agli sguardi nemici. Proprio per questo, alcuni istanti prima del lancio, il comandante di sommergibile ordina di fare entrare acqua nelle casse di compenso, o nelle casse di assetto di prora (immaginando che debbano partire i siluri prodieri). L’estremità del battello viene quindi a trovarsi appesantita e non ci sarà rischio che si innalzi, una volta compiuto il lancio; d’altra parte, in quel breve intervallo bastano i timoni orizzontali, convenientemente adoperati, a impedire che il sommergibile, per l’accresciuto peso, si inclini verso prua.
Tale precauzione non fu presa dal comandante del battello inglese. O che l’orgasmo gli abbia fatto precipitare la manovra, o che i suoi ordini non siano stati eseguiti con la dovuta prestezza, o che fosse successa un’avaria, fatto sta che, appena lanciati i siluri, il battello sbucò fuori dall’acqua come una balena. Furono pochi istanti, ma bastarono perché la torpediniera italiana se ne accorgesse.
Non un attimo di esitazione da parte del tenente di vascello Nicolini. Così come il comandante del caccia “Vivaldi”, che speronò di notte un altro sommergibile inglese, egli scelse, tra le varie possibilità di attacco, quella più semplice, speditiva, potente, non importa se più pericolosa. Anche i cannoni, anche i lanciasiluri potevano entrare in funzione; ma forse non si sarebbe fatto in tempo. Perciò nella plancia echeggiò l’ordine: «Avanti a tutta forza! Pronti con le bombe di poppa!».
Poche centinaia di metri separavano i due scafi. Gli inglesi, accortisi del rischio incombente, tentarono di sfuggire, accostando e accelerando al massimo l’immersione. Inutilmente. Il tagliamare della torpediniera non si lasciò sfuggire la preda. Con tremendo schianto esso percosse in pieno lo scafo nemico. Tutto questo in un tempo più breve di quanto occorra per dirlo.
Pochi secondi dopo, nella schiumosa scia della torpedinera fu visto venir fuori una mostruosa pancia nera. Mortalmente colpito il sommergibile inglese si era capovolto e ora affiorava con la chiglia in su, sicuro sintomo di agonia. Girò su se stesso, due volte presentando alla luce la chiglia e una volta la torretta, poi sprofondò per sempre, martellato, benché fosse quasi superfluo, da qualche bomba da getto, prontamente lanciata dagli italiani.
Il bizzarro contorcimento del battello morente fa supporre che la prora della torpediniera lo abbia sfondato in modo da fare allagare non solo la torretta ma anche qualcuno dei locali superiori. Allora, in un estremo tentativo di salvezza, il comandante inglese pare abbia fatto dar aria ai doppifondi, in modo da alleggerire lo scafo e portarlo alla superficie. Esso risultò di conseguenza pesante di sopra, dove era entrata l’acqua, e leggero di sotto, dove l’acqua era stata espulsa. Di qui il ribaltamento. Una volta poi preso l’abbrivo in questo movimento rotatorio, il sommergibile descrisse un altro giro su se stesso.
Nel violentissimo corpo a corpo, che poteva riuscire anche per essa molto rischioso, la torpediniera si comportò valorosamente. Ebbe sì il tagliamare un po’ piegato dal colpo e ammaccata qualche lamiera di prora, ma poté proseguire senza difficoltà, fino alla mèta, la vittoriosa missione.
(Inedito)
12 agosto 1941