Una nostra torpediniera assale quattro caccia britannici

DA UNA BASE NAVALE, 23 DICEMBRE

Saliti a bordo della torpediniera, prima ancora di parlare con alcuno, sentiamo che la nave si prepara a partire. Da che cosa si capiva se gli ormeggi erano ancora a posto e in coperta tutto era quieto? Dal brontolio sordo dei ventilatori? Dalla vibrazione profonda che veniva su dalle lamiere, penetrando per tutto il corpo? Dalle facce dei marinai? Non si può dire. Già da molto tempo avevamo imparato a conoscere di colpo le navi che stanno per partire verso la guerra, a motivo di una legge divina misteriosa. Ma insieme a questo senso di prossimo distacco la torpediniera portava con sé, ancor più viva, l’impronta indefinibile che lasciano le recenti battaglie. Non c’era dubbio: era uscita da poco da una violenta avventura. E per capirlo non occorreva aver visto quegli strani buchi rotondi, dai bordi bruciacchiati, costellanti le fiancate di poppa, intorno agli oblò del quadrato ufficiali. Né tali buchi né alcun altro segno preciso occorrevano. Anche qui bisogna cadere nel vago, ricorrere a parole di genere astratto.

Era ancora in traspirazione, la nave, si sarebbe detto. La superba eccitazione della lotta non si era ancora spenta. E i cannoni pareva dovessero essere caldi. Se tutti a bordo ci avessero detto che niente era successo, che da quindici giorni non lasciavano il porto, non avremmo creduto. Brandelli invisibili di notte erano forse rimasti impigliati tra il fumaiolo e la plancia sulle soprastrutture; nella ragnatela delle sagole; della notte di combattimento, quando la piccola nave si era lanciata contro quattro grossi cacciatorpediniere nemici e ne aveva affondato uno a cannonate (Bollettino n. 561).

Era freddo, piovoso, la mattina era appena incominciata, le altre navi accanto ancora dormivano, dalla terra vaghi segnali di tromba rotti dal vento. Il comandante era giù nel suo alloggio, già vestito per la navigazione, seduto in una poltrona, immobile, e aspettava da un momento all’altro l’ordine di partire. (A sud, giù nel Mediterraneo, pareva stesse succedendo qualcosa; forse c’era bisogno della piccola torpediniera, anche se da poco uscita dalla battaglia.)

Il comandante è il capitano di corvetta R., uomo senza dubbio speciale, apparentemente freddo, ma non è così, di talento acuto e dialettico, osservatore impassibile del mondo e di sé, smanioso delle cose perfette, continuamente teso, con tutte le proprie risorse, a un unico scopo, vogliamo dire la guerra. Da parecchio tempo lo conoscevamo, con lui avevamo giuocato più volte a scacchi, avendo la peggio. Di lui (e del suo ironico sorriso) abbiamo già scritto altre volte. Allora – aveva da poco assunto il comando della torpediniera – ci aveva detto soltanto di aver poco o nulla da raccontare. «Cose senza importanza» diceva «ordinaria amministrazione, niente che possa interessare il giornale. Verrà, tutto l’equipaggio l’aspetta, la grande occasione, ma finora niente.» È venuta. State a sentire.

Qui, per motivo di segreto militare, non possiamo diffonderci sull’antefatto da cui è nato lo scontro; ma non è necessario. Il combattimento può formare episodio a sé, senza che la verità ne risulti deformata o amputata; nessun altro vi ha preso parte oltre alla torpediniera menzionata e ai quattro grossi caccia britannici. Basti dire che nel cuore della notte la nave si trovò a navigare verso un punto del Mediterraneo dove era stata segnalata la presenza di inglesi; lo stesso comandante non sapeva quanti fossero e chi. Ma egli avanzava ugualmente a tutta forza verso il punto in questione. Ed è peccato che sia notte perché, se ci si vedesse, sarebbe bellissima, la sottile silurante, lanciata a 30 nodi sul liscio mare, un cupo ruggito uscendole dal petto, con lieve criniera di fumo buttata indietro dal vento. Invece è notte, abbiamo detto, scura, con uno strato di nubi che cancella la luna. Appare quindi solo un’ombra inseguita dalla scia fosforescente, unico chiarore. È una delle nostre torpediniere modello, elegante di sagoma, veloce.

Siccome lo conosciamo bene, non facciamo fatica a immaginarlo, il comandante R., in un’ora siffatta. La faccia sua probabilmente era ancor più ferma del solito e gli occhi sottili a mandorla facevano il massimo sforzo per decifrare la lavagna della notte. Laggiù, di prora, doveva essere il nemico. Quante navi? E quali? E in che direzione naviganti? Chi avvisterà l’altro per primo? Con questo buio ci si vedrà solo all’ultimo istante, a distanza minima. Sarà una questione di secondi; l’incertezza si risolverà d’un fiato; vita o morte, affondamento o successo, dipenderanno da un minuscolo vantaggio di tempo. Chi avrà preso questo vantaggio lo terrà probabilmente fino alla fine. Allora il comandante scorse un poco sulla dritta, di prora, una cosa nera dalle tenebre. Sagoma di nave vista per chiglia, che veniva incontro a forte andatura. Dietro questa un’altra, poi una terza, una quarta. Si facevano rapidamente più grandi. Quattro cacciatorpediniere nemici procedenti in linea di fila.

A questo punto – ce l’ha confessato lui, senza darvi alcuna importanza – il comandante con molta freddezza cancellò la vita dai beni che gli competevano in sorte. Fu convinto: io vado all’attacco, non tornerò più a casa, verrò distrutto e affondato. Dall’archivio segreto della sua mente – si può dire – egli trasse la busta contenente il piano: in caso di scontro notturno fra torpediniera isolata e più unità maggiori nemiche, navigando con rotte opposte, su mare calmo, assenza della luna, cielo coperto… Nella busta era già tutto preparato. Egli sapeva che l’intera sua gente era come lui determinata, che nessuno avrebbe vacillato. La torpediniera era veramente come una spada che la destra stringesse. Andrà probabilmente spezzata – egli pensava – ma prima sarà lei a spezzare qualcosa.

«Per qualche attimo» ci disse il comandante sorridendo «ho pensato perfino alla possibilità d’un investimento. Siccome ero di forze assolutamente inferiori, un sistema poteva essere anche quello di speronare uno dei caccia nemici. E il bello sarebbe stato poter poi saltare all’arrembaggio, come si legge nei libri di avventure!»

Lunghe le nostre parole, brevissimo il fatto. Accorciatesi le distanze, la torpediniera accostò decisamente prendendo la rotta di attacco. Ma la prima unità nemica già si rivelava, presentandosi di sbieco; aveva due fumaioli, cinque cannoni, una prora sottile che muoveva poca schiuma. Come ritenne che fosse arrivato il momento, il comandante ordinò «Fuori!» per un siluro. Il siluro balzò in acqua, impiegò pochi istanti a compiere la strada. Non si udì l’esplosione. Può darsi che avesse colpito, senza però scoppiare, oppure che fosse passato sotto in una delle “delfinate” iniziali. Comunque era troppo breve la distanza di lancio, poco più di duecento metri, un percorso inverosimile che nessuno poteva prevedere. Allora da una parte e dall’altra si cominciò a sparare.

Italiani e inglesi scorrevano, per così dire, l’uno rasente all’altro, alla velocità di 2.000 metri al minuto. Ciò faccia intendere la rapidità dello scontro. La torpediniera piombava a capofitto contro la formazione nemica, la quale non se l’aspettava, non fece in tempo a manovrare, reagì con incertezza e disordine. Da una parte e dall’altra spararono mitragliere e cannoni. Pensate a delle ombre nere, avvolte dalla notte, che si passano accanto a somiglianza di treni opposti su paralleli binari. Da uno all’altro, a vicenda, guizzarono in secche traiettorie, elegantissimi, i proiettili luminescenti.

Una rabbiosa grandinata di colpi – rossi e bianchi di lume – si abbatté sul primo cacciatorpediniere britannico. Essa spazzò letteralmente la coperta da prora a poppa seminando parecchio lutto. Lampeggiando i cannoni inglesi, apparvero nitidissime, come alla luce di folgori, le sigle dell’unità dipinte sulla murata di prora. “H. 64” era scritto, la matricola d’una silurante olandese incamerata nella flotta britannica. Alle vampate dei pezzi, rapide come batter di ciglia, si scorsero pure i bizzarri disegni mimetici istorianti tutta la nave; si videro infine gli uomini, marinai nemici, i loro elmetti, le schiene curve, le teste piegate in giù, per reazione istintiva, sotto la tempesta.

In quanto ai cannoni, le nostre prime salve da cento si infilarono esattamente tra la prora e il primo fumaiolo. Se ne poté seguire il volo, segnato dalle codette ardenti. Sei volte almeno balenarono sulla silurante parecchie vampe di esplosione, belle rosse, assolutamente diverse dalla luce dei loro colpi in partenza. Una granata dovette far sparire la loro mitragliera da quaranta perché l’arma di colpo tacque; una seconda scoppiò sotto il fumaiolo, penetrando probabilmente in un locale dell’apparato motore; una terza fiammata illuminò di rosso la poppa; altre tre la prora.

E i loro colpi, i proiettili inglesi, che strada percorsero? In quanto ai cannoni bisogna dire che spararono male. Dalla controplancia della nostra nave si videro le codette luminose rossastre guizzare via a pochi metri, sopra il fumaiolo, scomparire dall’altra parte nelle tenebre, mugolando. Non un colpo a segno, per fortuna. Gli inglesi cercavano evidentemente di far saltare la plancia che è sempre il bersaglio più ghiotto, la plancia con dentro il comandante. Solo l’aereo della radio partì, tagliato da una granata. Ma arrivarono invece i colpi di mitragliera, grossi, da 40 millimetri e di calibro minore. Giungevano a fiotti rabbiosi, velocissimi, ciascuno con una fiammella azzurra; ed erano, con molta ironia, straordinariamente amabili a vedersi. Una raffica avvolse gli uomini d’una nostra mitragliera; quattro marinai restarono colpiti non gravemente; non uno lasciò il proprio posto, mollò il volantino di comando, piegò il capo. Un colpo trapassò il fumaiolo, altri piovvero sulle altre soprastrutture senza far danni. Altra fitta scarica investì la poppa, attraversò il quadrato ufficiali, naturalmente deserto in quei fieri momenti, perforando divani e credenze; e portò via una piccola scheggia della cornice del ritratto del Re. Nient’altro.

Ed ecco noi abbiamo speso tante parole e il duello tra le due navi è terminato da un pezzo. Con bagliori d’incendio, il cacciatorpediniere britannico dileguò nel buio, di poppa, e sopraggiunsero gli altri. La torpediniera si trovò praticamente a tagliare la linea nemica; il primo caccia infatti le passò sulla dritta, gli altri tre sul lato sinistro, un po’ più lontani, a intervallo brevissimo l’uno dall’altro. Questi inglesi sembravano ancora più disorientati; non fecero neanche in tempo a brandeggiare i cannoni, solo tirarono qualche raffica di mitragliera: altre fiammelle azzurre, bellissime, moltiplicate dai riflessi del mare. Poi tornò la tenebra, gli agitati fantasmi disparvero entro le cavità della notte; sulle acque impassibili restarono la torpediniera sola soletta e laggiù in fondo verso sud, riverberi color di porpora bassi sul mare; il primo caccia britannico era in fiamme ed entro pochi minuti, recinto dagli ultimi bagliori, sarebbe stato visto affondare.

Conchiusa è dunque la velocissima storia. Non più di quattro minuti, come testimonia il brogliaccio di navigazione. Eppure in così piccolo tempo gli animi compirono un viaggio immenso, sino all’ultima frontiera, là dove termina la vita. Ed ora gli uomini si ritrovavano ancora gli stessi di prima, intatti, il cuore batteva ancora, si aveva voglia di fumare una sigaretta, un ginocchio faceva male per qualche colpo inavvertito, si sentiva freddo, e altri piccoli segni dell’esistenza normale. Si può dunque pensare nuovamente alla terra? Si può riprendere il sacco, con dentro le cose più care, che il comandante poco fa aveva ritenuto opportuno di gettare, per essere più libero e franco? L’avventura è finita oppure gli animi dovranno accostarsi ancora alle remote cancellate che cingono l’altro regno? Ci sarà ancora un po’ di guerra, prima che ci si possa voltare indietro a guardare col cuore tranquillo? Ma la cronaca del combattimento è terminata. Se mai il resto si dirà un’altra volta.

“Corriere della Sera”, 24 dicembre 1941