Albe odiose,
odiosi tramonti
Guerra, che fai conoscere agli uomini (i quali non ci avevano mai pensato) tante cose profonde della vita, e li rendi sotto certi aspetti migliori, peccato che tu abbia in compenso guastato i solenni spettacoli della natura. Le viste più belle, che i poeti per secoli e secoli onorarono, sono venute in odio. Le ore più nobili della giornata aborrite da coloro che vanno per mare sui bastimenti armati.
Forse che la luna, soave personaggio delle notti, gode la considerazione di prima? Domandate a chi abita in certe contrade del sud, relativamente prossime alle basi nemiche, con quale animo vedano risplendere la prima falce in cielo, e poi la falce divenire a poco a poco disco completo e così spandere lume sul mondo. Chiedete se stiano ancora sui balconi poetando, se vagabondino per le vie con canti e chitarre, se imprechino qualora il satellite venga nascosto dalle nubi. Ne venissero, anzi, di nubi, coprissero senza ritegno quella pallida faccia, la imbavagliassero fino all’alba, benedette sarebbero. Ormai, bisogna dire, la gente si è abituata e non fa certo tragedie per lo zufolo di una sirena; pure come potrebbe gradire colei che è notoria complice degli inglesi?
Ma lasciamo stare la luna. Sappiamo benissimo che presso certuni essa non ha mai goduto buon nome e che madri austere, anche prima della guerra, sprangavano ermeticamente le imposte (nelle camere delle figlie giovinette), alla venuta di Selene, come di signora equivoca che può dare cattivi esempi. Pazienza la luna. Ma l’alba! la purezza in persona, glorioso avvento del nuovo giorno, con tutto il suo bagaglio di avvenimenti importanti e simbolici, l’umanità che si reca al lavoro con soavi proponimenti, gli uccellini che ricominciano a cantare, gli incubi che se ne vanno, la febbre degli ammalati che cade, le speranze che risorgono, le campane della prima messa; l’episodio infatti più degno della giornata, incensurabile, moralissimo, indicato a temprare le giovani menti (sì che il pedagogo impone una crudele levataccia ai discepoli per condurli sul colle a mirare la levata del sole). L’aurora dalle rosee dita, pensate. E i marinai non la possono soffrire.
Parliamo delle grandi navi, che amano la notte chiara e aperta, senza nascondigli. Uno, ignaro, va a bordo e comincia un discorso del genere. «Che vita sana la vostra» dice per esempio. «Sempre aria buona. E chissà che spettacoli meravigliosi in navigazione, che albe stupende.» «Sì, sì» risponderanno i marinai; e che volete che rispondano, poveretti?
«E chissà che splendore di tramonti» continuerà quello, pieno di buone intenzioni. «E già» diranno i marinai.
«E chissà quante volte vedete il raggio verde.» «Il raggio verde? ah sì, il raggio verde.» «Purtroppo son cose che a noi non capita di vedere. Di sacrifici ne fate, non c’è che dire, bella vita però in fondo la vostra!»
Loro non risponderanno né sì né no. Bella è la loro vita, si capisce, i marinai non la cambierebbero a nessun patto, ma per tutt’altri motivi. Non certo per i bei panorami. Dell’alba e tramonto i marinai si son fatti un concetto speciale, un po’ diverso da quello turistico.
Perché, esempigrazia, un’ora prima dell’alba, quando il buio è ancora pesto e le acque nere, suona posto di combattimento? perché le vedette spalancano così gli occhi? e il comandante medesimo non cessa di esplorare le tenebre col binocolo 7 x 50? E successo qualcosa? è annunciato il nemico? no, semplicemente comincia l’alba, l’ambiguo crepuscolo, così amico alle insidie. Quella vaga luce che sta diffondendosi offre alle siluranti la migliore occasione; la nave piccola vede la nave grande e non viceversa; dalle ombre cadenti potrebbe apparire d’improvviso, a distanza irreparabile, l’offesa nemica. E non ama queste sfide la grande nave da guerra; a tu per tu, a faccia aperta, sempre dispostissima; ma no questi agguati. E la luce cresce lentamente, quanto lentamente, sembra che il sole si diverta a farsi aspettare, che si sia fermato sulla soglia, subito sotto l’orizzonte, al solo scopo di far dispetto.
E adesso immaginiamo che la giornata sia giunta al suo termine, portando quello che competeva alla nave su cui ci troviamo; giornata meteorologicamente onestissima, mare calmo, cielo sereno, visibilità ottima, temperatura mite. Ecco la notissima ora che volge al desio dei naviganti e che figura ufficialmente tra le bellezze di madre natura. Ma è pure l’ora che gli aeroplani trovano più comoda per attaccare le navi, in special modo coi siluri: poco prima che il sole si immerga, quando i raggi sono quasi orizzontali, essi possono venire bassi sull’acqua, invisibili nell’abbacinante riverbero. Oppure aspettano l’ultimo barlume del crepuscolo ed escono dalle tetre fosse di oriente, pure invisibili sullo sfondo tenebroso, mentre le sagome dei bastimenti si profilano ancora contro il morente fuoco dell’ovest. Oppure è un sommergibile, il cui periscopio, a motivo della sua piccolezza, vede senza essere visto, confuso nella penombra. E la nave, per essere sinceri, non ama incontri del genere, non li può soffrire; tutti i vantaggi dalla parte del nemico e per lei quasi l’impossibilità di difendersi.
Che occhi, allora, le vedette. E gli uomini constatano con meraviglia e disgusto quanto duri in realtà un tramonto, maledetto, non l’avrebbero mai immaginato; in pace il tramonto pareva una cosa da nulla, velocissimo, da fare attenzione a non perdere. Da principio, per essere giusti, le cose sembravano mettersi bene. Fa abbastanza presto il sole a precipitare nella sua sepoltura, una volta che si è messo sull’ultimo scivolo; trasformato in una informe focaccia rossiccia, sparisce miseramente. Ma dopo! Credereste che subito dopo arrivi la notte. E invece che interminabile storia. Quanta luce ancora da smaltire. Il giorno e la notte si scambiano ridicoli complimenti. Avanti, tocca a voi, dice il giorno. Per carità, fa la notte ritraendosi, non ho la minima fretta, con tutto il comodo vostro, posso benissimo aspettare. (E intanto può darsi che aerei nemici ci roteino intorno, al limite dell’orizzonte, aspettando l’ultima luce.) Ma no, vi assicuro, fa il giorno calando un poco di tono, io non ho più niente da fare, il cielo è completamente sgombero, non aspetta che voi. (E che cos’è quella macchia laggiù a destra, brandeggio 70 circa?) La notte insiste: Ma non ho nessuna premura, ripeto, può darsi che abbiate a sistemare ancora qualche vostra faccenda, lo so, con questa guerra non è mai finita; poi alla sera gli uomini si divertono coi loro aeroplani, si divertono a girare per il mare e a farsi scherzetti a vicenda, che argento vivo quei benedetti ragazzi, se volete io mi accomodo intanto in un angolo e do una lustratina alle stelle, sono vecchie ormai, non hanno più la bella vernice di un tempo. (Oh, quanto è rosso il cielo ancora da quella parte, che incendio duro a morire.) Grazie, proprio davvero, risponde il giorno, ma non ce n’è proprio bisogno; se non fosse per il piacere di scambiare due chiacchiere me ne sarei già andato; una vicina di casa come voi non si trova; se dovessi rinascere, ecco, vorrei rinascere notte; meno fastidi, meno beghe, meno frastuoni; appena buio gli uomini se ne vanno a dormire. (Diavolo, ma che cos’è quella macchia nera che non se ne va? e porta dietro come un filo di schiuma?) Se sapeste però caro amico, dice ancora la notte collocando qua e là le prime stelle con lentezza meravigliosa, se sapeste anche per me quante noie; voi non li avete, per esempio, i fantasmi; tutti da me vengono, non c’è verso, e non sanno combinare che guai. (Sotto quella nuvoletta nera a forma di scarpa non si è visto come un piccolo puntolino? forse un aereo?) Ah, i fantasmi, replica il giorno, e meno male che la sua voce si è fatta sottile sottile, se sapeste come mi piacerebbe vederli, almeno uno, a titolo di curiosità; dicono che siano così…
Verrebbe quasi da ridere a vedere tante cerimonie; se non facessero rabbia. Vecchia e gloriosa natura, che brutto servizio ti va facendo la guerra, i tuoi numeri migliori son caduti in dispregio, odiose le tue albe, odiosi i tuoi famosi tramonti (e così sia detto, a seconda delle circostanze, della luna piena, della nebbia, della foschia, delle nuvole, e di tanti altri illustri fenomeni).
“Corriere d’Informazione”, 3 novembre 1941