Un marinaio
DA UNA BASE NAVALE
Questa è la storia del marinaio scelto Schiano, di Torre Annunziata, già appartenente al caccia “Camicia Nera”. Tale storia termina il 12 ottobre nelle acque del Canale di Sicilia, subito dopo il glorioso attacco delle siluranti a un gruppo di incrociatori britannici.
Tutti conoscono la meravigliosa battaglia che col tempo diventa sempre più leggendaria, conoscono le gesta dei sette esili scafi, i nomi dei protagonisti, ora consacrati dal massimo premio che la Patria concede agli eroi. E può sembrare curioso che a distanza di tanti giorni se ne torni a parlare. Ma quella notte è una specie di miniera: le gemme più grandi e belle vengono subito alla luce, poco dopo sono tratte dal buio quelle minori, altrettanto pure, che facevano loro corona; poi gli uomini procedono innanzi, ogni tanto fissando lo splendore di quelle pietre preziose, così da ricavarne conforto. Ed ecco uno passa vicino alla miniera deserta e smuovendo la terra scopre qualcosa che brilla e nessuno aveva notato. Mentre i marinai di una nave discorrono tra loro, ricordando i compagni perduti in battaglia, ecco vien fuori un nome, che non avevamo mai udito: Schiano, di Torre Annunziata.
Per conoscere Schiano basta arrivare sul posto alle quattro del mattino, quando la battaglia è finita ed è tornato il silenzio. Arde però ancora sul mare il caccia “Artigliere”. Esso si è sacrificato per silurare l’incrociatore nemico e la sua prora fiammeggia. Sopra il rogo giace il comandante, morto, come i guerrieri antichi.
L’“Artigliere” è fermo, spossato dalle ferite. Ma adesso si vede avvicinare un’ombra nera, di identica forma: il gemello “Camicia Nera”, venuto a portare soccorso; e il comandante dà l’ordine: mettere in mare la motobarca, andare sotto bordo all’“Artigliere”, caricare i feriti.
Il “padrone” della motobarca è Schiano. Ciò significa che è lui a comandare le manovre, in piedi dietro il gabbiottino del motore, con il timone in mano e un fischietto col quale indica: «Marcia indietro! Ferma! Avanti adagio! ecc.». Essere padrone di un “mezzo”: di una motobarca, di una motolancetta, di un Diesel, di un motoscafo, di una seppietta, è cosa molto ambita dai marinai e anche Schiano ne è fiero.
Ma in quel momento Schiano era al suo posto di combattimento, al complesso di poppa. La motobarca viene calata in mare e lui non si vede. Salgono il motorista, due prodieri e un quarto marinaio che sostituirà Schiano al timone. Proprio quando la barca sta per scostare, eccolo che arriva. «Vengo io» grida. «Sono io il padrone, tocca a me andare.» Un minuto più tardi, forse meno di un minuto primo, e Schiano in questo istante se ne starebbe ancora sul suo bastimento, sano e salvo, a ridere coi suoi compagni. Sentirebbe però ogni tanto una spina nel cuore; avrebbe rimorso ogni volta che il pensiero ritorna a quella notte famosa.
Perché sull’“Artigliere” c’era un suo compaesano, un caro amico, a cui voleva un gran bene; probabilmente erano vicini di casa, erano andati a scuola insieme, insieme avevano fatto i primi giochi, imparato a nuotare, indossati i primi calzoni lunghi, conosciuto il primo amore. Più uniti che due fratelli. Anche in guerra la sorte li aveva tenuti vicini, destinandoli alla stessa squadriglia. Solo un mediocre tratto di mare li separava; assai breve nei porti dove i caccia si ormeggiavano fianco a fianco, più grande in navigazione. E specialmente quella notte, rastrellando il Mediterraneo a levante di Malta per scoprire i nemici, “Artigliere” e “Camicia Nera” si erano distanziati parecchio, così da perdersi di vista. Ma adesso Schiano si era di nuovo avvicinato al compagno, lui stesso poteva andare a cercarlo, certo lo avrebbe salvato.
E ancora notte, pure man mano che la motobarca si avvicina all’“Artigliere” ci si vede meglio, a causa dell’incendio che illumina le acque intorno. Schiano si fa sotto al cacciatorpediniere in avaria, fa una prima imbarcata di ufficiali e marinai feriti: per ora diciotto uomini. Così facendo chiama il compagno a gran voce, domanda a destra e a sinistra: «L’avete visto, Martino?» (Non sappiamo come si chiamasse ma bisogna pur dargli un nome, per raccontare il fatto). Lui chiede: «L’avete visto Martino?». Uno risponde: «No, non l’ho visto». Un altro dice: «Doveva essere al complesso di prora, ma io non l’ho più visto». Un terzo: «Martino? Era al complesso di prora…» e gli pare di aver detto fin troppo perché basta guardare: la prora è tutta devastata dal fuoco.
Se stesse a lui, salirebbe in coperta, avanzerebbe sulle lamiere che scottano per cercare l’amico. Ma questo naturalmente è assurdo. Schiano è il padrone della motobarca, incaricato di trasbordare i feriti; andarsene per suo conto sarebbe un tradimento. Così il piccolo scafo porta i diciotto feriti al “Camicia Nera”, li lascia al sicuro e ritorna sotto l’“Artigliere” per una seconda imbarcata.
Eccoci arrivati al momento in cui il “Camicia Nera” prende a rimorchio, di poppa, il gemello gravemente colpito, e comincia a tirarselo dietro, lentamente, verso la terra. La motobarca non può quindi continuare a far da spola tra un bastimento e l’altro. Ma nel frattempo il cielo va facendosi chiaro e sulle onde livide, tutt’attorno, si possono distinguere dei punti neri a fior d’acqua. Sono marinai dell’“Artigliere”, costretti dalle fiamme a gettarsi in mare, naufraghi della torpediniera “Airone”; qualcuno aggrappato agli zatteroni, qualcuno solo soletto, aiutato unicamente dalla cintura di salvataggio.
Allora la motobarca di Schiano scosta di nuovo dal “Camicia Nera” per andare a salvare questi uomini; non importa se i caccia si allontaneranno e raggiungerli diverrà impossibile. Non ci può essere del resto anche Martino fra coloro che vanno nuotando? Schiano anzi ne è certo e continua a chiamare: «Martino! Martino!» (Nessuno però risponde.) Cinque, poi dieci, poi trenta, fino a oltre cinquanta naufraghi vengono issati a bordo. Parecchi sono feriti, non uno si lamenta. «Martino? L’hai visto Martino?» Rispondono: «No, non l’abbiamo visto».
Un compagno dice a Schiano: «Senti, ormai ne abbiamo presi a bordo abbastanza. Fra poco non ci sarà più posto. Torniamo a bordo fin che siamo in tempo. Torniamo a bordo, carichiamo e poi ritorniamo a prendere gli altri. Se no ci si allontana troppo».
Schiano rifiuta. Venti metri più in là c’è in acqua uno che invoca aiuto, più a destra altri due, e in lontananza altri ancora. Sono stanchi di nuotare, basta vedere con quanti sforzi si tengono a galla. Tra venti minuti sarà troppo tardi. E chi sa che fra questi ultimi naufraghi non ci sia finalmente Martino? Schiano infatti continua a chiamarlo (perdendosi tuttavia la sua voce sui flutti, senza alcuna risposta).
«Martino era al complesso di prora» dicono alcuni dell’“Artigliere”. «Proprio dove sono cominciate le fiamme. Deve essere morto.» Schiano ribatte quasi offeso: «No, non può essere». E continua a raccogliere naufraghi, e piange come un bambino e intanto la motobarca va sempre più al largo, così che le sagome dei due caccia diventano assai piccole, fra poco scompariranno.
Guardate ora quel fumo, anzi quei fumi perché sono diversi. Da poco tempo se ne contano sei. Uno dice: «Le nostre navi che vengono». Passati cinque minuti, si possono distinguere le sagome. Non bastimenti italiani quelli, bastimenti inglesi. «Torniamo» dice un compagno a Schiano. «Torniamo fin che si è in tempo.» Schiano fa segno a quelli che si dibattono nelle onde, ai derelitti, e sono ancora parecchi: lasciarli annegare così?
Avanti, dunque. Ancora mani che si tendono fuori dell’acqua, corpi sfiniti tratti dal mare, occhi ardenti di gratitudine. Ma come dar posto a tutti? La barca è piena zeppa, il dolente ma fiero carico umano è lì per traboccare, lo scafo ondeggia pericolosamente e poco manca che si rovesci. Eppure, pare incredibile, qualche posto per i più stanchi e feriti c’è ancora: il posto di Schiano e dei suoi tre compagni i quali si calano in acqua come fosse la cosa più naturale del mondo. A tenere il timone sarà capace qualcun altro. Il “padrone” non se ne sta più ritto in piedi a dirigere la manovra, non dà più i colpi di fischietto per ordinare: marcia indietro, ferma, avanti adagio; spontaneamente è sceso ad arrancare sui flutti e con una mano si tiene aggrappato all’orlo; questo l’ultimo residuo della sua gelosa potestà.
A questo punto l’“Artigliere” molla il rimorchio per non sacrificare il compagno; il quale non può neppure pensare a combattere, uno contro sei e bersagliato anche dal cielo, sarebbe una pazzia insensata. Di nuovo l’“Artigliere” è fermo, l’animo serenamente disposto al destino estremo, le onde battono contro di lui come contro uno scoglio. E il direttore di macchina ha aperto le valvole per farlo affondare.
Scomparse le navi inglesi lanciate alla vana persecuzione del “Camicia Nera”, scomparsi gli aerei nemici, scomparso l’“Artigliere” nella gloriosa tomba marina. In solitudine rimane soltanto la motobarca stracarica di naufraghi; e dietro, a rimorchio, sette otto zattere con altri grappoli umani. C’è, fra gli altri, ferito, il capitano di corvetta Banfi, comandante della torpediniera, che aveva voluto calare in fondo con la propria nave, ma il mare l’aveva ricacciato su a forza, costringendolo a salvarsi. Con l’uniforme così conciata non si può davvero capire il suo grado. Basta però che parli e tutti lo riconoscono come capo. «Coraggio» egli dice. «Coraggio, ragazzi, che siamo tutti salvi. Non abbiate paura. Anche da soli ci salviamo lo stesso. Abbiamo viveri per due giorni.»
Ma perché gli occhi di Schiano esplorano tanto avidamente il mare attorno? Non è ancora stanco di sperare? Non vede che i naufraghi sono stati tutti raccolti e le onde sono finalmente deserte? La sua voce, ora più fioca, si perde inutilmente senza eco: «Martino! Martino!». E gli altri lo guardano senza dire parola.
Senza dire parola anche perché il cielo si è improvvisamente coperto e il vento comincia a mugolare, cosicché nessuno osa pensare a ciò che potrà succedere. Si mette infatti a piovere forte, il mare diventa cattivo, la motobarca a un tratto si capovolge, quanti bravi compagni che non torneranno mai più.
Un prodiere della motobarca, di nome Vincenzo Marcello, ci ha raccontato: «Da mezzogiorno fino al tramonto noi quattro della motobarca ci siamo tenuti insieme. Si nuotava da una parte, per nostro conto, e con le mani ci si teneva a dei pezzi di sughero. Gli altri erano sugli zatteroni di salvataggio ma ogni tanto anche gli zatteroni si ribaltavano perché il mare era forte. Io dicevo: non ce la facciamo a nuotare, non ce la facciamo, io adesso provo a trovar posto su una zattera. Chi vuol venire con me mi segua. E così abbiamo fatto. Ma Schiano non è venuto appresso. Lui diceva che c’era troppa gente sulle zattere, che erano piene di feriti. E così non l’ho più visto. Poi di notte ho continuato a chiamare: Schiano, Schiano, ma lui non mi ha più risposto».
Schiano diceva che sulle zattere c’era troppa gente. Perfino in quelle ore disperate si ostinava a preoccuparsi degli altri. Gli pareva quasi un egoismo cercar di salvarsi, contendere un posto, mentre tanti compagni stavano peggio di lui, o feriti, o più stanchi, o morti. Gli pareva un’ingiustizia ostinarsi a lottare mentre l’amico aveva già lasciato la vita.
Per un pezzo continuarono a chiamarlo. Ma era inutile. E non lo si sarebbe potuto vedere, fosse stato pur lì a due metri, perché era notte e il cielo tutto coperto. Nuotava, certamente nuotava perché questo era il suo preciso dovere di soldato, ma sempre più adagio, adagio. Forse si trovò di là senza neppure accorgersi, e vide improvvisamente accanto a sé il vecchio amico Martino con cui era andato a scuola, con cui aveva fatto i primi giochi, imparato a nuotare, ricevuto la cresima, conosciuto il primo amore. E non dico che subito i due si siano sentiti completamente felici perché sulla terra lasciavano molte cose amate, ma certo si sorridevano, provando una grande consolazione.
A raccontarla così può sembrare una storia comune, un episodio dei tanti, per nulla fuori della regola perché nei momenti difficili l’eroismo è davvero la regola dei marinai d’Italia. Ma ci pare che la vita del marinaio scelto Schiano, morto per salvare gli altri e ritrovare il vecchio amico Martino, sia terminata in maniera commovente e assai nobile. A bordo lo conoscevano come uno dei marinai più bravi e simpatici. Era piccolo, bruno, sempre allegro.
Con preghiera di far pervenire questo articolo, se approvato, all’Ufficio romano del “Corriere della Sera”, corso Umberto 380.
27 dicembre 1940
Nota
L’articolo rimase inedito; così rispondeva il Gabinetto del Ministero della Marina: “Il Vostro articolo ‘Un marinaio’ è stato esaminato personalmente dall’Ecc. il Sottosegretario di Stato il quale ha espresso il parere che non sia opportuno pubblicarlo attualmente, ‘per non risvegliare in molti ricordi il tormento di una fine così tragica’, e che la pubblicazione possa essere rimandata di qualche tempo. Ve ne informo, per Vostra conoscenza e Vi restituisco l’articolo. Con molti cordiali saluti”.