Una nostra torpediniera contro tre incrociatori e quattro caccia

BASE NAVALE DI X, GENNAIO

“Colpito da una granata che gli asportava una gamba, rifiutava di essere trasportato in luogo più ridossato e solo concedeva che gli venisse legato il troncone dell’arto non per vivere, ma per continuare a combattere.” Così nella recente motivazione della medaglia d’oro alla memoria del capitano di fregata Pietro De Cristofaro, da Napoli, comandante di silurante. E tutti probabilmente hanno letto quelle righe. Ma il meraviglioso combattimento nel quale De Cristofaro scomparve non è mai stato raccontato.

Poche volte ci fu sul mare di guerra così magnanimo prorompere di eroismo. Nel tempo di pochi minuti, entro il breve spazio della piccola nave, avvennero così numerosi e commoventi episodi che quasi non par vero. Caduta l’ultima speranza, non disperazione prese quegli uomini, bensì fuoco di stoica emulazione. Rimase un desiderio: essere degni del comandante e mostrare al nemico chi fossero i marinai italiani. Così, intorno alla plancia, da cui l’esempio si irraggiava, fiorì nella notte una storia sublime.

Abbiamo incontrato uno dei pochi ufficiali superstiti. Egli ha detto: «Preferirei non parlarne. Potrò tutt’al più raccontare il fatto nudo e crudo. C’è una specie di patto con i miei compagni che si sono salvati. Appena portati a terra e ricoverati all’ospedale, ci siamo messi d’accordo: parlarne il meno possibile». Egli infatti ci ha fatto una relazione scarna, tacendo ciò che si riferisce all’animo umano (il resto lo abbiamo poi ricavato dal foglio d’ordini contenente le motivazioni).

Non occorrono gli aggettivi per fare intendere la grandezza di quella notte. La sola cronaca è già abbastanza potente. Ora state a sentire. Il capitano di fregata De Cristofaro comandava una silurante di scorta a un convoglio, in acque specialmente pericolose. Era notte e nubi coprivano la luna. Il bastimento procedeva in testa alla formazione. Verso le 2.30 balenarono di poppa fitti lampeggiamenti e si udirono esplosioni. La coda del convoglio era stata improvvisamente attaccata da forze nemiche. De Cristofaro invertì subito la rotta per accorrere in aiuto ai piroscafi. (Del combattimento l’ufficiale ci ha riferito solo la parte riguardante la sua nave; non possiamo perciò dire ciò che fecero, e con tanto valore, le altre unità presenti.)

Da principio non si vide che il lampeggiare delle artiglierie nemiche, le traiettorie luminose dei colpi, le fiamme rosse delle esplosioni. Quanti erano gli inglesi? Parecchi, troppi, a giudicare dalle vampe. In realtà si trattava di tre incrociatori e quattro grossi cacciatorpediniere: forze di superiorità schiacciante. Avvicinandosi la silurante, per prima emerse dal buio la sagoma di un incrociatore, che defilava sulla dritta di controbordo. Un gigante al confronto. Ma De Cristofaro mosse all’attacco.

Nell’atto che si rivelò nelle tenebre, l’incrociatore, coi pezzi da 152, aprì tiro battente da non più di 500 metri; e a quella paurosa distanza imposta dal duello notturno, sbagliare era praticamente impossibile. La silurante immediatamente rispose coi suoi medi calibri; ma le salve inglesi già la percuotevano con tetri schianti. Troppo ineguale la lotta, per potenza e numero d’armi. La virtù dei marinai non poteva bastare. Quando il comandante diede il “fuori!” per i tubi lanciasiluri di prora, non un siluro partì; le granate avevano già fracassato l’impianto. Allora un proiettile, senza esplodere, piombò nella plancia, colpì il comandante, gli troncò sopra il ginocchio una gamba. Subito dopo un altro, che esplose, seminando la strage. Nel buio l’alta figura del comandante più non si distingueva; egli giaceva per terra, in un lago di sangue. Tuttavia si udì la sua voce; era identica a prima, forte e risoluta. Essa ordinava al timoniere: «Vieni a dritta! Tutta la barra!». Venire a dritta significava rotta di massimo avvicinamento verso il nemico.

Ma il timoniere non poté obbedire. Anch’egli giaceva disteso e non dava segno di vita. Provò allora il sottotenente di vascello Domenico Balla (uno dei superstiti) a governare il timone; ma la ruota girava a vuoto, le bussole si erano spente. Tutto si sarebbe detto perduto. Contro la silurante non sparava ora soltanto l’incrociatore. Pure altre navi si erano fatte da presso e, concentrando i fasci dei proiettori sulla leggera unità, la crivellavano: salve di artiglieria, raffiche di mitragliere da 40 a otto canne, che falciavano l’equipaggio. Eppure nessuno pensava a salvare la vita. Una specie di furore guerriero moltiplicava le superstiti energie. Mancato il timone elettrico, Balla, col direttore del tiro tenente di vascello Mauro Miliotti e col collega Ettore Bisagno, scendeva a poppa per ingranare il timone a mano. Mancate le trasmissioni della direzione di tiro, i cannonieri passarono impavidi alla punteria diretta, ripristinarono i complessi avariati, martellarono di fuoco gli inglesi, fin che ci furono munizioni. Il comandante si era fatto legare il troncone dell’arto, così da arrestare un po’ il sangue. Puntellandosi con le mani, si teneva dritto a sedere e continuava a gridare gli ordini per la battaglia. La vita da lui rapidamente fuggendo, egli tuttavia sentiva la nave come un’arma valida in pugno, che poteva fare ancora del male al nemico. Con gioia ascoltò i colpi rabbiosi dei propri cannoni, il fiero strepito delle sue mitragliere; con angoscia le sentì a una a una fare silenzio.

Ed ecco nella cupa penombra della plancia farsi avanti un uomo. Si trascinava con immensa fatica, aggrappandosi alle sporgenze delle paratie, brancolando. Era il direttore di macchina, Luca Balsofiore, capitano del Genio Navale. Mortalmente ferito, ormai cieco, tornava dal suo comandante per dirgli che aveva fatto tutto il possibile, che le macchine erano paralizzate, e che voleva morire al suo fianco.

Devastate le artiglierie, terminate le munizioni, la nave finalmente taceva. Già l’abisso cominciava a chiamarla, succhiando il lacero scafo. No, non ancora sconfitta. Quando sembrava che il sacrificio fosse interamente compiuto, la lotta estinta, e non rimanesse più che morire, ecco lo smantellato fortino ridestarsi contro il nemico. Ferito, il sottotenente di vascello Ettore Bisagno, ufficiale alle armi subacquee (anch’egli poi tratto in salvo), mentre la nave sbandava, si portò col sergente Adriano Mazzetti e altri pochi siluristi, tutti sanguinanti di mitraglia, all’impianto poppiero e riuscì a far partire i tre siluri, estrema arma rimasta. Tre vampe paurose incendiarono pochi istanti dopo il fianco di un cacciatorpediniere britannico, squarciandolo; e facendo rintronare la notte.

La vendetta era stata eseguita. E la nave poteva serenamente morire. Una scena di bellezza e solennità senza pari avvenne nelle tenebre, simile a un rito. Con rischio estremo il sottotenente del Genio Navale Spartaco Amodio (che poi si sarebbe salvato) era sceso in quadrato ufficiali a prendere il gagliardetto della nave. Ed ora – morente il comandante in plancia, il comandante in seconda già spento – il direttore del tiro Miliotti agitava per l’ultima volta verso il cielo il vessillo, sopra l’esiguo gruppo dei superstiti riuniti a poppa. Poi quegli uomini alzarono il saluto supremo dei soldati del mare: Viva l’Italia, Viva il Re, Viva il Duce!, mentre il guardiamarina Arnaldo Arioli “il più giovane e il più puro degli ufficiali di bordo” si avvolgeva sul petto la bandiera di combattimento, per riportarla in Patria o morire con essa; e poco dopo, portando con sé il sacro pegno, entrava nel cielo degli eroi.

In tal modo ebbe termine il combattimento, degno di perenne memoria. E le frasi scritte fin qui risultano poverissima cosa, un meschino scheletro della epopea. Non noi, ma nessuno riuscirà mai a raccontare simile avvenimento in modo giusto e degno; a descrivere lo sguardo ultimo del comandante, l’estremo baleno di quegli occhi che intravedono, tra i bagliori funesti, l’ombra della nave nemica che affonda, e allora non c’è più motivo di vivere un minuto di più e le palpebre scendono finalmente sulle consolate pupille.

“Corriere della Sera”, 23 gennaio 1942