Stefano Tacconi
«Ad Avellino dovevo fare anche da libero, figuriamoci se mi spavento per il fatto di giocare in una squadra come la Juventus». Si presenta così a Torino quella faccia tosta di Stefano Tacconi, ostentando sicurezza, convinto che non sia poi un’impresa così ardua il doversi inserire fra i pali di una squadra che può vantare una delle retroguardie più impenetrabili del campionato italiano, coi vari Favero, Cabrini, Brio e Scirea.
Il riccioluto venticinquenne di Perugia, con quel baffo biondastro e quel fare da ardimentoso scavezzacollo, sembra proprio un perfetto moschettiere. Per tre stagioni ha difeso a spada tratta la porta dell’Avellino: una fatica degna di D’Artagnan e compagni, che ha permesso alla piccola squadra irpina di scalare la classifica fino a raggiungere l’ottavo posto. Mai prima di allora i lupi bianco-verdi erano arrivati così in alto, ma con Tacconi in porta a fare da capobranco non c’è da temere niente e nessuno. Se ne accorge anche la Vecchia Signora quando, nell’estate del 1983, inizia a cercare col lanternino qualcuno talmente forte e coraggioso da riuscire a indossare quella maglia numero 1 portata ad altezze stratosferiche da Dino Zoff.
In Casa Juve si è appena assistito alla conclusione di un ciclo glorioso che dal 1971 ha fruttato la bellezza di 7 scudetti: una dinastia dorata capace di rifornire la Nazionale neo campione del mondo con almeno 6-7-8 elementi alla volta. A fare da spartiacque proprio la stagione 1982-’83, un’annata che poteva rivelarsi epica per i colori bianconeri, con la possibilità di una storica tripletta scudetto-Coppa dei Campioni-Coppa Italia, ma che invece è finita tristemente con la conquista del trofeo meno prestigioso, a causa di un beffardo tiro a spiovere del tedesco Magath e di un’incredibile rimonta del Toro nel derby. A conclusione di tutto, come se non bastasse, ecco anche il rammarico per alcuni addii illustri: quello complicato di Bettega e soprattutto quello confuso e amaro di Zoff.
La leggenda del calcio italiano, la bandiera che aveva avvolto e reso impenetrabile per oltre un decennio la porta bianconera, alla veneranda età di 41 anni pianta un chiodo sull’incrocio dei pali e ci appende i guantoni. Così la Juve, consapevole che sostituire Super Dino nazionale è impresa ben più che complessa, decide di rischiare il tutto per tutto e poggia la pesante eredità sulle spalle del giovane Tacconi.
A prima vista, bisogna dirlo, quest’acrobatico ragazzone biondo e baffuto sembra l’antitesi del precedente numero 1, sempre composto e silenzioso. L’apparenza non inganna: Stefano è davvero un portiere dal carattere sbruffone e dai modi teatrali, tanto che fin da subito lo chiamano “Capitan Fracassa”. Appaiono come lo specchio del suo carattere istrionico perfino le divise dai colori sempre più sgargianti e vistosi che il perugino può indossare grazie alla moda del tempo, livree che contrastano in maniera plateale con l’immagine offerta dal grigio Zoff. Eppure lo smargiasso portierone esploso ad Avellino ci tiene a non far rimpiangere il suo insigne predecessore.
Già al suo debutto, l’11 settembre del 1983, Tacconi decide di sottoporre ai tifosi juventini un eloquente biglietto da visita. Si gioca Juve-Ascoli e il disinvolto novizio, merito anche di una gara senza storia che termina con un inappellabile 7-0 in favore dei padroni di casa, mostra subito di che pasta è fatto in occasione di un rigore concesso ai marchigiani. Capitan Fracassa si liscia il baffo, estrae dal fodero il suo balzo meglio assestato e vince il duello dagli undici metri col malcapitato De Vecchi.
Da quel momento in avanti, convincendo con prestazioni maiuscole anche i più scettici, il nuovo numero 1 comincia a fare il Tarzan sotto la Mole, lanciandosi da un palo all’altro e contribuendo a conquistare già al primo anno in bianconero una memorabile doppietta scudetto-Coppa delle Coppe. L’anno dopo, tuttavia, le cose non girano per il verso giusto. Nell’autunno del 1984, la Juventus di mister Trapattoni si trova intrappolata nelle sabbie mobili di un’improvvisa crisi, complice una sonora sconfitta per 4 a 0 contro l’Inter e il tragico derby in cui proprio Tacconi, al culmine di una serie di incertezze imbarazzanti, si dimentica di uscire al novantesimo su un calcio d’angolo di Leo Junior e permette al centravanti di Montebelluna Aldo Serena di insaccare il gol del delirio granata. Un derby vinto all’ultimo minuto ti rende un eroe; un derby perso all’ultimo minuto ti trasforma immediatamente in un capro espiatorio.
Stefano è costretto a pagare in prima persona la crisi juventina, vedendosi consegnare dal Trap la maglia numero 12 e dovendo cedere i guanti da titolare all’eterno secondo Luciano Bodini. Ma il focoso perugino non ci sta. «Tacconi ha aperto il fuoco!», titolano i giornali in quell’autunno caldo. Il moschettiere, l’eroe di cappa e spada della Juventus non ha cambiato arma, semplicemente si è stancato di stare in panchina e ha deciso di sparare a zero contro tutto e tutti, ambiente bianconero incluso, con sfuriate mai viste in casa Juve. Piovono multe a sedare il suo animo ribelle, magari giusto più blande quando il destinatario delle sue invettive è il nuovo presidente milanista Berlusconi coi suoi elicotteri. Intanto trascorre l’inverno in panchina a rinfrescarsi le idee.
Soltanto in primavera, passata la tempesta, il portiere coi baffi a punta e il capello ingellato può finalmente dimostrare di aver imparato la lezione. Para tutto nelle ultime partite di campionato e agguanta anche la Coppa dei Campioni nella disgraziata finale dell’Heysel, quando crolla il settore Z dello stadio, seppellendo nei cuori dei bianconeri la gioia di aver conquistato il trofeo più prestigioso.
Proprio in quanto a successi sportivi, il Tarzan di Perugia non è davvero secondo a nessuno. Semmai dimostra l’opposto, al termine di dieci redditizie stagioni sempre in difesa della porta juventina. Solo nove giocatori in tutto il mondo, infatti, hanno potuto fregiarsi delle tre coppe europee più importanti per club. Tra questi c’è un solo portiere: Stefano Tacconi. E non è finita qui. Se aggiungiamo a questi trofei anche la Supercoppa Europea e la Coppa Intercontinentale, i giocatori capaci di una bacheca così ricca e variegata diventano solo cinque, e l’unico portiere a far parte di questo ristretto novero è sempre lui. Proprio quei calci di rigore che l’8 dicembre del 1985, a Tokyo, decidono la Coppa Intercontinentale fra gli zebrati e i rossi dell’Argentinos Juniors, sono l’immagine preferita a cui corre la memoria di ogni tifoso bianconero se gli nominate Tacconi. In quell’occasione, infatti, non solo Stefano contribuisce a realizzare il Grande Slam juventino, ma riesce addirittura a mettere in scena il sogno di ogni portiere, ossia quello di fare la voce grossa durante la drammatica lotteria dei rigori.
Tacconi è lì, in piedi fra i suoi pali, coi pugni stretti e la maglia verde, assediato d’intorno dall’incessante frastuono prodotto dai supporters giapponesi e dalle loro insopportabili trombette. Il Capitan Fracassa delle innumerevoli guasconate stavolta appare serio e concentrato, mentre il grumo di tutte le emozioni di quella estenuante partita si addensa in pochi minuti lungo appena undici metri. Tutto, in quegli attimi fatali, pare muoversi sotto il segno dell’estremo baluardo bianconero, mentre le speranze di vittoria degli argentini si infrangono via via sui suoi guantoni, per ben due volte. Due parate su quattro tiri che alla Juve sembrano scalini dorati per salire sul tetto del mondo. Quando Sua Maestà Michel Platini mette a segno il rigore decisivo, l’urlo liberatorio di Stefano Tacconi è incontenibile. Lui crolla a terra, sommerso da un nugolo di compagni che gli si accatastano sopra per festeggiarlo come vero eroe di giornata. Il suo urlo, in quel momento, riesce a sovrastare persino le irritanti trombette giapponesi.