Gaetano Scirea

«Gaetano te lo porto io a Torino, perché questo ragazzo è diverso da tutti gli altri», afferma con un mezzo sorriso il presidente atalantino Bortolotti nell’estate del 1974, mentre stringe la mano a quella vecchia volpe del suo parigrado bianconero Giampiero Boniperti, col quale ha appena concluso una bellicosa contrattazione che consegna alla Juventus la proprietà del ventunenne Scirea in cambio di 700 milioni più Mastropasqua, Marchetti e Musiello.

Le parole premurose del presidente dell’Atalanta non sono ingiustificate, perché questo timido ragazzone venuto da Cernusco sul Naviglio, un paesino alle porte di Milano, sembra avere per davvero qualcosa che lo differenzia da tutti gli altri. A Bergamo, in serie B, il mister Heriberto Herrera gli ha affidato il ruolo di libero, alle spalle della linea difensiva nerazzurra, ma anche la licenza di spingersi in avanti, come centrocampista aggiunto e ancora, non di rado, come attaccante in più. Il taciturno Gaetano ha detto di sì con la testa, muovendo su e giù quel suo prominente nasone che torreggia sotto le sopracciglia perennemente aggrottate, però ha deciso di non limitarsi ad assolvere diligentemente il suo compito, anzi ha mostrato un’affidabilità e una sicurezza nei propri mezzi tali da stupire tutti, soprattutto gli osservatori bianconeri.

Il giovane Scirea possiede una classe innata e cristallina, oltre a uno stile di gioco da veterano consumato, perciò non stupisce che il mister juventino Carletto Parola disponga di metterlo in campo già alla terza gara di campionato contro il Varese, infilandogli la maglia zebrata numero 6 che fino a quel momento indossava Spinosi. A coronamento della sua prima esaltante stagione alla corte della Vecchia Signora, ecco arrivare subito lo scudetto, così anche l’introverso Gai è costretto a vincere la sua timidezza e a festeggiare in discoteca insieme a tutta la squadra, brindando fino all’alba. Quand’è il momento di rincasare, a Scirea viene in mente di comprare i giornali appena usciti che celebrano l’impresa juventina. L’edicola davanti casa è vicina alla fermata dove tanti operai della fiat partono con l’autobus per andare in fabbrica. In quell’istante Gaetano si osserva vestito da sera alle sei del mattino e poi, con i suoi piccoli occhi puri, sbircia quei ragazzi che vanno a lavorare. All’improvviso ha un moto di vergogna, lascia perdere i giornali che acclamano la Juve e torna a casa, addormentandosi con la felicità per la vittoria, ma anche con un minimo groppo alla gola per essere un privilegiato della vita. Potrebbe sembrare una storia mielosa da libro Cuore, ma il giovanottone lombardo è esattamente così: una persona buona e genuina, prima ancora di essere un calciatore immenso.

Da quel momento in avanti, per la Juventus e per Scirea sarà un susseguirsi inarrestabile di successi, con lui sempre presente lì dietro a gestire le operazioni e a trascinare i colori bianconeri sul tetto d’Italia come pure su quello d’Europa. Al braccio ha la fascia blu di capitano ereditata dall’inesauribile Beppe Furino e in tasca il titolo, ottenuto a giudizio plebiscitario, di libero più forte di sempre, bandiera indiscussa di quella Juve stellare targata Boniperti. Sua Maestà della difesa Gaetano Scirea è inoltre un giocatore fra i più leali e corretti che si siano mai visti sui rettangoli di gioco. Proprio lo scafato presidente bianconero si danna l’anima per spronarlo ripetutamente a mostrare un po’ di malizia e a essere più cattivo nei suoi interventi difensivi, ma l’opera di persuasione di Boniperti resta inascoltata, perché Gai è fatto così: tanto impeccabile nel senso della posizione quanto estremamente pulito nel corpo a corpo con gli avversari, al punto che non gli verrà inflitto, al termine della sua lunga carriera con la Juventus, neppure un cartellino rosso e nessuna giornata di squalifica.

Per tredici splendide stagioni, con una classe e un’eleganza inarrivabili, Scirea indossa la sua amata numero 6 a strisce bianche e nere, accumulando la bellezza di 552 gettoni di presenza: un record che resterà ineguagliato per molto tempo, fino all’avvento dell’ultima bandiera juventina Alex Del Piero. Nel mezzo, ben sette tricolori e tutte le coppe possibili, compresa quella più dorata che lui può alzare al cielo l’11 luglio 1982, a Madrid, indossando la maglia azzurra.

La Juve di Scirea, d’altronde, offre il bacino privilegiato dal quale la Nazionale italiana di quegli anni attinge a piene mani. Ben otto undicesimi della squadra messa insieme dal ct azzurro Bearzot sono juventini e il saggio Gai, proiezione dell’allenatore in campo, ne è il leader silenzioso. Lui è la colonna e il punto di riferimento per i più giovani, quello da cui i compagni vanno per un consiglio fraterno e per una parola buona: chiedere per conferma a Marco Tardelli, che nelle notti agitate e insonni del Mundial spagnolo trova riparo e consolazione in quella che lui chiama “la Svizzera”, ovvero la camera d’albergo dove Dino Zoff e Gaetano Scirea, i due laconici califfi del gruppo, giocano a carte con una calma olimpica invidiabile, capace di sedare anche l’animo più burrascoso.

Proprio il Vecio Bearzot, la prima volta che anni addietro lo aveva visto a un ritiro della Nazionale Under23, era rimasto incantato dalle qualità del fuoriclasse di Cernusco, al punto da dichiarare: «È un angelo piovuto dal cielo». Peccato che, quello stesso cielo dal quale Gaetano sembra provenire, abbia voluto richiamarlo indietro troppo presto.

Ad appena un anno di distanza dal suo ritiro, l’ex capitano juventino ha trentasei anni e ormai siede al fianco del suo amico Dino Zoff sulla panchina bianconera con la qualifica di vice-allenatore. Il 3 settembre del 1989 si trova in Polonia per osservare l’avversario dei bianconeri nel primo turno di Coppa uefa, quando un tragico incidente stradale lo imprigiona fra le lamiere infuocate di una vecchia fiat 125.

Tre giorni dopo qualcuno decide di poggiare un vaso di fiori al limite dell’area, proprio sotto la Curva Filadelfia, lì dov’è situato da sempre il luogo magico di Gaetano Scirea, la sua casa, il posto preferito della sua carriera da calciatore. Proprio al limite dell’area dove si trovano ora quei fiori, Gaetano aveva inventato il ruolo del libero moderno, fermando tutti gli avversari del mondo, senza mai sbagliare una partita. Solo una volta, con il campo ghiacciato, aveva avuto qualche difficoltà, e forse un’altra volta in un derby aveva commesso qualche errore di troppo, ma poi si era fatto perdonare andando a siglare una memorabile. Quel 6 settembre del 1989 lo stadio di Torino è stracolmo di tifosi commossi perché il più forte difensore della storia della Juventus non c’è più.

«Gaetano sei sempre con noi», «Gai, un mito, una leggenda», «Gaetano rimarrà sempre nei nostri cuori». La Curva Filadelfia piange parole di commozione, offre dediche sentite e testimonianze d’affetto. Alla tifoseria non basta il simbolico minuto di silenzio, gliene dedica dieci, perché lui era dieci volte meglio di tutti gli altri.

Quel buio mercoledì di settembre la squadra deve scendere in campo nonostante l’intero popolo bianconero avrebbe solo voglia di piangere la sua bandiera, il suo uomo simbolo prematuramente scomparso. Tutti vorrebbero raccontare di lui, ripensando alla sua umanità e alla suo fulgido esempio. Purtroppo, invece, bisogna giocare a pallone. In campo c’è una partita e alla fine c’è anche un risultato, ma non conta niente. Contano di più le parole di chi cerca con affanno di esprimere i propri sentimenti. «Ci sentiamo tutti un po’ più poveri, ma bisogna continuare», dichiara mestamente Giampiero Boniperti. «Bisogna continuare», l’avrebbe detto senz’altro anche Gaetano Scirea: non avrebbe ammesso che la Juve non pensasse alla prossima partita per colpa sua.