Romeo Benetti
La Signora del calcio italiano è sempre stata piuttosto restia a concedere una seconda occasione ai calciatori che non riteneva adatti a vestire i colori bianconeri. L’eccezione si chiama Romeo Benetti: l’uomo che, nella Juventus, ha vissuto due volte.
Da imberbe ventitreenne, il giovanotto di origini venete giunge a Torino per la prima volta nell’estate del 1968. Si tratta di un centrocampista a tutto tondo, esploso calcisticamente nel profondo Sud, prima al Taranto e poi al Palermo. Spicca per abilità soprattutto nella fase di interdizione, essendo un vero e proprio carrarmato della linea mediana, ma i suoi solidi fondamentali da guerriero incontrista trovano un prezioso contraltare nella sua ottima attitudine offensiva. Fuori dal rettangolo di gioco, Romeo è un tipo modesto e con la bocca sempre cucita. Uno che se ne resta volentieri in disparte e che schiva la pubblicità con accorte finte di corpo, sbilanciando ogni volta tutti i giornalisti.
Esemplare quanto avviene al Comunale il 15 settembre del 1968. Quel giorno, in una delle sue primissime apparizioni davanti al pubblico di fede bianconera, il giovane Benetti l’ha fatta davvero grossa. Ha infatti segnato ben 3 gol in una volta sola: 3 reti bellissime, 3 bolidi che hanno lasciato esterrefatto il portiere doriano Matteucci, facendo di lui il mattatore della sfida di Coppa Italia fra Juve e Samp. La sua impresa è stata tale che i tifosi in visibilio lo avrebbero volentieri condotto in trionfo, se solo Romeo non fosse sfuggito ai complimenti, ai riflettori e alla gloria, scappando verso casa in tutta fretta.
Nonostante prestazioni di indiscutibile valore, il mediano con la dinamite nei piedi non convince completamente la dirigenza, complice soprattutto il palese disamore manifestato nei suoi confronti dal mister bianconero Heriberto Herrera. Il verdetto irrevocabile, a fine stagione, sentenzia che Romeo Benetti non è da Juve. E la soluzione più veloce, senza andare troppo per il sottile, è quella di cederlo immediatamente alla Sampdoria.
Per fare una piena operazione di chiarezza, bisognerebbe anche ammettere che l’intera Juventus del 1968-69 non era da Juve. C’erano senatori senza particolari ambizioni, giovani troppo acerbi e dirigenti oramai scarichi: un cocktail che non poteva avere successo. Al termine di un’annata a dir poco sottotono, non a caso, la Vecchia Signora riesce a piazzarsi solo quinta in campionato, per di più uscendo subito sia dalla Coppa delle Fiere che dalla Coppa Italia.
Poco male. Benetti si appassiona poco a queste diatribe perché, a dirla tutta, il calcio gli interessa relativamente. A quel tempo, infatti, Romeo sta vivendo la sua avventura nel mondo del pallone come una sorta di forzatura, o meglio come un tentativo su cui puntare il giusto. Lui ha già esercitato da maestro tipografo e ritiene che questa resterà la sua professione per il futuro. Ovviamente non sarà così, ed è proprio l’esperienza formativa in bianconero a suscitargli profonde riflessioni: «All’inizio le cose non sono andate bene, ma alla Juventus ho capito che rincorrere e prendere a pedate un pallone poteva diventare un lavoro che potevo portare a compimento per il resto della mia vita».
Abbandonate definitivamente le velleità nell’ambito della tipografia, Benetti si consolida come calciatore completo in maglia rossonera, forgiato a dovere all’interno delle officine meneghine del grande Nereo Rocco. Nel Milan dimostra di avere leadership e carattere, oltre che muscoli e polmoni. È sì un taciturno, ma le sue gambe si muovono a velocità inversamente proporzionale rispetto alla lingua. Possiede un tiro da lontano potentissimo e preciso, mentre nel mezzo del campo è granitico e a tratti brutale. I suoi famosi tackle, spesso al limite del regolamento, gli guadagnano la nomea di picchiatore. Perché Romeo è uno che non leva mai la gamba e la sua grinta viene erroneamente scambiata dai suoi detrattori per cattiveria, anche se c’è da ammettere che alcuni suoi interventi mettono davvero i brividi.
Nel 1971 il cane rabbioso del centrocampo milanista becca addirittura una denuncia penale per un fallaccio assassino che frantuma il ginocchio del bolognese Francesco Liguori, compromettendogli la carriera. Ma se chiedete a Romeo Benetti quante volte sia stato espulso nella sua di carriera, lui si schiarisce la voce e risponde: «Mai stato espulso!», poi sorride sotto i baffi, sapendo di mentire.
Nel 2008 il quotidiano inglese «The Sun» stila una classifica dei giocatori più duri della storia del calcio. Primo posto: Graeme Souness; secondo posto: Andoni Goikoetxea; terzo: Dave Machey; alla quarta posizione il nostro Romeo Benetti, che dichiara prontamente ai giornali: «Ecco, questa cosa mi ha fatto incazzare. Speravo di essere al primo posto!». Ma che macellaio poteva mai essere uno che allevava canarini? Proprio così. Il mediano più feroce d’Italia era ancora scapolo quando ricevette in regalo una coppia di canarini, coi quali si dilettò a partecipare a un concorso che, a sorpresa, finì per vincere. E ovviamente, da quel momento in avanti, i cronisti del pallone diedero vita alla più classica delle leggenda informando i loro lettori che: «Il Benetti dai tackle duri ha anche un cuore tenero».
Il Benetti che nel 1976 si presenta al secondo appello con la Juventus magari non sarà particolarmente tenero, almeno non in campo, ma di certo è un giocatore esperto, collaudato e determinante. Era andato via ancora ragazzo vagheggiando di smettere col calcio per riprendere a lavorare come tipografo, torna in età matura con molte convinzioni in più e due mustacchi folti sopra il labbro. I bianconeri sono reduci da una stagione amara durante la quale hanno visto sfumare all’ultimo uno scudetto che sembrava vinto. Il presidente Boniperti non può far altro che congedare l’allenatore Parola, sostituendolo con un giovanissimo Giovanni Trapattoni, fresco di apprendistato sulla panchina del Milan sotto la supervisione del solito Nereo Rocco. Invece di andarci cauto, il Trap si prende subito un bel rischio: quello di abolire il regista puro. Perciò via Fabio Capello e le chiavi del centrocampo juventino, oltre che la maglia numero 10, finiscono proprio nelle mani del trentunenne Benetti, un boscaiolo qualificato. Sostenere che Romeo sia un 10 atipico è un mero eufemismo, ma il tranciacaviglie veneto non si scompone e prende il comando della mediana bianconera con autorità e carisma, custodendola efficacemente e ripartendo con frequenza verso la porta avversaria.
Nella sua seconda vita alla corte della Signora, il pupillo di Trapattoni gioca sempre e bene. Quella Juve vince 2 scudetti di fila, subendo solo 37 gol in 60 partite. Uno strapotere assoluto che nel campionato 1976-’77 consente di cannibalizzare 51 punti sui 60 disponibili: un record. Nel maggio del 1977 trionfa anche in Coppa uefa, il primo trofeo continentale mai conquistato dalla società bianconera, che resterà per sempre l’unico successo internazionale di una squadra italiana senza alcun giocatore straniero in rosa.
Il giorno in cui torna per la prima volta da ex a San Siro, Benetti fa vedere di essere ormai uno da Juve. È il 7 novembre 1976, quinta giornata. Pessimo l’inizio: dopo nemmeno 20 minuti il Milan è già sopra di 2 reti. Ma il baffuto Romeo non ci pensa nemmeno a mollare di fronte al Diavolo rossonero. Sotto un inferno fradicio di pioggia, si carica la squadra sulle spalle e spinge i suoi compagni all’assalto del fortino avversario. Un sensazionale gol di Bettega accorcia le distanze, mentre il pareggio è tutta opera sua con un missile terra-aria scagliato dai sedici metri, dopo una pregevole triangolazione con Furino. All’ottantesimo sarà ancora Bettega a firmare una rete pesantissima che apre un nuovo ciclo vincente bianconero. Anni nei quali Benetti ha modo di affinare e rimpinguare il suo bagaglio tecnico, mettendolo al servizio della solita grinta incrollabile. Una grinta da autentica bandiera juventina.
Appena ipotecato il secondo scudetto consecutivo, è già l’ora per Romeo di prendere parte da titolare al Mondiale argentino, durante il quale dimostra di meritare la maglia numero 10 azzurra con prestazioni da autentico fuoriclasse. E quella 10, bisogna dirlo, non era mai stata tanto sudata. Poi, nel 1979, Benetti dice addio alla Signora regalandole una Coppa Italia come ultimo dono. Ormai trentaquattrenne, si congeda a testa alta dai tifosi juventini, portando i suoi baffoni e i suoi celebri tackle nella Capitale, sponda giallorossa, con la consapevolezza di aver vissuto come meglio non poteva la sua seconda occasione in bianconero.