Ernesto Castano

Indimenticato capitano juventino per un intero lustro sul finire degli anni Sessanta, Ernesto Castano è l’esempio più limpido di cosa voglia dire fedeltà, spirito di abnegazione e attaccamento alla maglia. Pur di non farsi portar via la sua amata numero 5 a strisce verticali bianche e nere, il difensore di maggior classe che la Juve abbia mai avuto – come lo definisce chi ha avuto il piacere di combattere al suo fianco – ha infatti accettato di stringere i denti e di giocare quasi tutta la carriera con le ginocchia praticamente frantumate.

Ci sono calciatori attaccati alla maglia e quelli a cui invece la maglia si appiccica addosso. Dettagli linguistici, potrebbe obiettare qualcuno, ma in realtà una differenza c’è e si sente tutta. Nel primo caso sono i giocatori a innamorarsi di una maglia e a essere disposti a tutto per difenderla; nel secondo caso è la maglia, vale a dire la società, la squadra e i tifosi, a innamorarsi del giocatore e a pendere dalle sue labbra, o meglio dai suoi piedi. Ernesto Castano, detto Tino, sceglie la Juventus prima ancora che la Signora gli riconosca uno status da titolare. Lui si aggrappa con le unghie a quella casacca bianconera che un giorno gli viene offerta, se la tatua addosso e non la molla più, anche a costo di rimetterci la salute.

Di maglie, a ben vedere, Tino ne cambia tante nel corso della sua lunga permanenza alla Juve, tutte ovviamente accomunate dai medesimi colori. La prima è la camiciona del 1958, quella che se corri veloce si gonfia dietro fino a suggerire l’idea di una gobba, con il numero di colore rosso inscritto in un quadratone bianco, per essere meglio visibile, impreziosita sul davanti dallo scudetto recante la prima stella, conquistata dagli juventini appena la stagione precedente. L’ultima è la maglia del 1970, quella a righine sottili che rimane più aderente al corpo e più elegante a mostrarsi. L’indossatore è sempre lui, Ernesto Castano da Cinisello Balsamo, classe 1939: un terzino destro tenace e vigoroso, che all’occorrenza può riciclarsi centromediano e che sul finire della carriera assurge al ruolo nevralgico di libero. Un atleta dalla classe innata, ma votato più alla fase di marcatura e di interdizione che a quella offensiva. Uno che per difendere la porta della sua Juventus sarebbe disposto a qualsiasi sacrificio.

Giunto a Torino da prospetto di sicuro talento, il diciannovenne pescato tra i cadetti della Triestina ha subito l’opportunità di affinare le sue doti tecniche scontrandosi settimanalmente, in allenamento, contro campioni del calibro di Omar Sivori e John Charles. Con il gigante gallese ingaggia durissimi duelli aerei, e spuntarla è un’impresa davvero improba, figuriamoci stare dietro ai dribbling ubriacanti del furetto argentino. Una volta, dando fondo al suo proverbiale sadismo, Sivori decide perfino di umiliare il povero Tino con un tunnel: il tocco funambolico nel quale il CabezÓn è maestro. Poco male, anche queste sono lezioni dalle quali trarre insegnamento. Ma il miglior pedagogo per la futura bandiera bianconera resta l’allenatore Carletto Parola, dal quale Castano apprende il precetto più elementare e più utile: “Occhi sempre puntati sul pallone”, perché è la palla che fa gol, mica gli avversari.

Silenzioso e costante, Tino si dimostra un ottimo allievo. Ascolta tutti a testa bassa, ruba con gli occhi il mestiere di calciatore e fradicia di sudore quella maglia che tanto ama. Poi è duro nei contrasti e bravissimo di testa. Le sue doti da futuro campione le mostra soprattutto il 22 marzo del 1959, quando va in scena a Torino il solito Juve-Fiorentina a tinte infuocate. Il novellino da Cinisello Balsamo disputa un partitone in marcatura sul gigliato Montuori, abilissima ala alla Sivori, tutto finte e scatti. In tribuna c’è Viri Rosetta, venerabile gloria juventina, che si profonde in parole di elogio e promuove il giovane terzino a pieni voti. La maglia numero 5 da titolare è finalmente sua e per il ventenne Castano si prospetta un roseo futuro in bianconero.

Proprio quando tutto sembra andare per il verso giusto, però, il destino beffardo fa un giro su se stesso e un problema inaspettato si palesa all’orizzonte. Il suo fisico, sotto l’apparente vigore, nasconde profonde fragilità. I quattro menischi delle sue ginocchia saltano uno alla volta, come pedine di un domino. Tino finisce spesso sotto i ferri, finché alla terza volta, nel 1961, il chirurgo gli consiglia di appendere gli scarpini al chiodo: «Il suo ginocchio non potrà guarire completamente, deve rassegnarsi». Parole dure che il professor Re pronuncia quando Castano ha solo ventidue anni.

Così non si può proprio continuare, pensano tutti, tranne il cocciuto lombardo. Senza mai darsi per vinto, il difensore riprende ad allenarsi nonostante i dolori lancinanti. Corsa, ginnastica, palleggi, le premure materne della società, le prime partite non impegnative. Gli viene cambiato ruolo, da terzino si sposta al centro della difesa. Lo si vede stagliarsi in mezzo all’area, in precario equilibrio, e poi uscire autoritario dalle mischie col pallone fra i piedi, che prontamente viene spedito agli attaccanti con nitidi allunghi di quaranta metri. Il libero dalle ginocchia di vetro, nella stagione 1966-67, gioca quasi tutte le partite da titolare e da protagonista assoluto, cucendosi sulla casacca il suo terzo tricolore. È il trionfo della Juventus allenata dal paraguaiano di rigida lavagna Heriberto Herrera: quella squadra operaia, priva di grandi stelle, di cui Castano è il minatore che lavora duro nell’ombra, ma anche l’uomo-simbolo che i compagni seguono con ammirazione e al quale viene concesso l’onore della fascia di capitano.

Le sue fragili ginocchia, però, cominciano di nuovo a scricchiolare e ormai non c’è balsamo che tenga. La prima domenica d’aprile del 1970, a Torino contro il Brescia, Ernesto Castano gioca per l’ultima volta con la sua amata maglia a righe bianche e nere. Aveva cominciato tra Emoli e Fuin, chiude tra Morini e Cuccureddu, ma dietro questi dati storico-statistici c’è una stupenda lezione di vita, una straordinaria rivincita sul destino. Attraverso i suoi dodici anni di onorata militanza zebrata, Tino Castano ha finito per diventare il ponte fra il vecchio e il nuovo: la memoria storica della sua Juventus.

L’eroe coraggioso che amava il bianconero più di ogni altra cosa non terminò tuttavia la carriera con l’addio alla Signora, come tutti si aspettavano. Lui aveva ancora voglia di giocare e di soffrire per la sua maglia, solo che la dirigenza juventina non era dello stesso avviso e così il capitano dovette trasferirsi al Lanerossi Vicenza. Una vera ingiustizia per un calciatore che aveva dedicato la sua intera vita a una sola squadra e a due soli colori.

Il gladiatore di Cinisello Balsamo resistette solo cinque partite con i biancorossi prima di arrendersi e dichiarare conclusa la sua esperienza agonistica. Ma se la Juve non si fece intenerire, almeno il fotografo della Panini dimostrò di avere un cuore. Prese l’ultima figurina di Tino in bianconero, la girò a specchio e ripassò con il rosso le righe nere della sua maglia. Sullo sfondo, però, c’era sempre il Comunale di Torino.