Paolo Rossi
La stella di Paolo Rossi comincia a brillare già ad Argentina ’78, dove lo chiamano “Pablito”: l’angelo dalla faccia pulita che si trasforma in un diavolo quando si tratta di rapinare con scaltrezza e rapidità le aree di rigore avversarie. Nonostante abbia solo ventun anni, il ct azzurro Bearzot l’ha convocato a furor di popolo, inserendolo là davanti al fianco di Bettega in quella Nazionale che per otto undicesimi è composta da giocatori juventini, compreso l’esordiente Cabrini. Il goleador toscano no, lui è la punta di diamante del sorprendente Vicenza.
Rossi e il Vicenza, una storia meravigliosa di destini incrociati. I successi della società laniera di quegli anni sono infatti legati a doppio filo alle caterve di reti messe a segno dal giovane centravanti di Prato, che diventa capocannoniere di serie B nel 1977 e l’anno successivo si riconferma primo anche nella classifica marcatori di serie A: un doppio titolo che, oltre lui, solo un certo Alex del Piero può vantare. Abilissimo a tessere la sua fortuna tra le file del Lanerossi, Paolo ha trascinato i biancorossi del presidente Farina, un gol dietro l’altro, fino a uno storico secondo posto in campionato, proprio alle spalle Juventus. E questa cosa, ovviamente, non sfugge allo sguardo attento della dirigenza bianconera.
Il colpo di fulmine tra Pablito e la Vecchia Signora era scoccato in verità molti anni prima, quando il pratese aveva sedici anni e giocava da ala destra nella Cattolica Virtus, una squadretta della sua città natale. Il dirigente juventino Italo Allodi aveva notato subito questo portentoso ragazzo, magrolino e con le ginocchia fragili, che in molti lusingavano paragonandolo a Garrincha, forse per quel modo dinoccolato ma imprendibile che aveva di involarsi sulla fascia. Con lusinghe e promesse di un brillante avvenire, il lungimirante talent-scout bianconero riesce a condurlo nel suo vivaio, vincendo le reticenze della famiglia Rossi, che con la Juve era già rimasta scottata quando aveva mandato a Torino il primogenito Rossano, poi scartato. Ma Paolo è un’altra cosa: lui entra subito nel giro della prima squadra, poi viene spedito a farsi le ossa nel Como e quindi in comproprietà nel Lanerossi Vicenza, dove splende come non mai. Segue però il suo periodo più buio, al Perugia, quando al girovago toscano viene comminata una lunghissima squalifica per un fattaccio mai chiarito di calcio scommesse.
Proprio durante la quarantena del più promettente attaccante italiano di quegli anni, il presidente bianconero Boniperti decide di andare alle buste col parigrado vicentino Farina per riscattare la proprietà del giovane reietto. Così, con cifre che fanno scalpore, la Juventus si riappropria del campioncino ammirato in Argentina, con la fiduciosa speranza che lui possa risorgere.
Dopo due anni di dolorosa separazione dal calcio giocato, il 2 maggio del 1982 è il giorno in cui ha inizio la seconda primavera di Rossi: il cannoniere sfortunato che, a venticinque anni, ancora non ha vinto nulla. Il totonero è una ferita profonda nel suo cuore, una cicatrice che solo il pallone può lenire. Quel giorno la Juve gioca a Udine una partita importantissima per conservare il punticino di vantaggio sulla Fiorentina, a sole tre giornate dalla fine del campionato. Paolo ha una voglia matta di sentirsi di nuovo un calciatore e decide di appagare questo desiderio a suo modo, avventandosi come un falco per deviare in rete un perfetto cross di Brady. Il ventesimo scudetto della storia juventina, quello della seconda stella, porta anche la firma del ritrovato numero 9 bianconero.
Dopo un digiuno durato fin troppo, Paolo Rossi è finalmente tornato a sedersi al banchetto del gol e ora vuole farne indigestione. Comincia dal Mundial iberico, convocato a sorpresa da Bearzot, non senza l’immancabile polverone di polemiche. Le critiche rivolte a mezzo stampa sono schiaffi pesanti e impietosi nei suoi confronti e verso l’intera spedizione azzurra, ma Pablito e gli altri italiani se ne nutrono per rinforzare il proprio orgoglio e per accrescere la propria motivazione. Testa bassa e bocca cucita, forte di un silenzio che farà storia, la Nazionale di Bearzot tira dritto per la sua strada e supera con spirito avventuriero un avvio a dir poco complicato. È proprio nel momento di massima difficoltà che l’estemporaneo attaccante juventino diventa l’hombre del partido: l’uomo in più capace di ripagare la fiducia del suo mister segnalandosi come il vero mattatore del torneo. Rossi è il Re Mida del calcio che trasforma in gol ogni pallone toccato, dapprima facendo piangere i brasiliani con una roboante tripletta, poi spazzando via la Polonia con un sigillo per tempo, infine aprendo la strada per la conquista del titolo più ambito durante la finalissima contro i tedeschi. Mosso da un incontenibile desiderio di rivincita, il famelico numero 20 arriva addirittura a spintonare via l’amico Cabrini per poter siglare la prima marcatura, felice viatico verso la terza stella mondiale.
Alla fine della sorprendente cavalcata azzurra, delle feroci critiche iniziali non c’è ovviamente più traccia. Al contrario, un coro unanime di sperticata acclamazione si alza da ogni parte dello Stivale. Il Campionato del mondo è d’altronde l’appuntamento cruciale che un intero popolo attende e segue con trepidazione, al punto che il suo ricordo rimane incastonato per sempre nella coscienza collettiva: perché ci si può dimenticare perfino del proprio anniversario di matrimonio, ma certo non del giorno in cui l’Italia ha sollevato al cielo la Coppa del Mondo. Per questo nessun italiano potrà mai dimenticare lui, Paolo Rossi, il campione che a suon di gol ci ha regalato quel trionfo.
Conclusa nel migliore dei modi l’avventura iberica, il riscatto del galvanizzato goleador toscano continua nei rettangoli nostrani con la conquista di una Coppa Italia e del secondo scudetto personale nel 1984, stavolta da protagonista. Tuttavia è in campo internazionale, quando sente gli occhi del mondo puntati addosso, che Pablito si esalta. Fare la voce grossa in Europa non è mai stata una prerogativa della Vecchia Signora, non ancora, ma proprio in quegli anni la bacheca bianconera comincia a vedere rimpinguata con costanza la sua scorta di trofei. Nell’illuminata era di Michel Platini, la Juventus dei sei campioni del mondo, aiutata dai gol dell’eroe di Spagna ’82, conquista la Coppa delle Coppe, la Supercoppa Europea e soprattutto, nella tragica notte di Bruxelles, può alzare la Coppa dalle grandi orecchie, quel trofeo mancato per un soffio due anni prima ad Atene.
Paolo Rossi segna reti importanti, aggirando con astuzia e mestiere la trappola del fuorigioco e concludendo i contropiedi juventini con freddezza da killer. Più spesso lo si vede materializzarsi dal nulla in area di rigore per essere, non si sa come, sempre il più lesto di tutti ad allungare lo zampino e a iscrivere il suo nome nel tabellino dei marcatori, per la gioia del popolo bianconero. Un amore tormentato ma sincero, quello fra la Juve e il suo ladruncolo del gol: un rapporto durato quattro stagioni e coronato da molti allori, perfino dal Pallone d’Oro nel 1983. Tutti successi che per il numero 9 sembrano ancor più preziosi in virtù del modo in cui sono stati voluti e ottenuti, al termine di un accidentato percorso personale che, invertendo l’ordine dei fattori di un noto adagio popolare, ha condotto Paolo Rossi dalle stalle alle stelle.