Claudio Gentile

Il tecnico bianconero Čestmír Vycpálek non è mai stato uno di troppe parole, ma il 2 dicembre del 1973 decide addirittura di esagerare, prendendo un ragazzino appena arrivato dal Varese e buttandolo in campo così, senza nessuna spiegazione. Il diciannovenne in questione si chiama Claudio Gentile e non ha mai giocato neppure un minuto in serie A, fino a quel momento. Tutto ciò che il taciturno allenatore ceco si sente di dirgli sono quattro parole appena: «Stai dietro ad Antonello». Tutto qua, per il resto l’esordiente avrebbe dovuto fare da sé.

In quell’occasione la Juve si trova davvero in emergenza, avendo perso in mezzo al rettangolo di gioco i suoi pezzi forti, ossia i polmoni di Giuseppe Furino e il cervello di Fabio Capello. Gli avversari del Verona ne approfittano fin da subito conquistando il centrocampo. Da inedito mediano, tuttavia, il giovane Gentile dimostra di avere le idee chiare e segue alla lettera la stringata raccomandazione di Vycpálek, opponendo una diga invalicabile alle incursioni avversarie. Tranquillizzato dalla sicurezza del formidabile novizio, che scala senza problemi in copertura, Antonello Cuccureddu si sente libero di poter avanzare in aiuto della manovra juventina. In questo modo la partita cambia completamente volto ed equilibrio: la Vecchia Signora si riappropria del timone del gioco e vince agevolmente per 5 a 1.

Fin dal suo inaspettato debutto nella massima serie, Claudio Gentile si è segnalato come un elemento ben più che affidabile, anzi addirittura prezioso, ma il ruolo di sostituto per il longevo Furino si capisce presto che non calza perfettamente alle sue caratteristiche. Certo, di capitan Furia dimostra di possedere l’identica grinta da combattente, però non c’è dubbio che le sue doti di aggressivo marcatore siano utili più sull’esterno della difesa che sulla linea mediana del campo. Solo che, per trasformarsi in un cardine inamovibile della retroguardia bianconera, bisogna prima battere la concorrenza interna, sgomitando sulla fascia coi vari Spinosi, Marchetti e Longobucco, tutta gente esperta che non ci tiene a lasciare il passo.

In galleria San Federico, l’allora quartier generale della Juventus, sanno perfettamente di aver fatto un affare a portare a Torino questo imberbe giovanotto di belle speranze, nato a Tripoli da genitori italiani e cresciuto lì fino a quando suo padre, un siciliano emigrato in Libia per lavorare nel settore edilizio, non aveva deciso di tornare in patria perché la situazione nel Maghreb aveva cominciato a farsi tesa. Il nuovo acquisto ha le gambe a X, lo sguardo sempre torvo, i ricci corvini e la pelle scurissima, tanto che il sarcastico Avvocato Agnelli, pensando anche alle sue origini, ci mette un secondo netto a ribattezzarlo “Gheddafi”: soprannome che però Claudio non ama particolarmente. Al limite molto meglio labbreviazione Gento.

Nei polverosi campetti della capitale libica, durante partitelle a piedi nudi, italiani contro arabi, Gentile ha imparato a non mollare mai e a prevalere nei duelli corpo a corpo. Una lezione, questa, appresa senza esclusione di colpi, che lui ha modo di ripetere a tutta Italia quando, sbaragliata la concorrenza interna, nel corso del suo secondo anno alla Juventus gli viene finalmente consegnata una maglia da titolare. Nell’undici di partenza di quella squadra che domina dalla metà degli anni ’70 alla metà degli ’80, tra un prima tutto nostrano e un dopo a frontiere riaperte con gli stranieri in campo e lo sponsor sulle casacche, il nome di Gento è una costante: un ponte fra passato e futuro, il minimo comun denominatore che riassume l’identità bianconera, fatta di muscoli e classe. Più spesso lo si vede come terzino destro, non di rado anche a sinistra, a dimostrazione del fatto che oltre alla combattività ci sono anche piedi e una buona dose di tecnica. In seguito lo troviamo riciclato da stopper per sopperire all’assenza dell’infortunato Sergione Brio, finché per un tratto non arriva a indossare addirittura la numero 10. Molte declinazioni dello stesso guerriero, quando vigeva la legge di Trapattoni, che sulle scommesse azzardate e sulle scelte atipiche ha costruito la sua intera carriera da tecnico, colorandola di tricolore.

Nel frattempo, a proposito di scelte atipiche, il rimpatriato da Tripoli trova anche il modo di riprendere in mano i libri di scuola e diplomarsi odontotecnico. Ovviamente non avrà mai bisogno di lavorare in uno studio dentistico, gli sarà sufficiente affilare a regola d’arte i canini per rendere al meglio e diventare il baluardo principe della formazione più vincente d’Italia. Il suo lavoro sono i tackle ruvidi e le marcature asfissianti che annullano qualsiasi avversario, anche il più forte, senza mai dimenticarsi di ripartire rapido, sgroppando lungo la fascia fino al fronte d’attacco, dove piovono i lanci lunghi che lui addomestica col piatto per poi spingersi verso la bandierina di fondo in cerca di un cross efficace. Mancano giusto i gol, una decina in tutto a chiusura di carriera, ma uno davvero importantissimo lo firma contro gli avversari juventini per antonomasia. Si tratta della marcatura che vale il derby del 25 ottobre 1981, quella che porta nel computo della classifica finale 2 punti fondamentali per agguantare lo scudetto numero venti della centenaria storia bianconera. Il tricolore della seconda stella.

Zoff-Cuccureddu-Gentile, poi ancora Zoff-Gentile-Cabrini: ecco la prima riga che riscrive il romanzo della Vecchia Signora come pure quello della Nazionale, a mezzo secolo di distanza da quel Combi-Rosetta-Caligaris che fu la filastrocca più recitata dagli italiani negli anni epici fra le due guerre. Reduce dal vittorioso Mondiale spagnolo, durante il quale ha onorato con tutta la sua proverbiale ferocia agonistica la maglia numero 6 azzurra, addirittura annullando con baffo africano l’estro di Maradona e Zico, sembra che nulla ormai possa fermare Claudio Gentile. Invece, per lui e per la Juve, il 1983 si rivela un vero e proprio annus horribilis, segnato dalla catastrofica finale di Coppa dei Campioni persa inaspettatamente contro i galletti dell’Amburgo e, come se ciò non bastasse, dal tragico epilogo di un campionato gettato alle ortiche in favore della Roma. Una doppia beffa mitigata solo in parte dalla conquista della Coppa Italia.

Forse l’unico capace di decifrare l’accaduto è proprio il lottatore tripolino, che ai microfoni dei giornalisti parla di una luce che si è spenta all’improvviso senza che nessuno sia più riuscito a trovare l’interruttore. Una metafora quanto mai azzeccata, oltre che dura da digerire. Ma l’anno successivo, insieme ai suoi compagni d’armi, il soldato Gento si rifà con gli interessi vincendo in una volta sola tricolore e Coppa delle Coppe. A quel punto, tirato un sospiro di sollievo, il trentenne d’acciaio può scegliere in serenità di chiudere con la Juventus per accettare condizioni economicamente più vantaggiose altrove. Si consuma così un addio in parte inatteso, ma davvero nessuno se la sente di rimproverargli alcunché, anzi i ringraziamenti si sprecano. Perché lui ha sempre dato tutto, dedicando ogni respiro dei suoi polmoni e ogni singola goccia di sudore alla causa bianconera.

A dispetto del suo cognome, Claudio Gentile si è ritirato dal calcio con un’etichetta di cattivo ben appiccicata addosso: una nomea ingrata che lo ha sempre preceduto e che niente ha potuto cancellare. Niente a parte le statistiche. In 405 gare ufficiali con la maglia zebrata, infatti, il duro di Tripoli non è mai stato espulso. Soltanto una volta gli è capitato di rimediare un rosso, ossia durante la semifinale di Coppa dei Campioni giocata dalla Juventus a Bruges nel 1978.

Nel secondo tempo supplementare, a tre minuti dalla fine, il terzino venuto dall’Africa intercetta un pallone con la mano, più per stanchezza che per evidente volontà. L’arbitro Ulf Eriksson, un uomo rimasto tristemente noto per le sciagurate decisioni prese in quella partita cruciale ai danni degli juventini, non esita a mostrargli il giallo e così, per somma di ammonizioni, Gentile deve malinconicamente imboccare la via degli spogliatoi. La sua uscita anzitempo dal rettangolo di gioco è ben più di un presagio nefasto: la sguarnita retroguardia bianconera, rimasta orfana del suo custode più arcigno, incassa dopo appena un minuto la rete che di fatto esclude la Vecchia Signora dalla finale di Coppa dei Campioni, proprio l’unico trofeo che il Feroce Saladino, come lo ha ribattezzato Gianni Brera, non riuscirà mai a vincere.

Amen, undici indimenticabili stagioni in maglia zebrata hanno comunque fruttato all’artigiano della pedata più efficiente d’Italia lo sproposito di 6 scudetti, arricchiti da un paio di quelle Coppe europee che in Casa Juve sono state accolte come una vera manna dal cielo. Ecco lo strabiliante palmarès di Claudio Gentile, autentica bandiera e simbolo per eccellenza di una Juventus caparbia e votata al duro lavoro, che raggiungeva le vittorie non mollando di un centimetro davanti a nessuno.