Luis Monti

Ai tempi in cui ancora militava nel Boca Juniors, le caratteristiche fisiche del più forte centromediano metodista degli anni Trenta vennero racchiuse in un soprannome azzeccatissimo. I tifosi sudamericani lo chiamavano Doble Ancho, ovvero armadio a due ante: una definizione che compendia perfettamente la stazza massiccia e la forza erculea di cui era dotato Luis Monti, l’argentino con passaporto italiano che alla Juve ha saputo garantire ben 4 scudetti consecutivi.

Luisito nasce a Buenos Aires nel 1901 da genitori romagnoli emigrati oltreoceano in cerca di fortuna. Tutti nella sua famiglia giocano a calcio, ma nessuno è forte e potente quanto lui. La nazionale argentina se ne accorge subito ed è proprio con la maglia dell’Albiceleste che l’Armadio a due ante si laurea vicecampione al termine del primo Campionato del mondo della storia, quello disputato in Uruguay nel 1930 e perso amaramente in finale proprio contro i padroni di casa. La delusione è cocente, ma l’argento mondiale finisce almeno per garantirgli fama planetaria, tanto che il suo nome comincia a circolare anche a Torino, dove un presidente giovane e ambizioso di nome Edoardo Agnelli è in cerca di un bravo centrosostegno da innestare nella sua Juventus.

Il boss bianconero vuole dimostrare a tutti che lo scudetto appena conquistato dai suoi ragazzi non è stato un episodio sporadico e il poderoso Luis Monti sembrerebbe proprio fare al caso suo. Si dice che lui sia un maestro del tackle, forte più di una quercia e resistente al dolore come nessuno. Si dicono molte cose, in effetti, ma quello che nessuno immagina è che il prode Monti, nel frattempo, ha scelto di interrompere l’attività agonistica per dedicarsi ad altro. Pare infatti che Luis abbia mandato in pensione i piedi per mettere invece al lavoro le sue mani, che ora plasmano ravioli e tagliatelle in un pastificio a Tigri, il sobborgo di Buenos Aires dove vive.

Bisogna correre immediatamente ai ripari e l’astuto Barone Mazzonis, braccio destro del presidente Agnelli, ha l’intuizione di sfruttare come apripista per l’ingaggio i due estrosi oriundi già in forze alla Juventus. Al contrario di quanto sono abituati a fare sul campo da gioco, la coppia di argentini con passaporto italiano iniziano secondo copione a braccare in modo asfissiante il loro connazionale per convincerlo a raggiungerli all’ombra della Mole. La marcatura di Orsi e Cesarini è molto persuasiva e così, raschiata via la farina da sotto le unghie, Luis Monti accetta infine di vestire il bianconero. Nella tarda estate del 1931, a ritroso sulla rotta che molti anni prima aveva condotto la sua famiglia a Buenos Aires, l’Armadio a due ante sbarca al porto di Genova e subito corre a prendere il primo treno verso Torino.

I dirigenti juventini lo stanno aspettando trepidanti alla stazione di Porta Nuova, ma quando il vagone si ferma e la sagoma del nuovo centromediano bianconero ne discende lentamente, gli occhi del comitato di accoglienza si sgranano e le bocche restano spalancate dallo stupore. Monti pesa quasi un quintale e dimostra assai più dei trent’anni dichiarati. Tutti sentono aria di truffa, soprattutto la stampa, che si accanisce sul neoacquisto con critiche pesanti e impietose, domandosi quanti ravioli e tagliatelle abbia mangiato l’ex-pastaio argentino per seppellire sotto tutti quegli strati di adipe il prodigioso atleta ammirato l’anno precedente allo Stadio del Centenario di Montevideo. Il flaccido Luis resta profondamente ferito dall’ironia dei commenti che gli piovono addosso, anzi la vicenda è così tormentata e dolorosa che lui prende a considerare i giornalisti come nemici giurati. «Oggi ti esaltano e domani ti mettono giù», ripete spesso il nerboruto mediano. Da quel penoso episodio in avanti, infatti, Monti deciderà di tenere sempre le labbra ben cucite fuori dal campo, in sostanza inventandosi quel “silenzio stampa” reso poi famoso dalla Nazionale italiana nel 1982.

La bocca dell’italo-argentino si apre soltanto per chiedere alla società bianconera un po’ di fiducia e un mese di tempo. Tutto solo, dimostrando una forza di volontà sorprendente, il grassone massacrato dai giornali pianta le tende sul campo di allenamento: si sveglia all’alba tutte le mattine, si infila tre maglioni per sudare di più, spinge avanti sull’erba la palla medica, poi scatti, flessioni, corda. Ogni giorno così fino all’ora di pranzo e seguendo una dieta ferrea. Quando a settembre la squadra bianconera si ritrova per iniziare la stagione, nessuno riconosce più Luisito. L’Armadio a due ante ha perso dodici chili e così, tirato a lucido, può inserirsi alla perfezione nel cuore della manovra juventina.

Tutti quanti, specialmente gli avversari, capiscono fin da subito che, quando si tratta di giocare, uno come Luis Monti non ha nulla da imparare. Lui è senza alcun dubbio il più forte centromediano metodista mai apparso in Italia, un incontrista aggressivo e praticamente insuperabile, capace altresì di dare l’abbrivio alle ripartenze bianconere con lanci di quaranta metri precisi al millimetro, oppure smistando corto e proponendosi per il fraseggio con eleganza. Inaudita è la potenza di getto sprigionata dalle sue gambe ipertrofiche, che dal limite dell’area sono in grado di sparare missili imparabili, di destro e di sinistro. Inoltre non è consigliabile fronteggiarlo quando decide di prendersi il pallone, c’è il rischio di lasciare il campo in barella!

Il bestione ha solo un difetto: non ama correre, anche perché per uno della sua mole il dinamismo non è cosa semplice. Lo chiamano “il mediano che cammina” e questa prerogativa è un po’ il suo marchio di fabbrica. A lui non serve affannarsi troppo, anzi possiede un senso della posizione talmente innato che la palla finisce per dirigersi ogni volta dalle sue parti. Una misteriosa forza centripeta la calamita tra i suoi piedi e lo statico Luis ci mette un attimo a farla correre via. Un centrosostegno di ruolo e di fatto, insomma, essendo il solido basamento su cui poggia tutta la squadra. Perché lui camminerà pure, ma sa mettere in movimento i compagni meglio di chiunque altro.

Il massiccio Monti diventa così il motore immobile del gioco bianconero e vince subito quattro scudetti di fila con la Juve strabiliante del Quinquennio d’oro. Anche Vittorio Pozzo, il tecnico della Nazionale italiana, apprezza le doti del potente centromediano e perciò, facendo leva sul suo status di oriundo, o meglio di rimpatriato, gli consegna una maglia azzurra da titolare, che lui accetta con orgoglio. Luis Monti, laureandosi campione del mondo nel 1934, diventa così l’unico calciatore di sempre ad aver giocato con due differenti nazionali altrettante finali mondiali. Quando indossa i colori azzurri, il gagliardo oriundo offre prestazioni epiche, come in una famosa amichevole in casa dei maestri inglesi. In quell’occasione, l’Armadio a due ante resta in campo anche dopo essersi rotto un piede per non lasciare i suoi compagni in dieci a fronteggiare gli assalti degli inventori del calcio. Acclamata dai suoi supporters assiepati nel tempio dell’Arsenal, l’Inghilterra riesce comunque a battere per 3 a 2 la nostra Nazionale, ciò nonostante gli italiani si sono fatti onore, passando alla storia come i Leoni di Highbury. A fine partita, l’eroico Luis Monti è sdraiato su un lettino negli spogliatoi e chiede che gli venga messo un fazzoletto in bocca perché non vuole che gli inglesi lo sentano gridare dal dolore.

Dopo anni di scontri, tackle e cicatrici, anche l’uomo che oltreoceano chiamavano Doble Ancho è costretto alla fine a lasciare la Juve e il calcio giocato. Accade nel 1939, dopo otto stagioni intrise di leggenda, tre delle quali lo hanno visto in campo come glorioso capitano bianconero. Un cronista de «La Stampa» lo intercetta alla stazione mentre sta partendo per iniziare a Trieste la sua carriera da allenatore. Quel giorno, proprio a uno degli odiati giornalisti, con una vena di tristezza che gli fa tremare la voce, il vecchio Luis Monti confida tutta la sua malinconia per quell’addio improvviso. Per la prima volta le emozioni sono state più forti del silenzio stampa.