Andrea Pirlo

L’11 maggio del 2011 è il giorno del trapianto di cervello più veloce della storia del calcio. Nessuna crisi di rigetto, perfetta armonia con il nuovo corpo e impulsi nervosi che viaggiano veloci e vengono rispettati ed eseguiti alla perfezione da tutto l’organismo. Il cervello in questione è Andrea Pirlo, bresciano purosangue e regista assennatissimo, ribattezzato non a caso Maestro oppure Metronomo, a seconda delle occasioni. Il corpo dal quale viene espiantato a parametro zero, dopo un intero decennio di onorata militanza, è il Milan campione d’Italia, mentre il corpo nel quale viene trapiantato è la Juventus del nuovo mister Antonio Conte, un club che punta alla rinascita dopo un periodo di prolungata assenza ai vertici della classifica. L’impianto organico bianconero finisce per alimentare il cervello Pirlo, regalandogli nuova linfa vitale all’indomani di un’annata per nulla esaltante a livello personale, conclusa sì con lo scudetto, ma caratterizzata da una serie di guai fisici che lo avevano relegato ai margini dei piani tattici rossoneri. Poco male, capitan Del Piero e compagni sono ben lieti di fargli posto in mezzo a loro, mentre Conte non esita a consegnargli una maglia da titolare inamovibile nel suo centrocampo. E questo nutrimento, fatto di fiducia e continuità, è un insperato toccasana che il neoacquisto juventino, spremendosi le meningi, riesce a trasformare in rigogliosa intelligenza calcistica, in un rapporto biunivoco di proficua sinergia.

Come l’effetto Mozart è in grado di curare, grazie alla musica del genio di Salisburgo, la dislessia, la depressione e le difficoltà d’apprendimento, così il raziocinante gioco del direttore d’orchestra di Brescia, nel giro di pochi mesi, riesce a guarire la Juve da una depressione che appariva ormai cronica. Per la capacità di creare e di ispirare gli altri, il calcio di Pirlo sembra sul serio avere qualcosa di assoluto. E adesso che il nuovo cervello è innestato, ognuno può tornare a svolgere il suo compito: i muscoli a lottare, le gambe a correre, il cuore bianconero ad amare. Non a caso, alla vigilia della stagione 2011-’12, il popolo juventino si trova ad assistere a un cambio di rotta epocale iniziato con l’inaugurazione dello Stadium, una casa di proprietà attesa per 114 anni. Dunque una scenografia nuova di zecca e adesso, per dirigere la Signora, anche il miglior regista d’Italia, capace di vivere a Torino una seconda giovinezza e desideroso di dare forma a un successo da record destinato a restare per sempre nelle cineteche del nostro calcio: una pellicola d’avanguardia che sceglie come stile espressivo il bianco e nero. Ciak, motore, azione. Ecco apparire sul grande schermo, fra un tripudio di applausi, ben 3 scudetti in sequenza ravvicinata e, come premio per il miglior film, ecco il ritorno della terza stella, quella smarrita qualche anno prima fra le nebbie di una fatale dissolvenza.

Andrea Pirlo, trentacinque anni e un pedigree che non ha bisogno di presentazioni, è senza dubbio uno dei massimi artefici di questo boom, una delle firme più autorevoli di questa sensazionale sceneggiatura. Con la maglia zebrata numero 21 e una barba inedita a conferirgli un aspetto ancor più prestigioso, il Metronomo bresciano ha preso volentieri le chiavi del gioco bianconero e ha cominciato fin da subito a predicare la sua arte, insegnando alle giovani leve come si faccia a vincere. «Pirlo è un leader silenzioso, parla coi piedi», sostiene in una conferenza stampa Marcello Lippi, il commissario tecnico dagli occhi azzurri come il cielo sopra Berlino. In effetti c’è da credergli, perché il nuovo architetto della Juve stupisce soprattutto per l’abilità che dimostra nell’intesa con la squadra. Andrea è una sorta di psicologo del pallone, un campione in grado di ascoltare con calma e senza fiatare l’eloquenza cinetica dei compagni, per poi aiutarli a rivelare il gol che c’è in loro. A centrocampo lo si vede giocare al gatto col topo: quando riceve palla è cauto e arretra in palleggio, se la fa ridare, alza la testa e attende il momento propizio per dare il via all’azione, magari innescando gli scattisti di fascia con improvvise verticalizzazioni, sempre precise al millimetro. I suoi piedi sono casseforti in cui il pallone rimane blindato, al sicuro dalle grinfie avversarie. Nell’avvicinarsi alla porta, il Mozart lombardo si dimostra un vero calcolatore, uno stratega la cui dote principale è il sangue freddo. Finta il tiro da fuori, cambia piede, tocca filtrante in mezzo a un nugolo di gambe, il più delle volte smarcando in area qualche maglia bianconera accorsa da dietro. Tutti trucchi ben rodati che si ripetono identici da molti anni, ma contro i quali ancora nessuno è riuscito a trovare un antidoto.

Il 18 febbraio del 2012, durante una gara casalinga contro il Catania, Andrea Pirlo segna il suo primo gol con la Vecchia Signora, e lo fa sfruttando il pezzo forte del suo repertorio, ossia sparando in rete da punizione una palla che sembra radiocomandata. Già, perché il calcio piazzato è senza alcun dubbio il marchio di fabbrica del numero 21, che ammette: «Guardavo Platini in tv, da piccolo. E nel Brescia mi allenavo con Baggio. Lo studiavo bene». Ma la lezione appresa dalle due indimenticate glorie bianconere è stata messa a frutto in un modo del tutto personale.

Quando si tratta di calciare le punizioni, il taciturno regista si trasforma in Pirlinho, sforzandosi di pensare in portoghese. Non è infatti un mistero che il suo vero modello di riferimento sia il brasiliano Juninho Pernambucano, l’asso del Lione, un giocatore capace di inventare su calcio da fermo traiettorie incredibili, uno che il segno dell’OK si dice lo faccia con l’alluce, anziché con il pollice. Il campione carioca è maestro in un tiro che gli esperti ribattezzano “l’ascensore” per il saliscendi che fa la sfera prima di tuffarsi in picchiata a gonfiare la rete. Andrea guarda mille e mille volte i filmati di Juninho, lo viviseziona nel dettaglio, si incaponisce per molto tempo e alla fine, convinto di essere riuscito a coglierne il segreto, si fionda eccitatissimo al campo di allenamento. Con ancora indosso i mocassini, comincia subito a battere a rete per verificare l’esattezza della sua epifania. Uno, due, tre gol di seguito in fotocopia. I tiri che prima finivano due metri sopra la traversa, ora spiovono di colpo verso la porta e vi si insaccano con un effetto imprevedibile. Ecco svelata la ricetta della magia: basta colpire il pallone da sotto con le prime tre dita del piede. Il caparbio “brasiliano” nativo di Brescia ce l’ha fatta, il fantasma di Juninho Pernambucano è stato finalmente scacciato.

Da quel momento in avanti tutto il mondo comincia a parlare della “maledetta” di Pirlo: una palla avvelenata che parte forte e tesa, poi comincia a sbandare in aria, disegnando una parabola che, se ben eseguita, diventa imparabile anche per il portiere più scaltro e avveduto. Le sue “maledette” sfidano la fisica, o meglio sfruttano leggi come l’effetto Magnus per inventare un percorso balistico beffardo e graffiante. Il personale ruolino di marcia del Maestro che indossa la 21 bianconera, in questo senso, appare alquanto indicativo. Stagione 2012-’13: 5 gol, tutti su punizione. Stagione 2013-’14: 6 reti, di nuovo tutte su calcio piazzato, che gli valgono il titolo di miglior specialista continentale in questa specifica arte. L’anno seguente, l’ultimo alla Juve, altri 4 sigilli su punizione, di cui uno importantissimo durante la concitata finale di Coppa Italia vinta contro la Lazio.

Quando il professor Pirlo sale in cattedra diventa spietato e non esita a infliggere severe punizioni a tutti. Non serve molto, basta commettere un errore da matita rossa: un fallo sulla trequarti. Questa è l’arma in più del barbuto regista bresciano, assoluto euclideo del calcio e patrimonio nazionale. Uno che parla poco ma che, con un cucchiaio all’Inghilterra, ha dato da mangiare a tv e social network per mesi, tra sfottò e fotomontaggi. Perché, quando la posta in palio si alza, la sua lucidità diventa determinante per infondere sicurezza ai compagni. Andrea è davvero merce rara, oltre a essere l’ultimo fantasista che il mondo ci abbia invidiato. Un autentico top player, un Gianni Rivera 2.0, un genio. Uno che gioca sempre a testa alta, in tutti i sensi. Un ragazzo d’oro, mai una polemica, mai un commento fuori posto. Uno che ci ha messo un minuto a diventare juventino e che alla Signora, con classe infinita e intelligenza da Nobel del pallone, ha garantito l’abbrivio per un ciclo vincente senza precedenti. Quattro scudetti in quattro anni sotto il segno inconfondibile di Andrea Pirlo e delle sue “maledette”.