Michel Platini

«Lo abbiamo comprato per un tozzo di pane e lui ci ha messo sopra il foie gras!», esclama Gianni Agnelli con un ghigno di soddisfazione per una scommessa vinta puntando il minimo e ottenendo il massimo. Certo, paragonare 250 milioni di lire a un tozzo di pane potrebbe apparire un tantino pretenzioso, eppure l’equazione regge se si considera che il cartellino del miglior calciatore europeo dell’epoca, al cambio attuale e calcolando l’inflazione, varrebbe la ridicola cifra di 450 mila euro. Perché talvolta può capitare che un sogno realizzato si coaguli in una realtà addirittura migliore rispetto a quella sognata. Specie se la realtà in questione si chiama Michel Platini: il numero 10 per eccellenza, il Divino, Le Roi.

Il primo a voler fortemente vestire il futuro Re del calcio di bianconero, in effetti, è stato proprio il lungimirante Gianni Agnelli, incantato dagli sprazzi di classe cristallina che Platini stava mostrando nel corso del Mundial iberico. L’Avvocato ci ha messo davvero del suo nell’aggiudicarsi i servigi del riccioluto astro nascente del calcio transalpino, dimostrando una buona dose di audacia e fiuto per l’affare. In quell’estate del 1982 tanto cara ai colori azzurri, il principale azionista della fiat non esita a mettere a disposizione elicotteri, libretto d’assegni e perfino la testa dell’ottimo Liam Brady, ceduta su un piatto d’argento alla Sampdoria per il ferreo regolamento dell’epoca che consente alle squadre nostrane di schierare al massimo due stranieri. D’altronde, se si voleva aggiungere ai 6 campioni del mondo bianconeri anche due nuove punte di diamante del calibro di Platini e Boniek, qualcuno andava per forza sacrificato.

L’idea intrigante che l’Avvocato Agnelli fatica a nascondere è quella di regalare finalmente alla Vecchia Signora qualche bel monile europeo da riporre nel suo portagioie, che al momento appare desolatamente sguarnito, fatta eccezione per una Coppa uefa di pur pregevole fattura. Quella che si appresta a tagliare i nastri di partenza del campionato è infatti una Juve stellare, almeno sulla carta. Le aspettative sono altissime, non può essere altrimenti, eppure l’anno d’esordio del gioiellino francese finisce per scindersi di netto in due, senza tuttavia confluire nello scudetto e tantomeno in un trofeo continentale.

Il Platini lato A muove i primi passi in bianconero tra malcontenti e pubalgia, il tutto condito da voci che paventano un suo rimpatrio anzitempo. Poi interviene di nuovo il deus ex machina di questa storia, vale a dire Gianni Agnelli, il quale si stizzisce platealmente perché le chiavi del gioco non sono affidate al suo protetto: «Se Furino è il regista della nuova Juventus, è inutile farsi illusioni».

Mister Trapattoni non se lo fa ripetere e subito stravolge il centrocampo. Relega il vecchio capitan Furia in panchina e carica a molla il pimpante Bonini, buttandolo in campo per coprire le spalle a Michel, che adesso è libero di comandare il gioco e di instillare meraviglia anche negli sguardi più disincantati. Il Platini lato B è tutto un fuoco d’artificio: segna a ripetizione e vince la classifica dei marcatori, mentre sul fronte europeo trascina la Juve alla finale di Coppa dei Campioni, dove all’ombra del Partenone si consuma la beffa tristemente nota ad opera dell’Amburgo.

Per dare un po’ di sollievo ai dolori di una stagione a dir poco improduttiva arriva quantomeno il balsamo della Coppa Italia, strappata al fotofinish al sorprendente Verona ribaltando il 2-0 dell’andata grazie a una sensazionale doppietta messa a segno, nemmeno a dirlo, proprio dal pupillo dell’Avvocato.

Due simili prodezze incoronano definitivamente Le Roi. Da quel momento e per altri quattro anni il suo estro inarrivabile detta legge ovunque, nel Vecchio Continente e oltre le Colonne d’Ercole, prima di cedere precocemente il passo, a soli trentadue anni. L’annuncio del suo ritiro è uno shock per il popolo juventino e in molti tentano con ogni mezzo di dissuaderlo. Il sospetto fondato è che il Divino abbia altri prodigi inimmaginabili da concedere ai suoi fedeli, ma lui è risoluto e non vuol sentire ragioni. A malincuore, con un gioco di parole che farà epoca, il «Guerin Sportivo» è costretto a titolare: “Plafinì”, mentre l’uscita di scena dell’illuminato monarca francese getta nello sconforto orde di innamorati del bel calcio.

Sono lontani i tempi dell’infanzia a Joeuf, quando tutti lo chiamavano Rats (piccoletto) e lui scorrazzava col pallone incollato al piede nel piazzale antistante il Caffè degli Sportivi. Quello era il bar della famiglia Platini: un cognome che denuncia chiare origini italiane, infatti nonno Francesco era originario di Agrate Conturbia, un paesello piemontese in provincia di Novara. Nel frattempo sono passate due generazioni e il nipote di Francesco Platini, per la gioia dei colori bianconeri, ha deciso di diventare il più forte calciatore francese di tutti i tempi. Dal canto suo la Francia, che ha inventato premi e competizioni, ma che in ottant’anni di storia non ha vinto ancora nulla, è ben lieta di ripagare l’abnegazione del suo figlio prediletto conferendogli per tre volte di seguito il Pallone d’Oro, oltre al titolo di campione continentale con i Bleus al termine dell’Europeo casalingo del 1984.

Michel merita queste onorificenze, perché lui è uno dei pochissimi calciatori capaci di scandire alla perfezione ogni momento della fase offensiva, dalla A alla Z. Sa convertirsi da direttore d’orchestra a primo violino con una semplicità quasi irritante, in pratica si auto dirige. D’altronde a uno così non si può insegnare nulla e il bello è che ne guadagna il gioco di squadra, perché quello che il monarca juventino sa fare meglio è ispirare. Con Platini il genio calcistico raddoppia: lui fa l’architetto e il muratore, confeziona l’abito e poi trova pure il tempo di cucire i merletti, vince per tre volte di seguito la classifica dei cannonieri, ma non disdegna di indicare la via del gol agli altri bianconeri. Il segreto del gioco platiniano risiede infatti in una qualità morale, vale a dire l’altruismo. Altruismo verso i compagni e verso il pubblico cui regala momenti artistici irripetibili, come i suoi leggendari calci di punizione. Basti pensare che un determinato modo di battere i tiri piazzati viene detto ancora oggi “alla Platini”.

Le Roi è un personaggio a tutto tondo, tanto uomo-copertina quanto leader, e così viene fuori anche il suo carattere: un mix conturbante di spocchia francese e indolenza italiana, a seconda che l’accento sia sulla prima o sull’ultima “i” di Platini. Ne offre un saggio esemplare agli ottavi di Coppa dei Campioni contro le merengues di Madrid, quando si rivolge così al compagno di squadra Lionello Manfredonia, disperato perché si è appena visto annullare una rete valida: «Ha fatto bene l’arbitro a fischiare. Se tu avessi segnato al Real sarebbe finito il calcio!».

Ogni volta che gli piazzano un microfono sotto al naso, il Divino apre la sua ruota di pavone come un ventaglio: un ventaglio d’offerta che contiene risposte profetiche, spunti sarcastici, talvolta addirittura guizzi geniali. Di sicuro evita accuratamente qualsiasi scivolone retorico. Lo scapigliato francese dal sangue italiano è capace di pennellate memorabili non solo con i piedi, ma anche con la lingua. «Perfino Einstein, intervistato tutti i giorni, farebbe la figura del cretino», dice a un giornalista de «La Repubblica» il 18 aprile del 2002, salvo poi estrarre gemme sempre nuove dalla sua personale miniera di ragionamenti. Come quella volta che, pizzicato a fumare durante l’intervallo di una partita, a Gianni Agnelli che gliene chiede conto risponde: «Avvocato, non si preoccupi se fumo io. L’importante è che non fumi Bonini, che deve correre anche per me». Povero fido scudiero Bonini, detto non a caso “i polmoni esterni di Platini”, che si danna l’anima e della macchina bianconera sembra il motore, ma poi il ciak per dare il via all’azione spetta al regista Michel.

Con il Re in grande spolvero ecco che la Juve diventa “bella di notte” e porta in bacheca ogni tipo di trofeo. Il più sudato è la Supercoppa Europea del 1984, conquistata dal campione di Joeuf correndo più e meglio di un gregario su un campo infido e gelato, per poi alzare la testa e sparare col cannone del suo destro sublime due lanci lunghi di 60-70 metri calibrati al millimetro. Roba impensabile per i comuni mortali, che il finisseur Boniek raccoglie e trasforma in rete. Il più triste, invece, è senza dubbio la Coppa dei Campioni del 1985, ottenuta giocando con la morte nel cuore nella sciagurata notte dell’Heysel. Mentre il più entusiasmante e forse il più rappresentativo è la Coppa Intercontinentale disputata a Tokyo contro i rossi dell’Argentinos Juniors, su un campo di patate dove il pallone rimbalza come un coniglio impazzito, mentre i giocatori vengono assediati da ogni lato da quattro mura sonore di irritanti trombette giapponesi.

Quell’8 dicembre del 1985, per i tifosi juventini rimasti svegli a notte fonda davanti alla tv, Le Roi diventa L’eroe. Gli argentini vendono cara la pelle e la partita diventa un botta e risposta al cardiopalma di cui Michel appare il massimo artefice, tra gol e assist in zona Cesarini. Una giostra di emozioni che non può che finire con una lotteria, quella dei rigori. Lo scarmigliato sovrano francese, esausto per il campo pesante e l’altalena del risultato, si avvicina agli undici metri con lo sguardo svagato e la divisa fuori dai pantaloncini. Raccoglie il pallone che deciderà l’incontro, lo bacia dolcemente, lo coccola un po’ e lo asciuga con affetto usando la maglia bianconera, infine lo adagia sul dischetto. Rincorsa lenta, piattone destro e gol!

È la festa che segna la fine di un’epoca sfolgorante per la Juventus, anche se in quel momento nessuno lo immagina. Ma c’è di più. Andando con il rewind al minuto 68, sul punteggio ancora inchiodato sull’1 a 1, ecco spuntare il numero 10 del fenomenale transalpino in mezzo a un groviglio di maglie rosse. Al limite dell’area di rigore, il Divino si libera dei marcatori con un pregevole sombrero di destro, aspetta che la parabola discenda e quindi colpisce al volo di sinistro a incrociare, sparando in rete il gol del secolo che però, inspiegabilmente, i vandali della terna arbitrale decidono di annullare. Un capolavoro è stato appena deturpato e Michel Platini, irritato, delibera subito di sostituirlo con un altro capolavoro, stavolta di arte scenica. Dapprima si mette le mani nel folto dei suoi ricci corvini, poi si lascia cadere a terra e si sdraia su un fianco, con un gomito a terra a sorreggere la testa, nella posa più elegante della storia del calcio. Uno sciopero bianco che farà il giro del mondo. Le Roi, disteso in mezzo al fango di Tokyo, sembra una Paolina Bonaparte del Canova, solo più ironica e beffarda. Inimitabile. E la chiosa non può che apporla il suo estimatore numero uno, l’immancabile Avvocato Agnelli: «Nella Juve nessuno è mai stato al livello di Platini e se in futuro ci sarà qualcuno che lo supererà, lo ammetteremo a malincuore».