Renato Cesarini
All’inizio degli anni Trenta, sul bastimento Mendoza che salpa dal porto di Genova e approda un mese più tardi a Buenos Aires, c’è la famiglia Cesarini: padre, madre e il figlioletto di nove mesi, emigranti in cerca di fortuna. Sul suolo argentino il piccolo Renato cresce, aiutando a bottega il papà calzolaio, ma presto capisce che lui le scarpe vuole usarle per conoscere il mondo. Prima si dà al circo, poi è la volta del pallone, con cui fa numeri come se fosse ancora un saltimbanco. La sua prima squadra si chiama Chacarita, dal nome del quartiere dove sorge il cimitero. La terra del campo da calcio e quella del camposanto è la stessa, per questo Cesarini e i suoi compagni si beccano il nomignolo di funebreros, i becchini. Renato, però, ha un talento speciale per il football e così si merita un soprannome tutto suo: “El tano”, quello che viene dall’Italia. E nel suo Paese d’origine il biondo Cesarini può fare ritorno a ventitré anni, chiamato per vestire la maglia della Juventus, su segnalazione della raffinata ala sinistra bianconera Raimundo Orsi. La patente è quella di oriundo, o meglio di rimpatriato: un lasciapassare indispensabile per giocare in un campionato reso impermeabile allo straniero dal Regime fascista e per sperare di essere convocato con la Nazionale italiana.
Quello che giunge a Torino nel 1929 è un calciatore dal talento incontenibile, estroso e mai banale: uno che gioca sul tempo e sull’anticipo, disorientando gli avversari e divertendo il pubblico. Questa sua imprevedibilità, però, ama portarsela dietro, addirittura amplificata, fuori dal rettangolo di gioco.
In piazza Castello ha aperto una tangueria con i musicisti vestiti da gauchos e due orchestre che si alternano. La sera, dopo le partite, è facile trovarci anche Renato Cesarini, detto Cé, intento a fare virtuosismi con la chitarra come uno showman consumato. Ma questa è solo una delle mille variazioni sul tema dell’irrequieto Renato, autentico estro ambulante di quella Juve bellissima targata Edoardo Agnelli. L’italo-argentino, girando con una scimmia in spalla, impara l’italiano dalle maîtresse del centro di Torino e, quel ch’è peggio per un atleta, fuma un pacchetto di sigarette al giorno e beve sconsideratamente. Capita addirittura di vederlo presentarsi all’allenamento mattutino con il cappotto sopra il pigiama e col viso segnato dopo una notte di follie. I dirigenti bianconeri mal digeriscono le mattane del loro asso dal sangue caliente. L’allenatore del tempo, Carlo Carcano, è solito controllare i suoi giocatori da lontano, servendosi di informatori arruolati tra i ragazzini, i quali si appostano accanto alle case dei calciatori per annotare ogni anomalia. Il fatto è che Cesarini ha capito la faccenda delle piccole spie e offre loro il doppio dei soldi per tacere. Quando questo non gli riesce e la notizia del misfatto trapela, Carcano gira la patata bollente alla società juventina, che prontamente infligge all’oriundo sanzioni fino a mille lire. Cesarini è abituato a pagarle senza fare troppe storie, salvo talvolta suggerire una controproposta: «Se segno alla prossima, la multa verrà cancellata». Così il Cé riesce spesso a scambiare le ammende con i suoi gol. E di reti ne sigla parecchie, la mezzala fantasiosa e stravagante che per il popolo bianconero è già un idolo assoluto. A quella Juve ineguagliata a cui tanti ammiratori si rivolgono con l’appellativo di Fidanzata d’Italia, per l’incanto del gioco che sa esprimere, il vivace Renato regala le sue prodezze migliori: un contributo assolutamente decisivo per la conquista degli ormai celebri cinque scudetti di fila del Quinquennio d’oro.
Nel corso della sua iridata esperienza da giocatore, il funambolo venuto da Buenos Aires fa in tempo anche a laurearsi campione del mondo con la Nazionale italiana del 1934. Già, perché la classe che lo scapestrato oriundo bianconero sa esprimere nel gioco del football è così evidente da fargli meritare la convocazione da parte dell’allenatore azzurro Vittorio Pozzo, vero ispiratore della leggenda che ormai tutti gli sportivi italiani conoscono: quella di Renato Cesarini, “il poeta dell’ultimo minuto”.
Quell’ultimo, storico minuto arriva il 13 dicembre del 1931. L’Italia affronta la grande Ungheria allo Stadio Filadelfia di Torino in una giornata fredda e grigia. Al novantesimo minuto le due nazionali, dopo una battaglia epica tra pioggia e fango, sono appaiate sul 2 a 2. Mancano pochi secondi alla fine e l’arbitro, lo svizzero Mercet, sta già iniziando a prendere il fiato per soffiare tre volte dentro al suo fischietto. Proprio in quell’istante arriva la sfera a Renato Cesarini che, trovandosi davanti il colosso ungherese Kocsis, appoggia all’ala verso Costantino. Appena eseguito il passaggio, Renato si butta addosso al compagno, si riprende il pallone e scatta in avanti, evitando Kocsis, ingannato da tale astuzia. L’italo-argentino si ritrova così a tu per tu col portiere magiaro Ujvari: subito lo inganna con una finta e tira forte sulla sinistra. È l’insperato gol del 3 a 2, proprio allo scadere. Non c’è nemmeno il tempo di rimettere il pallone al centro che lo svizzero fischia, decretando la memorabile vittoria italiana sui maestri ungheresi.
Nasce in questo modo il mito del “giocatore che ha fama di marcare allo scoccar del tempo”, perché lui è il primo nella storia della Nazionale azzurra a riuscirci. Da quel giorno in avanti, per tutti “zona Cesarini” significa crederci fino alla fine, anche quando uno vorrebbe solo disperarsi mentre l’ultimo granello di sabbia scende dalla clessidra. L’estremo istante in cui tutto sembra fuggire via e che invece Renato Cesarini ha bloccato in eterno, mettendo un piede in mezzo alla porta del tempo e segnando il gol al novantesimo che lo ha reso leggendario. Il mitico Cé realizzerà altre 3 reti nella sua “zona”, per altro ininfluenti, con la maglia della Juve. Tanto gli basterà per essere l’unico giocatore capace di diventare un modo dire.
Nel 1935, dopo sei anni indimenticabili in bianconero, Cesarini lascia l’Italia per tornarsene in Argentina, ammantato di gloria e onori. Lo si rivede a Torino molto tempo dopo, in veste di allenatore: una prima volta nell’immediato dopoguerra, tra il 1946 e il 1948, una seconda volta a dieci anni di distanza, tra il 1958 e il 1961, triennio durante il quale il vecchio Cé porta in casa Juve due tricolori e una Coppa Italia, riuscendo nell’impresa di fare da valium a quella testona calda di Omar Sivori, uno che gli somiglia parecchio. Entrambi italiani d’Argentina, tutti e due prestigiatori coi piedi, ma soprattutto autentici monumenti della storia bianconera.