Umberto Caligaris

Il più agonico difensore bianconero degli anni Trenta ha un credo tanto essenziale quanto complicato da realizzare, che lui solo è riuscito ad applicare in ogni occasione con indefessa scrupolosità. «Non dare all’avversario nemmeno il tempo di tirare il fiato», questo il mantra che Umberto Caligaris, classe 1901, ripete con impeccabile osservanza tutte le volte che mette piede sul terreno di gioco. Facile a dirsi, ma la tenuta fisica dei pionieri del football non rispetta certo i dettami del training moderno, volto a costruire atleti prima ancora che calciatori. Il fatto è che il calcio degli albori viene giocato da studenti appassionati, padri di famiglia e lavoratori di ogni ordine e tipo. Fermarsi per riprendere fiato è dunque lecito e ogni tanto si può tranquillamente passeggiare per il campo, se la palla viaggia lontana. Niente pressing, zero tatticismi e ritmi blandi: queste le regole non scritte che tutti rispettano senza fiatare. Anche perché più fiato si risparmia, meglio è.

A cambiare le regole del gioco ci pensa Berto Caligaris, un atleta dal fisico scolpito nel marmo, un guerriero instancabile, che di polmoni pare averne quattro a giudicare dalla foga con cui lo si vede braccare tutti gli avversari. Lui gioca nelle retrovie come terzino di rottura, come si dirà anni dopo, vale a dire un difensore tutto corsa e tenacia. Le sue gambe ipertrofiche stantuffano al ritmo di quel suo cuore da lottatore e Umberto si getta sempre nella mischia a gran velocità, con l’immancabile fazzoletto bianco intorno alla fronte a mantenergli in ordine i capelli biondi e un po’ lunghetti, che porta pettinati all’indietro con una certosina scriminatura centrale.

Fuori dal rettangolo di gioco, il pugnace Caligaris mostra paradossalmente un carattere mite, socievole e addirittura simpatico, però in campo non si scherza ed è difficilissimo trovare un baluardo della retroguardia più arcigno e irruento di lui. Il portentoso Berto eccelle soprattutto nell’acrobazia, tanto che alcuni esperti gli attribuiscono l’invenzione della sforbiciata. La sua dote migliore resta comunque l’irresistibile combattività, che gli permette di battagliare contro chiunque, senza mai un’esitazione. Mostrando una condizione fisica davvero invidiabile, il terzino dai grandi polmoni insegue ogni pallone e si frappone come diga invalicabile a protezione della sua porta. Non ha bisogno di tatticismi, per vincere i duelli all’ultimo sangue con gli attaccanti nemici gli bastano il suo spirito indomito e la sua volontà di ferro, perché un ragazzo cresciuto in campagna come lui non può che ragionare in modo semplice: “Chi ha la palla, vince”. Un assioma alquanto basilare, ma sicuramente veritiero, dunque il suo obbiettivo primario è sempre quello di sradicare dai piedi avversari quanti più palloni possibile, con ogni mezzo e senza troppe elucubrazioni.

Figlio di un grande giocatore di pallone elastico, Umberto è nato e cresciuto a Casale Monferrato, in provincia di Alessandria. Il giuoco del football rappresenta la novità del momento e la Signora è più vecchia di lui di appena quattro anni. Tuttavia il felice matrimonio fra i due avviene solo in tarda età. Nel frattempo, ancora fanciullo, lo si vede giocare da portiere nel campetto dell’oratorio Sacro Cuore al Valentino. Restare inchiodato fra i pali non è però un’occupazione adatta a un iperattivo come Berto, l’istinto è sempre quello di lanciarsi all’inseguimento degli altri ragazzini e finalmente, entrato nelle giovanili del Casale, gli viene consentito di coltivare la sua indole.

Quella del paese natio di Caligaris è la squadra rivelazione che, nel 1914, stupisce tutti aggiudicandosi il titolo di Campione d’Italia. Aggrappato alla rete che circonda il campo del Casale, l’adolescente coi muscoli da atleta si sgola e fa un gran tifo, sognando di poter un giorno emulare le gesta dei suoi idoli scudettati. La chiamata in prima squadra arriva il 12 ottobre del 1919, proprio il giorno della ripresa delle attività calcistiche dopo il tragico stop dovuto alla Grande guerra. Con la casacca tutta nera rischiarata dalla grande stella bianca sul cuore, Umberto Caligaris fa così il suo debutto in Prima Divisione, l’equivalente dell’attuale serie A. Gioca per 9 stagioni nella difesa nerostellata, fino a diventarne l’uomo-simbolo, mettendo in mostra le sue straordinarie doti di dinamismo e generosità. Qualità che lo proiettano già dal 1922 nel giro della Nazionale.

In maglia azzurra, Berto fa la conoscenza di due talentuosi juventini: il portierone Giampiero Combi e il compagno di reparto Virginio Rosetta, detto "Viri". Il poderoso terzino casalese si integra alla perfezione con la coppia bianconera, dando vita a un terzetto difensivo oltremodo saldo e invalicabile, che tutto il mondo ci invidia. Un trio affiatato e resistente agli urti, capace di trascinare l’Italia alla medaglia di bronzo durante le Olimpiadi del 1928 ad Amsterdam. Combi-Rosetta-Caligaris: una filastrocca che tutti gli sportivi dell’epoca conoscono a memoria. Piero guizza fra i pali con rapidità felina, Viri e Berto lo proteggono dall’assalto nemico, ognuno a modo proprio. Il primo studia l’avversario con astuzia per poi anticiparlo, il secondo lo bracca con ferocia sorprendendolo. Dove non arriva l’uno, l’altro compensa, e insieme raggiungono il comune obbiettivo di neutralizzare qualsiasi goleador, povero malcapitato.

Il trio azzurro delle meraviglie sembra nato per restare unito. Il presidente bianconero Edoardo Agnelli lo capisce immediatamente e così, alla vigilia della stagione 1928-29, bussa alla porta del terzino del Casale e lo convince a trasferirsi a Torino. Passato tra le fila della Juventus, la carriera del combattivo Umberto subisce la svolta decisiva. Lui è il titolare inamovibile che rende più omogenea ed efficace la difesa zebrata, al punto che quello juventino diventa ben presto uno squadrone implacabile, capace di sbriciolare le velleità di ogni altro pretendente al titolo. Caligaris e compagni riescono infatti a cannibalizzare ben 5 scudetti di fila, dal 1931 al 1935, lungo un dorato Quinquennio entrato ormai nella leggenda.

Con la maglia a strisce verticali bianche e nere incollata addosso, Berto gioca quasi duecento partite, tutte col coltello fra i denti, catapultandosi a valanga sulle caviglie avversarie come solo lui sa fare. Finché, nell’estate del 1934, giunge il momento di disputare il primo Mondiale casalingo: un evento enfatizzato fino allo spasimo dalla propaganda di Regime. Ovviamente il vecchio Caligaris figura nella rosa dei partecipanti ed è anche il nazionale più longevo, avendo collezionato la bellezza di 59 presenze in azzurro. Un primato, manco a dirlo, che resisterà per molti anni a seguire, almeno fino all’arrivo di un certo Giacinto Facchetti. In verità il difensore juventino avrebbe una voglia matta di arrivare al sessantesimo gettone, ma il commissario tecnico Vittorio Pozzo, che pure lo tiene in particolare predilezione, decide a malincuore di non accontentarlo. Il valoroso Umberto è costretto a gioire da spettatore per la storica vittoria nella finalissima di Roma contro la Cecoslovacchia, entrando in gioco solo per ricoprire il simbolico ruolo di alfiere durante la trionfale parata che chiude la manifestazione. È infatti lui a guidare la milizia azzurra che quel giorno sfila in nero di fronte ai gerarchi e al popolo festante. Una magra consolazione, ma ormai il terzino d’acciaio è giunto al termine della sua lunga parabola calcistica, che inevitabilmente si chiude in bianconero nel 1935, appena strappato l’ultimo tricolore.

Caligaris fa ritorno in Casa Juve quattro anni più tardi, stavolta nelle vesti di allenatore. Nel mentre, però, i tempi sono decisamente cambiati e i fasti del suo Quinquennio d’oro sembrano solo un lontano ricordo. Gli eterni rivali dell’Ambrosiana e gli ossi duri del Bologna sono all’apice della loro forza, mentre alla Juventus del gagliardo casalese tocca il ruolo di sparring partner di lusso. Poco male, il nuovo tecnico bianconero trova comunque il modo di farsi rispettare, perché lui è già un autentico monumento del calcio italiano, oltre che una bandiera juventina di prima grandezza. E tutto questo è talmente vero che il suo nome, per diritto d’elezione, non potrà che finire tra i 50 che compongono il Cammino delle Stelle del nuovo Stadium.

Quella tra il valoroso Caligaris e la Signora è una storia d’amore unica nel suo genere: una storia matura e piena di riconoscenza, che si conclude in un modo del tutto inatteso, a metà fra tragedia e romanticismo. Il 19 ottobre del 1940 si gioca a Torino una partitella di esibizione fra vecchie glorie bianconere. In campo ci sono anche gli amici Combi e Rosetta, dunque Berto non vuole mancare per nessun motivo, nonostante i medici gli abbiano proibito di fare sforzi. Poco tempo prima, infatti, una brutta setticemia aveva messo a dura prova la sua tempra da combattente, finendo per logorargli irrimediabilmente l’apparato cardiocircolatorio. Ma il caparbio difensore scende ugualmente sul terreno di gioco e come sempre non si risparmia. Lotta duro, va a caccia di ogni pallone, suda copiosamente, corre all’inverosimile. E proprio nel bel mezzo di uno scatto forsennato, il suo cuore da guerriero cede di schianto. Si accascia al suolo, Umberto Caligaris, e si spegne così: a trentanove anni, con la maglia a strisce verticali bianche e nere indosso.