Carlo Parola

Carlo Parola detto Nuccio, torinese doc e inossidabile onnipresente bianconero lungo 15 indimenticabili stagioni, superata la metà degli anni Trenta è ancora un semplice iscritto alla Scuola Allievi fiat, che suda tutte le energie dei suoi quindici anni tra lavoro in fabbrica, studio e pallone, ovviamente giocando nella squadra aziendale. Ben presto, però, gli osservatori della Juventus si accorgono di lui. Il suo atletismo non può passare sotto silenzio e l’ingegner Zambelli corre a segnalarlo all’allenatore juventino, la vecchia gloria del Quinquennio d’oro Berto Caligaris, il quale decide di inserirlo nel vivaio bianconero: proprio i colori che Nuccio confessa di sognare tutte le notti. Da operaio fiat, la retribuzione del giovane Parola ammonta a 18 lire al mese. Ecco perché, quando i dirigenti della Juve arrivano a chiedere a sua madre il permesso di lasciarlo giocare con loro per 750 lire al mese, la povera donna quasi sviene dall’emozione, domandando tutta tremante al figliolo: «Ma è proprio vero?».

Effettivamente è tutto vero, come un giocatore vero è Carletto Parola, ragazzo con un’etica del lavoro incrollabile e una gran voglia di sfondare. Nel dopolavoro fiat era solito giocare da centravanti, segnando caterve di gol soprattutto in acrobazia, con tuffi, incornate, girate, rovesciate e mezze rovesciate. Il campionario aereo è di quelli interessanti, ma col pallone a terra il torinese purosangue non sembra propriamente un fulmine di guerra. Gli allenatori delle giovanili bianconere decidono perciò di cambiargli ruolo: dal fronte offensivo lo trasferiscono dalla parte opposta, cioè nel ruolo di chi li controlla i goleador. In questa sistemazione tattica, pur inedita per lui, Carletto non sembra soffrire, anzi diventa un vero fenomeno ad anticipare le mosse degli attaccanti, tanto che in molti cominciano ad attribuirgli una sorta di potere medianico, quasi che Nuccio riesca a leggere il pensiero degli avversari. Parola, in verità, è solo molto bravo a guardare dentro se stesso e dentro il suo passato da centravanti al fine di indovinare immediatamente la giusta contromossa.

Con simili premesse, non stupisce che l’esordio in prima squadra del talentuoso difensore avvenga subito, ad appena diciotto anni. Ma per iniziare a vincere, purtroppo, Carlo deve attendere parecchio tempo e l’arrivo in bianconero di un giovane attaccante di nome Giampiero Boniperti. Il formidabile biondino, durante uno dei primi allenamenti, osa beffare con un tunnel proprio il senatore Parola, il quale per ripicca gli procura un occhio nero, tirandogli una sportellata di proposito. Schermaglie immediate fra i due, ma anche grande stima reciproca, tanto che l’allora capitano juventino non esita a fare da chioccia al futuro capitano Boniperti, incitandolo con un secco: «Va’ là falabrac!», che in dialetto piemontese significa “scansafatiche”.

Quelli sono i giorni epici nei quali Nuccio si guadagna la fama di centromediano metodista più forte d’Italia, essendo l’unico nazionale azzurro convocato nella rappresentativa del Resto d’Europa che il 10 maggio 1947 tenta invano di sconfiggere gli imbattibili maestri della Gran Bretagna. La presenza in quella pur infruttuosa spedizione guadagna a Parola l’invidiabile e altisonante appellativo di “Carletto l’Europeo”. E lui, inorgoglito, torna in patria affamato di vittorie.

La Juve si è rinforzata ed è finalmente pronta a ripagare gli sforzi decennali del suo uomo-simbolo con due scudetti meritatissimi in tre anni, complice anche la tristemente nota tragedia di Superga che ha spazzato via in un sol colpo il Grande Torino di Valentino Mazzola. Quella del 1950 è una Juventus supersonica, in grado di gonfiare le reti avversarie addirittura per 100 volte in una sola stagione: un record di marcature mai registrato in precedenza. Il merito è soprattutto dello strapotere espresso dai suoi cinque avanti, rispettivamente da destra a sinistra: Muccinelli, Martino, Boniperti, Hansen e Praest. Questo è senza alcun dubbio il miglior attacco in assoluto della storia bianconera, meglio ancora di qualsiasi altro fronte offensivo che comprenda Platini al suo interno. Eppure nessun addetto ai lavori dell’epoca riesce ad accorgersi che la Juve più prolifica di sempre gioca al catenaccio. Il fatto è che l’allora mister bianconero Jesse Carver, un poliziotto inglese prestato al calcio, parla un italiano pressoché incomprensibile. Nessuno dei suoi giocatori capisce esattamente cosa lui chieda di fare e così la tattica, per forza di cose, nasce in campo a seconda delle esigenze. Di necessità in necessità, un giorno Carlo Parola decide di inventarsi il ruolo di libero senza che neanche il suo allenatore se ne accorgesse. Karl Hansen funge da mediano, Giacomo Mari prende in consegna il centravanti avversario, mentre capitan Parola, inspiegabilmente con gli occhi del tempo, arretra di dieci metri e si piazza alle spalle di tutti, in ultima battuta, come un portiere un po’ avanzato rispetto al vero numero 1.

A quel tempo non si spendevano troppe parole per disquisire di moduli e tatticismi. Fatto sta, nel momento esatto in cui Parola decide di fare quei dieci metri indietro, il calcio italiano viene spinto in avanti di almeno vent’anni. Ed è proprio da lì, da ultimo uomo, nel ruolo di libero ante litteram, che Carlo Parola, in un freddo pomeriggio invernale, si innalza nel firmamento delle icone calcistiche, immortalandosi in uno scatto come solo pochissimi sportivi sono stati in grado di fare.

È il ١٥ gennaio del ١٩٥٠ e all’ottantesimo minuto di una sfida a reti inviolate tra Fiorentina e Juventus, nel catino ribollente del Comunale di Firenze, accade l’improvviso evento destinato a fare epoca. Il mediano gigliato Augusto Magli lascia partire un lungo lancio verso Egisto Pandolfini. L’interno dei viola scatta seguendo la traiettoria alta della sfera e con la coda dell’occhio vede tra sé e la porta l’ombra sfocata di un solo bianconero. Si tratta ovviamente di Carletto l’Europeo, il libero ante litteram che sta per trasformarsi in un uomo-copertina. Il pallone sta ancora viaggiando in aria, Pandolfini è convinto di poterlo raggiungere, ma il capitano della Juve ha deciso di impedirlo con una acrobazia davvero scenografica. Parola vola in cielo, si piega a mezz’aria sul fianco destro, flette la gamba sinistra e allarga il braccio destro per trovare equilibrio. È ormai a quasi un metro e mezzo da terra quando colpisce la palla al volo e la respinge lontanissima dalla porta di Giovanni Viola.

Corrado Bianchi, giovane giornalista freelance, ha avuto la prontezza di catturare l’incredibile gesto atletico sulla sua pellicola fotografica, consegnando l’uomo-simbolo bianconero alla storia d’Italia. Quindici anni dopo, infatti, la “rovesciata di Parola” comparirà sulle copertine e sulle bustine del mitico album Calciatori della Panini. Nell’illustrazione che riprende la foto di Bianchi, l’artista Wainer Vaccari inventerà dei nuovi colori a Carlo Parola per renderlo imparziale. Con maglia rossa, calzoncini bianchi e calzettoni gialli e neri, quell’omino in posa plastica non può più essere associato ad alcuna squadra in particolare. Ma tutti i tifosi sanno bene che è stato uno juventino, anzi un’esemplare bandiera bianconera, a compiere l’intervento difensivo più elegante e spettacolare di sempre.

Verace uomo di calcio innamorato del gioco e pieno di carisma, Parola ha sempre svolto in maniera impeccabile il suo ruolo chiave all’interno dello scacchiere bianconero, mostrando inoltre un piglio e una caratura da autentico allenatore in campo, ascoltato e seguito con cieca fiducia da tutti i suoi giovani compagni d’avventura. Naturale e quasi inevitabile è stato quindi il passaggio dal campo alla panchina in qualità di tecnico: una carriera che il difensore che amava le rovesciate intraprende già all’indomani del suo ritiro dall’attività agonistica. Nel 1959, tra squilli di tromba in pompa magna, l’ex capitano fa il suo trionfale ritorno in casa Juve, dove rimane per tre stagioni guidando uno squadrone capace di vincere due scudetti e due Coppe Italia. Nonostante il glorioso double nazionale del 1959-’60, il primo della storia bianconera, il rapporto fra Parola e la società juventina vive però di troppe incomprensioni. L’improvviso addio al calcio di Giampiero Boniperti è già di per sé una tegola pesantissima, alla quale vengono ad aggiungersi i guai fisici del mitico John Charles e le intemperanze continue dell’asso argentino Omar Sivori, che a più riprese sfida platealmente l’allenatore torinese, mettendolo in cattiva luce. I risultati disastrosi dell’annus horribilis 1961-’62, chiuso dalla Vecchia Signora addirittura al dodicesimo posto in classifica, sono il viatico ineluttabile per l’esonero di Parola.

Segue un intero decennio in cui il prode Nuccio girovaga tra le panchine delle serie minori, dimostrando di essere un capobranco competente e degno di rispetto. Ottiene due esaltanti promozioni dalla C con Prato e Novara, e viene premiato con il Seminatore d’Oro come miglior allenatore del campionato. I semi gettati sono pronti a germogliare anche a casa sua e così, nell’estate del 1974, la Juventus dà il bentornato in panchina al suo vecchio uomo-simbolo, richiamato dall’ex compagno e amico Boniperti, insediatosi nel frattempo dietro la scrivania di presidente. Quella è anche l’estate in cui la Juve dà il benvenuto a due ragazzi d’oro appena prelevati dall’Atalanta. Uno è Oscar Damiani, attaccante veloce e splendido finalizzatore; l’altro si chiama Gaetano Scirea, gioca da libero e mostra una classe tanto cristallina da far pronosticare per lui un brillante avvenire, magari ricalcando le orme proprio di Carletto Parola: il libero ante litteram del secondo dopoguerra. Coi diamanti grezzi atalantini incastonati nella rosa bianconera, il campionato vive di emozioni incerte solo nelle prime giornate, poi la squadra del nuovo mister viene fuori e si lancia alla conquista dello scudetto. Le uniche inseguitrici che riescono a stare al passo della Signora sono i campioni in carica della Lazio, la Roma del Barone Liedholm e il sorprendente Napoli allenato dal tecnico brasiliano Luis Vinicio. Ma alla fine, non senza sussulti, saranno gli zebrati ad aggiudicarsi il tricolore. Quello sarà l’ultimo regalo di Carlo Parola alla sua Juve, un trionfo suo e del calcio all’italiana, costruito su fondamenta solide fatte di volontà d’acciaio, retroguardia serrata e contropiedi fulminanti che penetrano nel cuore delle difese avversarie. Una eredità preziosa che gli juventini della dorata era bonipertiana metteranno a frutto per molti anni a seguire.