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«La tua macchina?»
Dal vialetto di Sharon Hall, svoltammo bruscamente a destra, facendo stridere le gomme.
«Ryan l'ha presa per disdire la prenotazione in albergo.»
Mi aspettavo una battuta sulla mia vita sessuale. Slidell però non ne fece.
«Digli da parte mia che non c'è niente di personale. Il procuratore vuole che la cosa sia gestita come se il mondo intero stesse a guardare.»
Benché l'intuito di Ryan sarebbe stato una preziosa risorsa nell'esecuzione del mandato sulla proprietà di Evans, non potevo contestare il ragionamento dell'autorità competente. Data la posizione "di Lingo, molti occhi sarebbero stati a guardare, magari per gentile concessione di CNN o FOX.
«Lui sarà in casa?»
Skinny scosse la testa. «Vive in un appartamento in affitto, ricavato da un'antica rimessa per carrozze. La proprietaria è una certa Gracie-Lee Widget. Gracie-Lee Arnese, che razza di nome!»
Gli feci segno di continuare.
«Secondo la signora, Evans il giovedì sera lavora, rientra verso le nove. L'idea non la fa impazzire, ma se le porto un mandato, è disposta a farci entrare nella tana del lupo.»
Il nostro uomo viveva a Plaza-Midwood, un quartiere di vie tortuose, grandi alberi e modesti bungalow d'inizio secolo. C'ero stata molte volte. Situato a metà strada tra i quartieri alti e il campus dell'università, è una zona assai popolare tra i membri sottopagati del corpo docente.
Slidell voltò a destra sulla Shamrock, poi di nuovo in un breve vicolo cieco, e parcheggiò davanti a una casa in stile Lowcountry con tetto spiovente, muri intonacati e persiane verdi a listelli. Nel lungo portico anteriore alloggiavano sedie a dondolo e felci appese in cesti che sembravano aver passato da un pezzo la data di scadenza.
Scendemmo dalla macchina e salimmo i gradini. Skinny suonò il campanello.
Ci volle grosso modo un decennio perché la porta si aprisse. Quando ciò avvenne, capii il perché.
I capelli di Gracie-Lee Widget fluttuavano candidi a ciuffi intorno a un volto solcato da mille rughe. Labbra da spaventapasseri lasciavano indovinare gengive completamente sdentate, ma l'età non era la caratteristica più sorprendente di quella donna.
Gracie-Lee Widget aveva un braccio. Tutto qui. Nessun altro arto. Alla sua spalla sinistra era applicato un complesso organo artificiale, che terminava con due uncini opposti. Si muoveva su una sedia a rotelle che sembrava uscita da Guerre stellari e un plaid adagiato in grembo le copriva quelli che mi parvero due monconi a metà della coscia.
Ci squadrò, scura in volto, chiaramente non compiaciuta.
«Detective Slidell. Ci siamo parlati per telefono.» Skinny le mostrò il distintivo.
Lei glielo strappò di mano, se lo portò vicinissimo al volto. Emise un suono gutturale e glielo rese.
Slidell tirò fuori il mandato. Gracie-Lee lo liquidò con un gesto, come scacciando mosche da una torta.
«Il signor Evans non c'è.»
«Non è un problema.»
«Non è giusto irrompere così in casa di una persona.»
Slidell tese la mano. «Staremo attenti a non rompere niente.»
La vecchia non si mosse.
«Signora?»
Altro suono gutturale. L'uncino si alzò e lasciò cadere una chiave nel palmo del detective.
«Non rovinate le cose di quel simpatico giovanotto.»
Al che, Gracie-Lee premette un bottone sul bracciolo. La sedia a rotelle girò su se stessa e la porta si chiuse sbattendo.
Mentre scendevamo i gradini dell'ingresso, Slidell scosse il capo: «Sono felice di non dover condividere ogni anno con lei il tacchino del Ringraziamento».
«È anziana.»
«Infida come un serpente.»
La rimessa era una struttura a due livelli con un fazzoletto di giardino, in fondo a un vialetto di ghiaia. Doppio garage sotto, alloggio sopra. Il secondo piano era accessibile mediante una scala esterna in legno.
Vecchi cespugli di lagerstroemia crescevano fitti sul retro della proprietà. Benché la luce del crepuscolo stesse svanendo in fretta, oltre il fogliame si intravedeva una vasta distesa erbosa.
«Oh, non è commovente? Abita in culo al Charlotte Country Club.»
La sua voce grondava disprezzo. Per il golf? Per quelli che vivono all'estremo sbagliato del campo? Per quelli abbastanza ricchi da essere soci?
Non commentai.
Oltrepassammo un laghetto ornamentale verde di alghe, una fioriera di mattoni traboccante di foglie morte, una fontana per gli uccelli che giaceva a terra in due pezzi.
Camminando, il detective mi fece un gesto con il palmo rivolto all'ingiù. Sensibile al suo linguaggio del corpo, restai immobile.
Attraverso una finestrella sporca, vidi che il garage conteneva solo utensili da giardino, una scala di legno e un set di mobili da esterno in ferro battuto. Sulla parete di fondo c'era una porta aperta che conduceva presumibilmente in un altro vano, adibito a deposito o trasformato in piccola officina.
«Niente Chevy Tahoe» borbottò Skinny, più a se stesso che a me.
«Dov'è la Scientifica?»
«Stanno arrivando.»
Il solito Slidell.
Si diresse alla scala d'ingresso dell'appartamento, ma dovette notare qualcosa di strano, perché s'accovacciò a ispezionare il primo gradino, poi si rimise in piedi e salì direttamente sul secondo.
Guardai giù.
C'era un filo metallico teso, in basso, per tutta la larghezza della rampa. Annuii per segnalare che avevo visto anch'io il trabocchetto.
Giunto sul pianerottolo, con un altro gesto del palmo, Slidell mi fece segno di mettermi alle sue spalle. Bussò alla porta. «Glenn Evans?»
Da qualche parte in lontananza un treno fischiò.
«Polizia di Charlotte-Mecklenburg. Ho un mandato di perquisizione per questo edificio.»
Nessuna risposta.
Il detective estrasse la pistola e si sporse in avanti, accostandosi all'uscio. Girò la testa a sinistra, a destra, poi arretrò e bussò di nuovo.
«Ho la chiave, signor Evans. Sto entrando.»
La porta si aprì senza difficoltà.
Gli avvolgibili erano tutti abbassati e solo il cigolio di un'asse del pavimento venne a spezzare il silenzio di tomba che regnava all'interno.
Slidell sollevò un interruttore a parete.
La cucina era moderna, in stile europeo: pavimento di piastrelle bianche e nere, pensili neri lucidi, molto vetro. Elettrodomestici in acciaio inox.
Nessun frigorifero abbastanza grande da contenere un corpo.
«Tu resta qui.» Brusco.
Impugnando la Glock a due mani, a lato del naso, raggiunse con ampie falcate la porta di fronte e appoggiò la schiena alla parete. Mi precipitai al suo fianco.
Voltò di scatto la testa verso di me, mi fulminò con lo sguardo. Alzai le mani in segno di resa: okay, sarei rimasta al riparo.
Scomparve oltre la soglia.
Io sbirciai da dietro lo stipite: buio.
Mi ritrassi, aspettai. Ero talmente zitta e ferma che sentivo il respiro salire e scendere in gola.
Alla fine, una seconda luce si accese.
«Via libera.»
Dalla cucina, passai in un piccolo corridoio interno, con una porta su ciascun lato. Udii il detective sbattere cassetti dietro l'uscio che avevo di fronte e lo raggiunsi.
«Una reggia, eh?» Il tono era, ancora una volta, sprezzante.
«Soggiorno, camera, cucina, bagno. Mi sa che i dipendenti del vecchio Lingo non nuotano esattamente nell'oro.»
Mi guardai intorno.
La stanza dava un nuovo significato alla parola «sobrio». Pareti, mobili, tende e tappeti beige. Soffitto e pezzi d'arredamento in legno bianco. Niente cuscini allegri o simpatici sottobicchieri. Niente foto di cani o di amici con tremendi cappellini da party. Niente trofei, ritratti, ricordi, oggetti d'artigianato.
Dietro il divano si levava una piantana in ottone, una TV a schermo piatto occupava l'ultimo ripiano di una scaffalatura incassata nel muro. A sinistra della nicchia c'era una cassettiera, anch'essa rientrata; dall'altra parte, un'anta.
Le mensole sotto il televisore contenevano file di DVD. Infilai guanti di lattice, mi avvicinai e scorsi i titoli.
Matrix, Il gladiatore, Il patriota, Starship troopers - Fanteria dello spazio, una trilogia dedicata a un tale di nome Bourne.
«Gli piacciono i film d'azione» osservai.
Slidell sbatté un cassetto, ne spalancò un altro con la mano guantata.
Io aprii l'antina: liquori.
«Certo non è astemio.» Passai in rassegna le etichette. Whisky scozzese Johnny Walker Blue Label, bourbon Evan Williams invecchiato ventitré anni, vodka Belvedere. «Per la bisboccia non bada a spese.»
Slidell era all'ultimo cassetto. Non vedendo altro d'interessante, passai in bagno.
Piuttosto pulito. Lavabo a colonna e wc vecchio stile. Tende della doccia in vinile nero. Asciugamani neri e bianchi.
Sopra il cassone della toilette c'erano un pennello in setole di cinghiale, un rasoio, una bomboletta di gel da barba e uno spazzolino elettrico.
L'armadietto dei medicinali conteneva le solite cose: filo interdentale, dentifricio, aspirina, pepto-bismol, spray nasale, cerotti. Sul bordo della vasca erano appoggiati un flacone di shampoo antiforfora e una saponetta.
Passi pesanti di Slidell nel corridoio. Lo raggiunsi in camera da letto.
Lì, il padrone di casa si era sbizzarrito: pareti dipinte in rosso, tappeto zebrato sopra la moquette beige, copriletto in satin nero e, a fare da testata, una pelle di leopardo appesa a una riioga. Il resto della stanza era occupato da due comodini e da un carrello metallico con un altro televisore a schermo piatto.
«Era meglio se rimaneva sul sobrio.»
Per una volta, il giudizio di Skinny in fatto di stile era azzeccato.
Spalancò l'anta scorrevole di un armadio e cominciò a dare un'occhiata agli abiti. Io aprii il cassetto del comodino più vicino a me.
«Guarda qua» dissi.
Slidell mi si accostò. Gli indicai una scatoletta azzurra con una cowgirl dalla folta chioma sull'etichetta.
«Preservativi con rilievi esterni Rough Rider» lesse. «Il nostro amico è un playboy.»
«O vorrebbe esserlo. Ne mancano?»
Contò. Annuì. Tornò all'armadio.
Passò qualche secondo, dopodiché lo sentii esclamare: «Salve!».
Mi voltai.
«Guarda che cosa tiene nascosto il nostro rude cavalleggero tra i mocassini.»
Aveva in mano una scatola da scarpe che conteneva forse una dozzina di DVD. Lesse alcuni titoli.
I collegiali vengono a casa, Gang bang gay, Stallone rampante.
Slidell alzò gli occhi, incontrando i miei. Un sorrisetto gli increspava un angolo della bocca.
«E così Evans milita nell'altra squadra. Suppongo che questo abbia attinenza con il movente.»
Gettò la scatola sul letto e agganciò la cintura con il pollice. «In cucina non c'è spazio: dove può aver piazzato un congelatore quel pallone gonfiato?»
«In garage c'è una porta interna.»
«Certo che c'è.» Guardò l'orologio. «Diamo un'occhiata.»
Si precipitò giù per le scale, io lo seguii con un passo un tantino più prudente.
Fuori era buio, gli arbusti una frastagliata barriera tra il cortile della Widget e il campo da golf retrostante. Non una luce proveniva dal minaccioso bunker dell'edificio principale.
Il garage non era chiuso a chiave. Slidell andò dritto alla porta interna e tentò con la chiave di Gracie-Lee. Non entrava.
Girò il pomello a destra e a sinistra, poi tentò con una spallata: niente da fare.
Sollevò il piede e assestò un bel calcio: l'uscio reggeva ancora. Ci riprovò più e più volte: il montante cominciò a cedere, a scheggiarsi. Un'ultima spinta decisa e la porta si spalancò.
Skinny trovò un interruttore: era davvero il suo forte.
Un tubo fluorescente si accese con un forte ronzio.
Il vano era circa due metri e mezzo per tre. A destra c'erano scaffali, a sinistra una credenza o forse un vecchio mobile da bagno avvolto da una trapunta assicurata con una corda.
La parete di fondo era rivestita da pannelli «millefori» costellati di ganci metallici. A ogni gancio era appeso un utensile: martelli, cacciaviti, una chiave inglese. Una sega a mano.
Mi balzò il cuore in gola.
Impossibile: Klapec non era certo stato decapitato con uno strumento manuale.
Scandagliai gli scaffali.
Sul soffitto, la lampada fluorescente ronzava e crepitava.
Poi la vidi, sul secondo ripiano dall'alto: una scatola di cartone con la scritta «Sega elettrica circolare 15 cm» stampata su un lato.
Accanto a me, Slidell strattonava la corda che legava il mobile avvolto nella trapunta. Allungai istintivamente la mano, gli presi il braccio, si voltò.
Senza una parola, accennai con il capo allo scatolone. Lui si allungò per prenderlo, lo depose a terra con un brusco movimento e scostò indietro con furia le alette. Dentro c'era una vecchia sega circolare McGraw-Edison.
I nostri occhi s'incontrarono.
«Sì.» Non dissi altro.
Poi Slidell staccò un paio di cesoie da siepe dal millefori e tagliò la fune intorno alla trapunta con quattro colpi secchi. Insieme afferrammo la stoffa e tirammo.
Sotto non c'era un mobile, ma un congelatore orizzontale Frigidaire, bianco standard, capacità sui duecentotrenta litri.
«Figlio di puttana.» Mi spinse da una parte con una gomitata, nella sua ansia di vedere il contenuto.
«Non dovrebbe fotografarlo la Scientifica, prima che lo apriamo noi?»
«Già» disse Slidell, facendo scattare la chiusura e sollevando il coperchio verso l'alto con entrambe le mani.
Sopra il sibilo dell'aria gelata e il ronzio che proveniva dal soffitto, udii uno scoppio attutito.
«Che cos'era?» chiesi.
Ignorò la domanda. «A quanto pare, Evans non ha investito nel modello autosbrinante.»
Il commento era leggero, ma il tono greve. Slidell aveva ragione: l'interno del congelatore era completamente incrostato di brina e cristalli di ghiaccio.
In alto a sinistra c'era un cestello metallico rettangolare pieno di sacchetti di plastica. Ne raschiai qualcuno per riuscire a leggere l'etichetta. Verdure surgelate, carne trita, quello che pareva essere un arrosto di maiale.
Flashback: l'impronta sul dorso di Klapec. Il cestello?
No, quello era un disegno lineare, mentre il contenitore, qui, in acciaio inox, aveva una struttura a reticolo.
Tenni le mie osservazioni per me. Del resto, la mia attenzione era completamente attratta da un altro oggetto avvolto nella plastica, infilato in un angolo sul fondo del congelatore.
Tondeggiante. Forse un prosciutto? Troppo grosso. Un tacchino?
Allungai la mano e tirai fuori la massa congelata. Stranamente, non c'era brina sull'involucro: qualcosa non quadrava.
L'oggetto era pesante, circa quattro o cinque chili. Poggiandolo in equilibrio sul bordo del congelatore, rammentai le parole con cui avevo descritto a Slidell il peso del cranio umano. Più o meno come un pollo ruspante, avevo detto.
Con mani tremanti premetti la plastica trasparente contro il suo contenuto. Apparvero dei particolari, sfocati e confusi come oggetti sul fondo di un torbido stagno.
Un orecchio, il sangue raccolto tra le curve e le pieghe delicate. La linea di una mandibola. Labbra violacee. Un naso appiattito, schiacciato su una guancia priva di colore. Un occhio semiaperto.
D'un tratto, avevo bisogno d'aria.
Piantai la testa di Klapec in mano a Slidell e uscii di corsa.
Camminai su e giù, rodendomi un pollice, in attesa che Skinny venisse fuori, che arrivasse il furgone della Scientifica.
Passarono stancamente alcuni secondi. O forse erano minuti.
Udii il suono attutito del telefono di Slidell.
Il mio sguardo si posò sullo scorcio di campo da golf al di là. Avanzai fino alla siepe, sperando che una vista pacifica mi avrebbe calmato i nervi.
E inciampai in qualcosa che giaceva nell'ombra.
Qualcosa di voluminoso e di pesante. Un peso morto.
Col cuore in gola, mi tirai su, in ginocchio, e mi voltai.
Glenn Evans era steso sul prato, l'occhio vacuo, il sangue che colava da un foro esattamente al centro della fronte.