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Scattai in piedi e mi lanciai lungo la 35a Strada.

Numerose sirene gemevano in lontananza. Una folla di curiosi si andava radunando sui marciapiedi fino a pochi istanti prima completamente deserti e, di fronte a me, s'era formato un capannello intorno al ferito. Tra le gambe degli astanti colsi la forma immobile, un rivolo scuro che, dal petto, scorreva lentamente verso il margine della strada.

Avanzai, facendomi largo tra la gente a spintoni. Slidell era in ginocchio, il volto chiazzato, le mani premute sul torace del collega.

Mi balzò il cuore in gola.

Le palpebre di Eddie erano bluastre, il viso di un pallore cadaverico. La pioggia gli inzuppava i capelli, la camicia. La pozza di sangue si allargava sul selciato, fluiva lungo il cordolo. Troppo sangue.

«State indietro!» gridava Slidell, la voce che tremava di rabbia. «Lasciategli un po' di stramaledetta aria!»

Il cerchio si allargò, ma subito riprese a contrarsi. Cellulari scattarono, catturando l'immagine impietosa.

I gemiti lontani si approssimavano, aumentavano di numero. Sapevo che Slidell aveva lanciato il codice di emergenza «Uomo a terra»: le unità stavano accorrendo da ogni angolo della città.

«Faccio io qui» dissi, accovacciandomi accanto a lui. «Tu occupati della folla.»

Alzò gli occhi di scatto a incontrare i miei. Respirava affannosamente. «Sì.»

Feci scivolare le mani sotto i suoi palmi, sul petto di Rinaldi. Avvertii il tremore del suo braccio.

«Forte! Devi premere forte!» Una vena pulsava al centro della fronte di Slidell, i capelli circondati da un alone di umidità.

Annuii, incapace di parlare.

Il detective balzò in piedi, si avventò sui curiosi, i piedi che sdrucciolavano sull'asfalto bagnato di pioggia, reso scivoloso dal sangue del ferito.

«Fate un cazzo di passo indietro!» I palmi sollevati del poliziotto erano di un raccapricciante color cremisi.

Abbassai lo sguardo, concentrata su un unico scopo.

Ferma il sangue!

Troppo! Buon Dio, nessuno poteva sopravvivere a una perdita come quella.

Ferma il sangue!

I secondi passavano. La pioggia fine cadeva lenta e regolare.

Una sirena si avvicinò ululando, poi si spense. Un secondo. Luci pulsarono, trasformando la strada in un vortice lampeggiante di rosso e di blu.

Ferma il sangue!

Portiere si aprirono, si richiusero, sbattendo. Risuonarono passi di corsa, voci urlanti.

Ferma il sangue!

Percepii lo spazio, il movimento, alzai gli occhi, i palmi sempre premuti sul torace di Rinaldi.

Agenti in uniforme tenevano indietro i presenti a forza.

Il mio sguardo tornò a posarsi sulle mani, ormai lucide e scure.

Ferma il sangue!

Piedi mi apparvero accanto, due calzati in stivali, due in scarpe da ginnastica New Balance. Umide. Infangate.

Stivali si accovacciò e mi disse qualcosa. L'udii appena, attraverso il mantra che controllava la mia mente.

Ferma il sangue!

Posò una mano sulle mie, sopra la camicia inzuppata di sangue. Lo guardai negli occhi. Le iridi erano azzurre, il bianco percorso da una rete di minuscole venuzze rosse.

Mi rivolse un cenno del capo.

Io mi alzai e arretrai con gambe di gomma.

Conoscevo la procedura. Intubazione. Respirazione. Circolazione. Restai a guardare, stordita, mentre i paramedici svolgevano il loro lavoro, inserendo il tubo endotracheale, collegando il paziente alla sacca ossigeno, valutando il polso carotideo.

Poi legarono Rinaldi a una lettiga, lo issarono a bordo, chiusero i portelli.

Guardai l'ambulanza allontanarsi a tutta velocità nella notte di Charlotte.

 

Lasciando la scena del crimine ad altri, Slidell e io andammo direttamente al Carolinas Medical Center. Incrociammo decine di autopattuglie lanciate in direzione del NoDa. Altre bloccavano le strade. La città palpitava di sirene e luci lampeggianti.

Nella sala d'aspetto del pronto soccorso c'era già una mezza dozzina di poliziotti. Notando a stento la loro presenza, Slidell abbaiò il suo nome e chiese del medico responsabile di Rinaldi.

Un'impiegata dell'accettazione ci accompagnò in un bagno, perché potessimo lavarci via il sangue dalle mani e dalle braccia. O forse era un'infermiera, o un'inserviente: chi ci faceva caso? Quando ritornammo in sala, ci invitò a sederci e attendere.

Slidell cominciò a dare in escandescenze. Lo trascinai per un braccio a una fila di poltroncine metalliche concatenate. Era teso come una corda di violino.

Captando l'umore di Skinny, si tennero tutti alla larga. Gli addetti alla sicurezza dell'ospedale comprendevano lo stato d'animo dell'uomo e non intervennero a placarlo. Rimasero lì ad assicurarsi che la situazione non degenerasse.

Ci lasciammo cadere sui sedili e cominciammo ad aspettare, ciascuno perso nei propri pensieri.

Io non cessavo di sentire gli spari, di vedere il volto esangue di Rinaldi. Il sangue. Troppo sangue.

Slidell si alzava e usciva di continuo. Ogni volta, tornava con il fumo di sigaretta appiccicato addosso, come pioggia su un cane. Quasi gli invidiavo quel diversivo.

Lentamente, il numero di poliziotti presenti aumentò. Investigatori in borghese in piedi accanto a uomini in divisa, i volti tesi, le voci sommesse.

Finalmente, si avvicinò un dottore scuro in volto, con indosso un camice imbrattato di sangue. Su una manica c'era una macchia che somigliava alla Nuova Zelanda. Perché ci vengono in mente certe cose?

Slidell e io ci alzammo, terrorizzati e speranzosi al tempo stesso. Il badge sul camice del medico indicava il nome «Meloy».

E Meloy ci spiegò che Rinaldi si era preso due colpi al torace e uno all'addome. Un proiettile l'aveva trapassato da parte a parte, gli altri due erano ancora dentro.

«È cosciente?» domandò Slidell, il viso contratto da una cupa determinazione.

«È ancora sotto i ferri» rispose Meloy.

«Ce la farà?»

«Il signor Rinaldi ha perso moltissimo sangue. Il danno tissutale è esteso.»

Slidell si sforzò di non alzare la voce: «Non è una risposta».

«La prognosi non è buona.»

Il medico ci condusse in un salottino riservato al personale e ci invitò a restare quanto volevamo.

«Quando finirà l'intervento?»

«Impossibile dirlo.»

Promise di chiamarci in caso di novità e se ne andò.

Rinaldi morì alle ventitré e quarantadue.

Slidell ascoltò impassibile la notizia dalla bocca di Meloy. Poi si voltò e uscì dalla stanza.

Un'agente mi diede un passaggio fino a casa. Avrei dovuto dirle grazie, ma non lo feci: come Slidell, ero troppo annientata per badare all'etichetta. In seguito avrei chiesto il suo nome e mandato un biglietto. Credo abbia compreso.

Stesa nel letto, piansi finché non mi rimasero più lacrime. Poi caddi in un sonno senza sogni.

Mi risvegliai la domenica mattina con la sensazione che qualcosa non andasse, ma senza ricordare cosa. Poi ricordai e cominciai a piangere di nuovo.

L'«Observer» uscì con un titolo a nove colonne, di quelli riservati allo scoppio di una guerra o alla fine delle ostilità. Caratteri in neretto alti cinque centimetri urlavano: «POLIZIOTTO UCCISO».

Radio e televisione si gettarono sulla notizia con altrettanta frenesia, con una retorica ampiamente campata per aria. Omicidio tra gang. Assassinio. Spari da un'auto in corsa. Esecuzione.

Asa Finney non sfuggì ai riflettori. Fu descritto come un sedicente stregone, arrestato per il possesso del cranio di Greenleaf Avenue e indagato per l'omicidio di matrice satanica di Jimmy Klapec.

La sua foto, scattata da Allison Stallings, apparve sulla prima pagina dell'«Observer», su Internet, e alle spalle di compassati giornalisti dei notiziari televisivi. Ovunque si poneva l'accento sul fatto che Rinaldi stesse seguendo entrambi i casi.

L'assaggio mattutino della copertura mediatica dell'evento mi lasciò piuttosto sconfortata e, da allora, la giornata non fece che peggiorare.

Katy chiamò alle dieci, disse che le dispiaceva per Rinaldi. Ringraziai, chiesi com'era andato il picnic. Divertente come un foruncolo sulla chiappa, rispose. E adesso la mandavano chissà dove nella contea di Buncombe, per aiutare a smistare ed etichettare dei documenti. Io dissi che quella sua recente negatività era davvero deprimente. O qualcosa di altrettanto sconsiderato. Lei replicò che, se c'era una negativa, quella ero io, sempre pronta a criticare tutto di lei. Criticare cosa? I suoi gusti musicali, per esempio. Negai. Mi sfidò a nominare un gruppo che le piaceva. Non ne fui capace. Riagganciammo, risentite e ostili.

Boyce Lingo era già in onda prima di mezzogiorno, a pontificare sulla decadenza e sulla corruzione dei costumi, insistendo che il mondo si rifacesse a sua immagine e somiglianza. Come in precedenza, incoraggiò gli elettori a prendere attivamente posizione contro le forze del male e a pretendere lo stesso dai propri rappresentanti.

Additò Asa Finney quale esempio di tutto ciò che non andava nella società moderna e, con mio sommo sbigottimento, lo dipinse come un beniamino di Satana, lasciando intendere un collegamento con l'omicidio di Rinaldi.

Una ricerca su Google rivelò, infine, che Allison Stallings scriveva libri di cronaca nera, seguendo fatti di sangue realmente accaduti. Ultima pubblicazione: il resoconto - a basso costo e ad alta diffusione - di un omicidio domestico avvenuto a Columbus, Georgia. Il volume non appariva nemmeno su Amazon.

Si era inoltre guadagnata il credit fotografico sul «Columbus Ledger-Inquirer» e aveva messo a segno un importante reportage per la Associated Press.

Cielo, quella donna stava cercando idee per i suoi libri.

Verso le tre, controllai la posta elettronica. C'era un messaggio dall'ufficio del capo medico legale a Chapel Hill. Mi comunicavano tre cose. Il capo era estremamente preoccupato per la mia filippica del venerdì precedente. Avrei avuto sue notizie martedì mattina. Nel frattempo, dovevo astenermi da qualunque contatto con gli organi d'informazione.

Ryan non chiamò.

Charlie non chiamò.

Birdie vomitò sul tappetino del bagno.

Tra e-mail e telefonate e conati felini e lacrime, mi misi a pulire. Non una passata del tipo «aspirapolvere più straccio»: mi avventai con furia sull'Annesso, fregando con lo spazzolino da denti ogni interstizio tra le piastrelle del bagno, strofinando il forno, cambiando i filtri del condizionatore, sbrinando il freezer, buttando praticamente l'intero contenuto dell'armadietto dei medicinali.

L'intensa attività fisica funzionò. Finché non mi fermai.

Alle sei, ero in piedi nella mia cucina tirata a lucido, il dolore che minacciava ancora una volta di farmi perdere il controllo. Birdie era in cima al frigorifero a distanza di sicurezza.

«Così non va, Bird» dissi.

Il gatto mi studiò, diffidando ancora dell'aspirapolvere.

«Dovrei fare qualcosa per tirarmi su.»

Nessuna risposta dall'alto del Sub-Zero.

«Cinese» decisi. «Ordinerò cinese.»

Bird riposizionò le zampe anteriori, centrandole sotto il mento sollevato.

«So che cosa stai pensando. Non posso starmene sempre qui seduta a mangiare da piccoli cartoni bianchi.»

Non negò, né confermò in alcun modo.

«Hai ragione. Andrò da Baoding e ordinerò tutti i miei piatti preferiti.»

Così feci.

E la giornata toccò davvero il fondo.

 

Benché cenare al ristorante sia tra le attività che prediligo, ho sempre sentito il bisogno dell'elemento sociale. Quando sono sola, mangio con Birdie, davanti alla TV.

Ma, nel Sud-est, Baoding è una vera e propria tradizione di fine weekend. La domenica sera ci trovo sempre facce conosciute.

Quella sera non fece eccezione.

Sfortunatamente, non erano facce che ero ansiosa di trovarmi di fronte.

I Martini sono una specialità della casa, soprattutto per quelli che aspettano le portate da asporto. Non molto cinese, ma tant'è.

Quando entrai, Pete era al bancone del bar, parlava con una donna seduta alla sua destra. Entrambi bevevano quelli che mi parvero degli Apple Martini.

Rapido dietro-front.

Troppo tardi.

«Tempe! Da questa parte.»

Balzando in piedi dal suo sgabello, Pete mi agguantò prima che riuscissi a svignarmela dalla porta.

«Devi conoscere Summer.»

«Non è un buon...»

Raggiante, mi trascinò all'altro capo del locale. Summer si era voltata e ora guardava nella nostra direzione.

Peggio di quanto pensassi: una fanciulla biondo platino, con seni grandi come palloni da spiaggia e una blusa di gran lunga insufficiente a contenerli. Nel corso delle presentazioni, pensò bene di delimitare il territorio avviluppando il braccio a quello di Pete.

Espressi le mie congratulazioni per il fidanzamento.

Lei mi ringraziò, freddamente.

Pete continuava a sorridere, senza far caso all'improvviso calo della temperatura.

Chiesi come procedevano i preparativi per le nozze.

Summer si strinse nelle spalle, trafisse un'oliva con una bacchetta da cocktail in plastica rossa.

Grazie al cielo, in quel momento, arrivò la loro ordinazione.

Lei saltò giù dallo sgabello come una bambola a molla. Afferrando la borsa, farfugliò: «È stato un piacere» e si avviò verso la porta, lasciandosi dietro una scia di Fleur de qualcosa.

«È nervosa» commentò Pete.

«Senz'altro» replicai io.

«Tutto bene?» Studiò la mia faccia. «Mi sembri stanca.»

«Ieri è stato ucciso Rinaldi.»

Le sue sopracciglia fecero quella tipica cosa che fanno quand'è in confusione.

«Eddie Rinaldi. Il partner di Slidell.»

«La sparatoria di cui parlano dappertutto?»

Annuii.

«Lo conoscevi da una vita!»

«Sì.»

«Eri presente?»

«Sì.»

«Merda, Tempe. Mi dispiace davvero.»

«Grazie.»

Mi prese la mano. «Ti chiamo.»

Annuii, simulai un sorriso. Parlando, temevo, avrei lasciato trasparire che il dolore era una presenza tangibile nel mio cuore.

«Ecco la mia Tempe. Solida come una roccia.»

Mi baciò la guancia. Un attimo dopo non c'era più.

Chiusi gli occhi, afferrai il retro dello sgabello di Summer. Alle mie spalle, un cicaleccio ininterrotto: allegri convitati che godevano della reciproca compagnia.

Il mio naso captò olio di sesamo, aglio, soia: gli odori di anni felici in cui Pete, Katy e io passavamo le serate domenicali da Baoding.

Gli ultimi giorni mi avevano distrutta. Rinaldi. Katy. Il capo. Boyce Lingo. Takeela Freeman. Jimmy Klapec. Susan Redmon. E infine Pete e Summer.

Avvertii un tremito nel petto. Respirai a fondo.

«Aspetti il takeaway?» sussurrò una voce al mio orecchio.

Aprii gli occhi. Charlie Hunt era chino su di me, il volto accanto al mio.

«Ti offro una Perrier?»

Quello che dissi dopo, lo rimpiangerò in eterno.

«Offrimi un Martini.»