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«Che c'è?»

«Non ci credo.»

«Cosa c'è?»

Appallottolando il tovagliolo, Katy si scostò dal tavolo e attraversò il ristorante a grandi passi.

Mi voltai, confusa, in apprensione.

La vidi parlare con un uomo alto che indossava un trench molto lungo. Era spigliata, sorridente.

Mi rilassai.

Poi m'indicò e agitò la mano. L'uomo fece lo stesso. Aveva un aspetto familiare. Abbozzai un saluto con la punta delle dita.

I due vennero verso di me.

Corporatura da NBA, camminata sciolta, capelli neri con una riga che pareva opera di Hugh Grant in persona.

Ping. Mi si accese una lampadina in testa.

Charles Anthony Hunt. Il padre aveva giocato in difesa nei Celtics e poi nei Bulls, la madre era una famosa sciatrice italiana.

Charlie Hunt era stato mio compagno di classe alla Myers Park High. Giocava in tre squadre scolastiche ed era presidente dei Giovani democratici. L'annuario lo definiva il diplomato con le maggiori probabilità di diventare famoso entro i trent'anni. A me era stato pronosticato un futuro come cabarettista.

Dopo il diploma io avevo lasciato Charlotte per la University of Illinois, avevo frequentato la scuola di specialità alla Northwestern e sposato Pete.

Lui aveva frequentato la Duke con una borsa di studio destinata ai giocatori di basket, poi aveva studiato legge alla UNC di Chapel Hill. Negli anni, mi era giunta notizia che si era sposato ed esercitava su al Nord.

Charlie e io giocavamo entrambi nella squadra di tennis dell'istituto. Lui era un fuoriclasse, io vincevo buona parte dei miei incontri. Lo trovavo attraente. Come tutte. Negli anni Settanta, il Sud era sferzato dai venti del cambiamento, ma le vecchie consuetudini son dure a morire. Non uscimmo mai insieme.

Subito prima della partenza per il college, però - era il ponte del 1° maggio -, Charlie e io ci affrontammo in un singolo un po' particolare, giocato sui sedili posteriori di una Skylark dopo aver fatto il pieno di tequila.

Al ricordo, mi feci piccola piccola, concentrandomi sulla piccata di vitello.

«Mamma.»

Alzai gli occhi.

Charlie e Katy erano accanto a me ed esibivano entrambi una sfavillante, copiosa dentatura.

«Mamma, questo è Charlie Hunt.»

«Charlie...» Sorrisi, tendendogli la mano.

L'uomo la strinse con dita abbastanza lunghe da racchiudere il Toronto Skydrome. «Lieto di rivederti, Tempe.»

«Voi due vi conoscete?»

«Tua madre e io andavamo a scuola insieme.» Il suo accento era ancora più monotono e marcato di quel che ricordassi, forse il risultato degli anni trascorsi al Nord, forse il prodotto di una forzatura volontaria.

«Non me l'hai mai detto.» Katy gli sferrò scherzosamente un pugno al bicipite. «Obiezione, avvocato. Occultamento di prove.»

«Katy mi ha aggiornato su tutti i tuoi successi.» Stringeva ancora le mie dita, scrutandomi con quel suo sguardo che significava «sei l'unica e la sola dell'intero globo terracqueo».

«Non mi dire.» Liberando la mano, fissai mia figlia, gli occhi due fessure.

«Katy è una ragazza davvero molto orgogliosa di sua madre.»

La ragazza orgogliosa sfoderò un sorriso spudoratamente studiato. «Mamma e io stavamo giusto parlando di te, Charlie, ed eccoti qui. Che coincidenza.»

Casuale come l'aglio e l'alito cattivo, pensai.

«Dovrebbero fischiarmi le orecchie?» Ampio sorriso da ragazzino. Gli veniva bene.

«Abbiamo detto solo cose buone» rispose Katy.

Lui assunse un'opportuna espressione di sorpresa e di modestia.

«Devo andare» disse. «Passavo per caso, ho visto Katy dall'altra parte del vetro e ho pensato di entrare velocemente a dirti che splendido lavoro faccia per noi.»

«Certamente sta apprezzando la sfida» affermai, «soprattutto l'inserimento dati. Katy ha sempre adorato immettere informazioni in un computer.»

Questa volta, fu lei a guardarmi di traverso.

«Be', noi di sicuro siamo contenti di averla a bordo.»

Dovevo ammetterlo, con gli occhi verde smeraldo e le ciglia chilometriche, Charlie Hunt aveva ancora il fascino di un divo del cinema. I capelli erano neri, la pelle un piacevole compromesso tra Africa e Italia e, benché il soprabito nascondesse l'addome, non sembrava portarsi dietro molti più chili di quanti ne avesse addosso sui sedili posteriori della Skylark.

Fece per andarsene; Katy mi rivolse una minacciosa occhiata «di' qualcosa», mostrandomi gli artigli.

Piegai la testa e le rivolsi un radioso sorriso. Muta.

«Mamma sta lavorando a quella faccenda dei calderoni» fece lei, con un tono fin troppo enfatico. «Per questo i suoi capelli sono...» agitò una mano nella mia direzione «bagnati.»

«È perfetta.» Charlie mi guardò, raggiante.

«È anche meglio con un po' di mascara e un tocco di fard.»

Le mie guance senza fard avvamparono.

«Truccare quel viso sarebbe un delitto, come ritoccare un Renoir. Ragazze, devo proprio andare, statemi bene.»

Charlie si voltò, esitò, tornò a volgersi indietro, stile tenente Colombo.

Ci siamo, pensai.

«Tu e io giochiamo per squadre avversarie, pare.»

Il mio sguardo dovette rivelare una certa perplessità.

«Tu li sbatti dentro, io li tiro fuori.»

Alzai un sopracciglio.

«Potrebbe essere lo spunto per interessanti conversazioni bevendo una tazza di caffè.»

«Sai, non posso parlare...»

«Certo, certo, ma nessuna legge vieta le chiacchiere tra due vecchi compagni di scuola.»

E giuro che mi strizzò l'occhio.

 

Quando arrivai a casa erano quasi le dieci. Katy aveva già lasciato un messaggio in segreteria: la reiterazione del discorso post-Charlie. «Non arrabbiarti. Dagli una possibilità. È in gamba.»

Charlie Hunt poteva anche essere un principe: non ci sarei uscita. Un appuntamento combinato dalla mia progenie era un'umiliazione di cui facevo volentieri a meno.

C'erano altri due messaggi. Pete. «Telefonami. Una società di architettura del paesaggio acquisterebbe il nostro set da giardino.»

Delusione. Poi il solito botta e risposta mentale.

Credevi davvero che Ryan avrebbe chiamato?

No.

Giusto.

Al diavolo.

Vive con un'altra donna.

Non sono sposati.

Avrebbe potuto chiamarti sul cellulare.

Il cellulare.

Afferrai la borsa, tirai fuori il telefono e controllai i messaggi.

Lascialo andare.

Mi manca parlare con lui.

Parla col gatto.

Siamo ancora amici.

Volta pagina.

Mi sistemai a letto e accesi il televisore per vedere il notiziario.

Un'insegnante di cinquantasette anni, in seguito al licenziamento, citava il distretto scolastico per atteggiamento discriminatorio nei confronti dell'età. Un camionista disoccupato aveva vinto quindici milioni di dollari alla lotteria.

Bird saltò sul letto e si raggomitolò accanto al mio ginocchio.

«Buon per lui» dissi, accarezzandogli la testa.

Il gatto mi guardò.

«Il camionista. Ha cinque figli e niente lavoro.»

Il felino continuava a non avere un'opinione in proposito.

Una coppia era stata arrestata per aver sottratto alcuni cavi di rame da un'azienda in Tuckaseegee Road. Oltre all'accusa di furto, i due ingegnosi personaggi si erano anche guadagnati un'incriminazione per induzione di minori a commettere reato: mamma e papà si portavano dietro i ragazzi durante le loro incursioni.

Le autorità stavano indagando sul decesso improvviso di un sessantaquattrenne nella sua casa di Pineville. Benché la polizia non avesse trovato traccia di illecito, la morte era stata ritenuta sospetta. Il medico legale avrebbe eseguito l'autopsia.

Mi assopii.

«... adorazione di Satana, proprio qui, nella nostra città. Idolatria, sacrifici, riti di sangue.»

Voce baritonale, vocali dense come linfa.

Spalancai gli occhi.

Il servizio era quasi alla fine. Corpulento e rubicondo, Boyce Lingo stava propinando una delle sue filippiche ad alto impatto mediatico.

«Gli adoratori del demonio devono essere stroncati con durezza e rapidità, le loro pratiche malvagie bloccate prima che arrivino a insinuarsi nelle scuole, nei parchi gioco, prima che giungano a minacciare il tessuto stesso della nostra società.»

Predicatore tramutato in commissario della contea, Lingo era un caso esemplare di estremismo ideologico, pseudocristianesimo e pseudopatriottismo, con il presupposto sottilmente velato della supremazia del maschio bianco. I suoi sostenitori volevano un'economia senza regole, uno stato sociale ridotto ai minimi termini, un esercito forte e una cittadinanza bianca, autoctona e strettamente osservante.

«Imbecille!» Se il telecomando fosse stato a portata di mano, avrebbe preso subito il volo.

Birdie schizzò giù dal letto.

«Razza di tonto! Testa vuota!» I miei palmi colpirono il materasso.

Udii passi felpati: probabilmente Birdie aumentava le distanze. Affari suoi. Quello sfogo plateale era tipico di Lingo: aveva la prerogativa di cavalcare qualunque avvenimento di interesse mediatico per assicurarsi un minuto in onda o un centimetro di carta stampata.

Spensi TV e lampada, e rimasi sdraiata al buio, tesa, furibonda. Mi rigirai, scalciai le coperte, presi a pugni il cuscino, un caleidoscopio di pensieri e immagini che mi vorticava nel cervello. I calderoni, il pollo in decomposizione, il cranio umano, i femori.

La fotografia.

Chi era quella ragazza? La decisione di Slidell era stata saggia? O avremmo dovuto divulgare la sua immagine?

Magari era già apparsa sugli schermi da qualche altra parte, su un'emittente che non copriva la zona di Charlotte. Magari un giornalista televisivo aveva già dato la notizia della scomparsa di un'adolescente, svanita nel nulla mentre tornava dalla partita di pallavolo o da una pizza con gli amici. Quando? Era stato prima dell'avvento dei centri per i bambini scomparsi e degli «allarmi Amber»?

I suoi genitori avevano rivolto appelli alla telecamera, la madre piangendo, il padre con voce gelida? I concittadini avevano offerto conforto, ringraziando intimamente il cielo che i loro figli fossero al sicuro, che, anche quella volta, la tragedia avesse scelto di colpire qualcun altro?

Com'era finita la fotografia nel calderone? E il cranio? Era il suo cranio?

E le ossa degli arti? Appartenevano a un singolo individuo?

Il cranio, i femori e la foto rappresentavano un'unica persona? Due? Tre? Più ancora?

La radiosveglia diceva ventitré e quaranta. Mezzanotte e venti. Una e dieci. Fuori, in giardino, gracidavano un milione di raganelle. Occasionali raffiche di vento facevano crepitare le foglie oltre la zanzariera della mia finestra.

Come mai quell'autunno inoltrato era così mite? In Québec faceva ormai freddo. Montréal avrebbe persino potuto esibire una spruzzata di neve.

Pensai ad Andrew Ryan. Mi mancava. Ma le mie cellule cerebrali pragmatiste avevano certamente ragione: dovevo voltare pagina.

Sorrisi al pensiero della «coincidenza» programmata da Katy. Quella sua attività di combinamatrimoni aveva avuto inizio diversi anni prima e si era intensificata con l'avvento di Summer. Judd il farmacista, Donald il veterinario, Barry l'imprenditore, Sam il... che faceva Sam? Di preciso, non l'ho mai capito. In ogni caso, avevo sempre rifiutato.

Mia figlia, la ficcanaso di Dixie.

Questa volta era Charlie, avvocato.

Katy non aveva torto: Charlie Hunt era brillante, attraente, disponibile e interessato. Perché non dargli una possibilità?

Era un vedovo dell'11 settembre, il che significava un bel fardello da portare. Sarebbe stato pronto per una relazione? E io? Avevo anch'io un paio di cicatrici.

Ha proposto solo un caffè.

Mi vennero in mente i versi di una canzone.

I'm not talking 'bout moving in.

And I don't want to change your life...

Ecco il punto.

Senza impegno: fare solo un tentativo.

Il buon vecchio Pete ci aveva provato.

Come faceva, Summer, di cognome? Glotsky? Grumsky? Presi mentalmente nota di chiedere.

I miei pensieri tornavano di continuo allo scantinato. Ricordai la bambola con la spada in miniatura conficcata nel petto. Il coltello.

Il pollo era stato decapitato. Avevano smembrato nello stesso modo anche la capra?

Era stato realmente compiuto un sacrificio umano? Come con Mark Kilroy, lo studente universitario ucciso a Matamoros? Lingo lo insinuava, ma era solo sciacallaggio. Non aveva informazioni. D'altra parte, non ne avevo neanch'io.

Promisi a me stessa di trovarne qualcuna.