51
Nella valle tra il Viminale e l’Esquilino, nei pressi della basilica di Santa Maria Maggiore, Sara tirò le redini e fece fermare il cavallo nero. Era arrivata davanti al cancello di legno e bronzo della vigna di Ghislieri.
La tenuta era recintata da un muro alto, che non permetteva di vedere all’interno.
«Devo consegnare un messaggio al cardinale Ghislieri», disse restando in sella.
«Girate alla larga», le rispose uno dei due birri del Santo Uffizio che stavano sorvegliando l’entrata del casale. L’altro, invece, la guardava sorridendo.
«Devo consegnare un messaggio al Sommo Inquisitore», insistette Sara.
«Andatevene, ho detto».
Il cavallo non si mosse.
«Se non vi togliete dai piedi, donna insolente, vi faccio mettere in ceppi e portare a via di Ripetta».
«Se non mi fate consegnare il messaggio», ribatté Sara, coraggiosa, «il Sommo Inquisitore porterà voi in prigione».
L’uomo sogghignò. «Dite?»
«Sì, dico».
«E, sentiamo, perché?»
«La persona che mi manda possiede qualcosa che il cardinale desidera».
«Da parte di chi è il messaggio?», domandò l’altro birro, col sorriso.
«Raphael Dardo».
«Chi sarebbe?»
«La guardia del corpo del papa».
Gli armigeri ruotarono le teste e si guardarono a vicenda. Poi riportarono l’attenzione su Sara.
«Aspettate qui», disse quello burbero. Si fece aprire il cancello dall’interno e sparì.
«Come vi chiamate?», sorrise l’altro.
«Sara».
«Sara come?»
«Colorni. E voi?»
«Avete già qualcuno che vi…?»
«Vi cosa?»
«Che vi… sì, insomma, avete capito».
«Vi conviene mordervi la lingua», disse lei a muso duro.
«Oh, accipicchia!». L’uomo si fece una risata piegando la schiena all’indietro, per quanto gli era permesso dalla corazza. «Che caratterino!».
Sara tese il braccio destro verso di lui e aprì la mano con il palmo rivolto verso il basso. «Vedete?»
«Non sono cieco».
«Io dico che lo siete», ribatté lei, e in un battito di ciglia nella sua mano apparve uno stiletto scintillante.
L’uomo, spaventato, fece un passo indietro e urtò la schiena contro il muro, con un suono di pentolame. «Che diavoleria è questa? Voi siete una maledetta strega».
«No, sono una pittrice».
«Vade retro!».
«Non avete mai assistito a giochi di prestidigitazione? Mio padre era il più grande maestro di quest’arte che si sia mai visto».
«Siete la figlia di uno stregone». Non potendo arretrare, scivolò di lato lungo il muro per allontanarsi, le mani strette attorno all’asta di frassino della picca. «Dovrebbero issarvi su una catasta di legna, legarvi a un palo e darvi fuoco, come si confà alle streghe».
Improvvisamente, spuntò un secondo stiletto nella mano sinistra di Sara. «Preferisco essere considerata una strega piuttosto che una puttana. E adesso, se non la finite di insultarmi, smonto di sella e vengo a infilarvi uno di questi nel didietro».
L’uomo si era portato a distanza di sicurezza. Sotto le corte tese di ferro del suo copricapo c’era uno sguardo spaventato. Stava per scappare e lo avrebbe fatto, se proprio in quel momento non avesse visto tornare il birro che era andato a riferire il messaggio. Riprese il suo posto e tenne il cancello aperto al compagno e alla persona che lo seguiva.
Sara lo riconobbe subito. Era padre Teofilo, il sacerdote che aveva fatto entrare lei e Raphael nel palazzo del cardinale Cesi, colui che stava per dare alle fiamme tutti gli oggetti dei congiurati.
«Sorpresa?», domandò il prete.
«Lo sarei se aveste la faccia da unicorno e le ali sulla schiena», rispose lei. «Invece, ho già visto esseri come voi».
Il religioso arrossì e strinse i pugni lungo i fianchi. «Un giorno o l’altro, la vostra impertinenza vi si ritorcerà contro. E allora vi passerà la voglia di dare libero sfogo alla lingua».
Sulla mano di Sara apparve magicamente una lettera, ma padre Teofilo non arretrò spaventato, come aveva fatto il birro: si limitò a sgranare gli occhi per lo stupore.
«Siete venuta per consegnare un messaggio?»
«Al cardinale Ghislieri».
«Potete dare a me».
«No, solo a lui».
«Questo, mi dispiace, non è possibile».
«Io credo di sì». Soffiò sulla lettera facendola sparire nel nulla. «O a lui o niente manoscritti».
«Riferirò».
«Posso attendere».
Padre Teofilo varcò nuovamente il cancello e rientrò nel casale.
I birri si allontanarono da Sara e ripresero posizione solo quando, qualche minuto dopo, il gesuita fu di ritorno.
«Madamigella Sara, potete entrare», le disse. «Sua eccellenza reverendissima è lieto di ricevervi».
Lei era titubante e non smontò.
«Allora?», la esortò Teofilo.
Entrare, pensò Sara, sarebbe stato troppo rischioso; poteva significare concedersi al Sommo Inquisitore come ulteriore ostaggio, magari da scambiare con il sicario che era stato catturato da Leccacorvo e che attendeva il suo destino in cantina.
«Cosa state aspettando?»
«Fate uscire il cardinale», disse lei, a testa alta. Fiera in sella a un cavallo nero che luccicava come metallo, pareva la statua equestre di un imperatore cui avessero messo in capo una parrucca. «Oppure me ne vado».
Padre Teofilo lanciava fiamme dagli occhi, l’insolenza della donna gli risultava intollerabile. «Se è così, andatevene».
Sara esitò. Certo, entrare nel podere del cardinale comportava dei rischi, per se stessa e, quindi, anche per Ariel. Ma allo stesso tempo, andarsene senza consegnare il messaggio di Raphael avrebbe rappresentato il fallimento della sua missione e, quasi certamente, anche della trattativa per liberare il piccolo.
Era giunto il momento di rischiare il tutto per tutto. Solo varcando quel cancello avrebbe potuto scoprire se il Sommo Inquisitore era interessato a trattare.
Schiacciò il piede sinistro sulla staffa e saltò giù da cavallo. La sottana ricadde sbuffando come un sipario sulle sue gambe affusolate e avvolte dalle calzebrache da uomo, nere e attillate. Si diresse verso l’ingresso della tenuta.
Teofilo le fece strada.
All’interno c’erano altri birri, ma disposti lungo il muro di cinta e perciò a distanza.
«Seguitemi, da questa parte». Teofilo mise le mani nelle maniche, abbassò la testa e prese un sentiero coperto dalle acacie, che portava dritto verso la cappella. La si poteva scorgere in cima alla collina, circondata da cipressi.
Quando arrivarono, e Teofilo le fece segno di entrare, Sara oltrepassò la soglia con riluttanza. Già sentiva il portone chiudersi alle sue spalle. Non aveva davanti la navata di una piccola chiesa con l’altare in miniatura e il crocifisso nel minuscolo abside, aveva di fronte una possibile trappola, ma doveva a tutti i costi mettere nelle mani del cardinale la lettera di Raphael.
Lei ne ignorava il contenuto. E ignorava dove si trovassero in quel momento lui e frate Panvinio.
Si inoltrò nella chiesetta, il portale si richiuse.
L’ambiente era rischiarato da ceri e candele, e dal rosone non entrava neppure un raggio di sole.
Scorse tre guardie armate, in piedi e immobili, una all’angolo alla sua sinistra, un’altra a destra, e una in fondo a sinistra, vicino a una porta che presumibilmente dava accesso a una piccola sacrestia.
Escludendo l’altare con il tabernacolo, il crocifisso e quattro file di panche, l’unico altro oggetto d’arredo era il confessionale, in fondo a destra, dove non c’erano guardie. Sara non ne aveva mai visto uno come quello. Era una sorta di grosso armadio, con una porticina sul davanti e un inginocchiatoio al lato, con una lastra di ferro traforata.
«C’è nessuno?», domandò.
«Avvicinatevi», disse un uomo da dentro il confessionale, «siete la benvenuta». La voce era attutita, ma arrivava pacata e soave.
«Devo essere sicura di parlare con il cardinale Ghislieri».
«Sono io, figliola, avvicinatevi senza paura».
«Preferirei di no». Controllò alle sue spalle. Le guardie non si muovevano, non guardavano, non ascoltavano, sembravano automi senza carica. «Devo consegnarvi una lettera».
«So che siete un’eccellente pittrice».
«Mi lusingate».
«Il vostro amico Raphael Dardo vi ha mai raccontato di suo fratello Leonardo?»
«Sì, certo».
«E vi ha detto che dipingeva quadri blasfemi?»
«Sì».
«Messer Dardo è un uomo saggio, a quanto pare».
«So che Leonardo realizzava opere incredibili per la verosimiglianza, e che voi lo accusavate di avvalersi dell’aiuto del Diavolo».
«Sì, è vero. Il Diavolo è mio nemico. Voi volete essere mia amica? Venite, Sara, vi ascolto con molto piacere». Parole lievi volarono nell’aria come un tripudio floreale sulla statua di un santo in processione. «Da quanto non vi confessate?»
«La settimana scorsa», mentì prontamente lei.
«Inginocchiatevi, se non vi dispiace».
Le dispiaceva, però si arrese e posò le ginocchia sul cuscino. Si ritrovò col viso davanti alla lastra forata. Sentiva l’uomo respirare dall’altra parte, ma non poteva vederlo. «Vostra eccellenza reverendissima, non sono venuta per confessare i miei peccati, né per ascoltare quelli altrui, ma solo per consegnare un messaggio».
«Leggetemelo, per favore».
«Preferirei darvelo e andarmene subito».
«Vi sto chiedendo così tanto?»
«No, reverendissimo. È che non so cosa ci sia scritto, e non voglio saperlo».
«Vi capisco. Ma non avete nulla da temere da me. Qui siete al sicuro».
Sara, nel sentire quella voce piena di pace, si disse che dall’altra parte del divisorio non poteva esserci altri che Ghislieri. Oltretutto, la cappella era un luogo consacrato, il piccolo ritiro spirituale del proprietario di casa. Perché mai un uomo austero e potente come lui avrebbe dovuto permettere a qualcun altro di prendere il suo posto in una faccenda tanto delicata e riservata?
Decise di spezzare il dischetto di ceralacca e aprire la busta. La mano le tremava mentre sfilava il foglio.
«Leggete».
Si schiarì la gola.
Vostra eccellenza reverendissima, se un uomo buono come voi fa rapire un fanciullo innocente, deve avere le sue ragioni. So che è Dio a ispirare e a guidare il vostro agire. So che non siete un uomo malvagio. Ho capito cosa vi ha mosso a tanto. Tuttavia, vi prego, dite a chiunque abbia rapito Ariel Dardo che ho in ostaggio un agente dell’Entità, Giuseppe Castiglioni, e sono disposto a liberarlo, purché mi venga consegnato mio figlio. Ditegli che ho trovato i papiri e sono disposto a consegnarli, come richiesto per il riscatto. Lo aspetto questa sera al tramonto, nel Vicolo dell’Inferno, nel rione Campo Marzio. Che non faccia scherzi, altrimenti non solo ucciderò il suo sicario, ma consegnerò gli antichi papiri ai luterani. Come voi ben sapete, essi sostengono che il papa di Roma non sia il successore di Pietro, ma un usurpatore. Ebbene, nelle Lettere di Pietro a Giacomo, che io posseggo, c’è la prova che i luterani hanno ragione. Dunque, se non volete che i Vangeli sconosciuti e certe lettere inaudite, da me rinvenuti oggi stesso in un tempio sotterraneo risalente all’alba del Cristianesimo, diventino libri a stampa e siano distribuiti in tutto il mondo, aiutatemi a riavere mio figlio. In cambio, vi giuro che nessun altro, a parte voi, reverendissimo, leggerà mai quei testi.
Raphael Dardo
L’uomo nel confessionale sospirò e restò per un po’ in silenzio. Poi disse: «Avete una prova qui con voi?»
«No», rispose lei con un sussurro, accostando le labbra al divisorio. «Avrete quanto richiesto. Ora spetta a voi mantenere la parola data».
Silenzio.
«Lo farete?».
Ancora silenzio.
Sara si alzò in piedi.
«Aspettate».
«Sì?»
«Dardo ha davvero trovato i manoscritti?»
«Questa sera ve li consegnerà direttamente».
«Vicolo dell’Inferno, avete detto?»
«Sì».
«Il posto più povero e degradato di questa difficile città. Stretto, buio, sporco, regno di esalazioni pestifere e di abiezione».
«Messer Dardo sa quel che fa».
«Oh, lo vedo».
«Allora, qual è la vostra risposta?».
Un altro lungo silenzio, poi l’uomo nel confessionale disse: «Va bene. Potete andare, Sara».
«E Ariel?»
«Il fanciullo sta bene».
«Lo giurate?»
«Portatemi i papiri e lo riabbraccerete».