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«Quei bastardi hanno ucciso i cani, hanno ucciso i cani!».
«Io li ammazzo!».
Le torce che i due uomini avevano in pugno gettavano ombre enormi sulle pareti.
«Un mastino è ancora vivo!». Anziché accarezzarlo, gli passò una lama sotto la gola, lo spinse via con una pedata e poi gli sputò sopra. «Bestiaccia inutile».
Panvinio tremava bisbigliando preghiere a occhi chiusi.
«Dardo!», disse l’altro uomo, che guardava verso il cubicolo illuminato. «Venite fuori».
«Se fate un solo passo, brucio i manoscritti», rispose Raphael. «State fermi dove siete». Li vedeva, erano davanti alle statue di Abraxas, armati di archibugi.
«Non fate sciocchezze, Dardo».
«Gettate a terra le armi, tutte! Altrimenti, potete dire addio ai Vangeli».
Quelli si guardarono titubanti e, dopo un po’, decisero di posare gli archibugi per terra.
«Tutte le armi», precisò Raphael.
Due spade e due pugnali sferragliarono sul porfido.
«Non abbiamo altro».
«Spingetele da questa parte con un calcio».
Fecero come richiesto. Le armi strisciarono sul pavimento e si fermarono appena fuori dal cubicolo.
«Abbiamo messo i papiri nei sacchi», li avvisò. «Qui c’è olio e fuoco in abbondanza. Quindi, stendetevi a terra, pancia sotto, le mani dietro la nuca».
«Porca miseria», fece uno.
Anche l’altro era riluttante. «Se bruciate i papiri, siete un uomo morto».
Per fargli vedere che non scherzava, Raphael pescò un codice a caso da uno dei due sacchi e gli diede fuoco. Lo lanciò verso di loro. «Fate come vi ho detto!».
Panvinio si premette le mani sulla chierica, poi sulla bocca, e con gli occhi strabuzzati osservò il testo antico che si dissolveva. Ma fu solo un riflesso inconsapevole del suo corpo e del suo spirito di studioso. Fece un cenno di assenso a Raphael: era pronto a bruciare il secondo.
I due si stesero a terra, come richiesto.
Raphael e Panvinio avevano portato con loro delle funi, nel caso avessero dovuto calarsi per raggiungere un livello inferiore della catacomba. Non potevano immaginare che si sarebbero ritrovati all’interno di un maestoso tempio gnostico risalente all’alba del cristianesimo, ancora intatto. Ora, però, quelle funi si rivelavano utili.
Raphael tenne sotto tiro uno dei due e chiese a Panvinio di legare l’altro a una gamba di una delle statue ciclopiche. «Ben stretto», disse.
Il frate eseguì il compito in modo egregio, senza recitare neppure una preghiera. D’un tratto sembrava si fosse liberato del terrore. Legò anche il secondo uomo, a una gamba dell’altra statua. Poi andò a raccogliere quel che restava del papiro bruciato e ci soffiò sopra lasciandosi sfuggire un verso di disappunto.
Raphael si accertò che i due uomini fossero assicurati a dovere e alla fine dell’esame annuì soddisfatto.
Li guardò dall’alto in basso.
Adesso, da vicino, poteva notare il loro abbigliamento costoso, i capelli puliti e ben curati. E riusciva a scorgere anche la paura di morire, in fondo agli occhi scuri come schegge di ardesia. Uno aveva una trentina d’anni, barba corta e ben disegnata con lunghi baffi appuntiti; l’altro era più giovane, guance rasate di fresco, naso tozzo e mandibole larghe. Non li aveva mai visti prima. «Chi siete?»
«Vostro fratello Leonardo», disse quello coi baffi, «era mio amico».
«Ah, sì?»
«Slegateci immediatamente. State commettendo un grave errore».
«Chi vi manda?».
Dopo un momento di esitazione, l’uomo lo guardò fisso negli occhi e rispose con una franchezza spiazzante: «Il papa».
Raphael abbassò la testa e sbuffando si strofinò i capelli nervosamente con entrambe le mani, inondato da un eccesso di assurdità. «Cosa significa? Perché, allora, volevate ucciderci?».
I due uomini si guardarono a vicenda e risero. Erano divertiti dallo sconcerto che stava deformando i connotati di Raphael e ancora di più dalla reazione scettica di Panvinio.
«Avevamo ordine di recuperare i manufatti antichi a tutti i costi», disse uno.
Poi, quando videro che Raphael si immobilizzava e tendeva l’orecchio, come se avesse udito un rumore, cominciarono ad annuire.
«Adesso ci penseranno loro», disse il più giovane.
«Loro chi?»
«I birri del papa».
«Come ci avete trovato? Ci stavate aspettando qui fuori?»
«Il conte Canossa ha fornito delle informazioni, questa notte. Sapevamo dove cercarvi. Abbiamo visto il carretto col mulo…».
«Avete detto che conoscevate mio fratello Leonardo».
«Sì».
«Fate parte della sua setta?»
«No. Lui e il suo gruppo facevano parte della nostra, messere».
«E cosa c’entrate voi, eretici, con il Santo Padre?».
Non risposero.
L’aria che scorreva nei penetrali del sotterraneo portava un rumore flebile, lontano e confuso, ma inequivocabile: un gruppo nutrito di persone stava sopraggiungendo, preceduto da cani.
Si trovavano ancora, presumibilmente, nel primo tratto di gallerie.
Raphael prese rapidamente la sua decisione, anche perché c’era solo una cosa da fare: tornare alla galleria in cui avevano visto l’apertura nella parete, fatta dai saccheggiatori di sepolture di cui avevano incontrato gli scheletri, e provare a uscire da lì. Forse lui e Panvinio sarebbero riusciti a raggiungere il punto prima degli uomini che stavano arrivando dalla parte opposta.
La conversazione con i due che sostenevano di essere Cainiti al servizio del papa era interessante, ma bisognava rinunciarci.
Raccolsero i sacchi, le luci, si liberarono dei pesi superflui e uscirono dalla grande sala circolare più leggeri di quando vi erano entrati.
«Da questa parte», disse Panvinio, che correva e guizzava fra i cunicoli come una lepre inseguita dai cani.
Cani che ansavano e uggiolavano, in rapido avvicinamento.
Voci umane si mescolavano ai loro versi concitati, si udiva il calpestio sempre più rumoroso di parecchie persone: che fossero guardie lo si intuiva dallo sferragliare che producevano a ogni passo.
«Di qua».
Raphael seguì Panvinio; il frate sembrava lucido e attento, adesso, stava sfoderando tutta la sua esperienza di esploratore di catacombe e si muoveva con una sicurezza che in quel momento a Raphael parve una benedizione.
«Destra».
Mentre ansimava con lo sguardo fisso sulla schiena dell’amico, Raphael si rese conto che senza di lui non avrebbe mai potuto trovare l’uscita. Non che fosse difficile seguire le gallerie segnate con la vernice o leggere a ritroso le indicazioni di Virgilius, ma si rendeva conto che a lui sarebbe mancata la velocità necessaria in un momento come quello; anche perché la confusione si era impadronita della sua mente dopo aver udito la parola “papa” fuoriuscire dalla bocca di un maledetto sgozzatore di cani.
«Sinistra».
Correvano veloce, sebbene cercassero di essere silenziosi, e andavano incontro a chi arrivava nella direzione opposta avvicinando il fatidico momento dell’incontro.
Eppure il tratto di labirinto con la breccia nella parete non arrivava mai. Ma sapevano di essere sulla strada giusta.
«Dritto».
«Più veloce», gli disse. «Corri!».
«Sinistra».
Ormai le persone in arrivo e i cani si trovavano a poche decine di passi. Si vedeva già il buio sbiadire a contatto con le loro torce.
Mancava poco all’incontro.
«Dritto».
Percorsero altre gallerie, apparentemente infinite, poi quando giunsero in vista della breccia nel muro, apparvero anche i cani.
Panvinio si infilò per primo nell’apertura. Raphael lo seguì.
Forse avevano fatto in tempo a sparire prima di essere visti, ma erano perfettamente consapevoli di non poter sfuggire all’olfatto degli animali. Per cui non rallentarono, nonostante bisognasse stringere le spalle per non farle raschiare contro la pietra. I saccheggiatori di tombe avevano scavato – era il caso di dirlo – lo stretto necessario, quanto bastava per strisciare dentro ed esplorare possibili fonti di lucro.
Panvinio si fermò all’improvviso.
«Cosa c’è?», chiese Raphael, che non poteva vedere davanti, mancando lo spazio di lato e in alto per sporgersi.
«Bisogna arrampicarsi».
Fino a un momento prima, se si fossero fermati, non avrebbero udito altro che il sangue pulsare nelle orecchie, adesso invece erano assordati dall’abbaiare assatanato di un grosso cane.
Li aveva fiutati.
Raphael si abbassò sulle ginocchia. «Ce la fai salendo su di me?»
«Credo di sì».
Panvinio gli montò sulle spalle e si aggrappò a qualcosa che Raphael non poteva vedere. Ma doveva essere un appiglio abbastanza solido, perché la suola delle sue scarpe si staccò dalle spalle e fluttuò in alto fino a sparire. «Ci sono», disse, «dammi i sacchi».
Raphael eseguì prontamente.
Ondate di fuoco gli percorrevano le vene.
Il cane era stato liberato e correva verso di lui.
Dopo avergli passato anche il secondo sacco, insieme al piccone che avevano deciso di riportare in superficie, guardò in alto, la mano di Panvinio che pendeva dal buio.
«Afferrala», lo spronò il frate.
Raphael, però, decise di affrontare prima il cane. Ormai l’animale era troppo vicino. Nella migliore delle ipotesi, gli avrebbe azzannato il polpaccio mentre lui cercava di issarsi nel pertugio.
«Sbrigati!».
Estrasse il pugnale. Lama robusta triangolare, lunga un palmo, punta aguzza.
Ma all’ultimo istante ci ripensò.
Lui non era un vile sgozzatore di cani.
Rinfoderò l’arma e con uno scatto di reni afferrò la mano di Panvinio. Puntellò i piedi sulla parete e spinse nel tentativo di sottrarre la parte inferiore del proprio corpo alla voglia di uccidere del cane che aveva sotto.
Non lo guardò, non lo avrebbe fatto neppure se ci fosse stata la luce sufficiente. Sentì il suo alito caldo salire dal basso e sfiorargli la caviglia sinistra.
Panvinio tirava con tutta la forza di cui disponeva e gemeva nello sforzo. Resistette anche quando il peso crebbe.
Il cane aveva afferrato uno stivaletto di Raphael. Il tacco. Poi anche la carne sottostante. Il dolore sprizzò lungo le ossa fino al cervello.
Lentamente, resistendo alla fitta lancinante, riuscì a sfilare il piede dallo stivale e a issarsi fino al cunicolo in cui si trovava Panvinio.
«Andiamo via!», disse.
«Sei ferito?»
«No, vai!».
Panvinio si mosse tenendo il sacco sulla schiena e l’impugnatura della lanterna fra i denti.
In quella parte di cunicolo bisognava procedere carponi. Per fortuna, dietro di loro c’era un silenzio irreale e miracoloso, adesso.
Continuarono ad avanzare come goffe talpe, senza emettere un lamento.
«Fine», disse a un tratto Panvinio.
«Cosa?»
«Il cunicolo finisce qui».
«Come sarebbe?»
«Dobbiamo scavare». Prese il piccone e passò subito ai fatti. «Dalle radici direi che non siamo distanti dalla superficie». Le ultime parole si mescolarono alla terra che gli cadeva sulla faccia.
Anche se Raphael avesse voluto, e se avesse avuto a disposizione un altro piccone, non avrebbe potuto aiutarlo per mancanza di spazio.
Tutto quello che poteva fare era attendere.
Aveva la migliore guida possibile.
Dopo qualche minuto e parecchi sputi da parte di Panvinio, la punta del piccone aprì una fessura di luce. La stessa luce grigia che si erano lasciati alle spalle prima di entrare.
«Non piove», disse il frate ridendo per la gioia, e si mise a picchiare con più vigore sulla propria testa.
Pian piano, la piccola fessura divenne larga abbastanza da permettere di scivolarci attraverso.
Quando Panvinio fu passato, Raphael alzò lo sguardo ed ebbe la sensazione di resuscitare.
L’aria aperta aveva il profumo della libertà, della vita.
Una volta fuori, constatò con sollievo che la ferita era meno grave di quel che gli era sembrato: il calcagno e parte della caviglia risultavano parecchio gonfi, ma i denti del cane non erano affondati nella carne. Posò il piede sinistro a terra, vi caricò tutto il peso del corpo saggiando l’intensità del dolore.
Per il momento era sopportabile.
Raccolse il sacco e si incamminò nel campo, sorretto da Panvinio.
Cercavano la strada da cui erano arrivati, il carro e il mulo, e poco dopo avvistarono il punto in cui si trovava l’accesso al labirinto, dal quale erano scesi sottoterra; distava alcune centinaia di passi. Si nascosero dietro un masso e osservarono. Si vedevano cinque uomini in piedi, di sicuro posti a guardia dell’apertura, e un discreto numero di cavalli.
Decisero di avvicinarsi ancora un po’ per studiare meglio la situazione.
«Ce la fai a raggiungere quel cespuglio?», chiese Panvinio.
«Sto bene», disse Raphael. «Non ho niente, è solo un livido».
Il vento scorreva piacevole sulla pelle, portava odori e suoni meravigliosi, il cinguettio degli uccelli, un lieve sentore d’aglio, il placido sfrigolio delle fronde.
I Cainiti si sbagliavano, pensò Raphael: il regno della materia, il Creato, questo mondo, non era poi così malvagio.