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15 dicembre
Per un’imprecisione insita nel calendario, il solstizio d’inverno cadeva con undici giorni di anticipo, quindi era già alle spalle, ma le giornate somigliavano ancora a candele consumate: il sole, basso, si spegneva in fretta. E con il cielo sempre coperto di nuvole dense e scure, la luce a disposizione si riduceva ulteriormente.
Perciò, all’alba Raphael pensò che fosse il caso di fare un salto al palazzo del cardinale Cesi.
Meglio controllare, prima che a qualcuno venisse in mente di ricoprire di terra l’accesso allo scavo.
La carrozza a due cavalli, manovrata dal taciturno Ignazio, correva rumorosa verso il Vaticano, fendendo l’aria umida. Il cielo grigio e compatto come una lastra di ferro vibrava per i rintocchi delle campane, gli zoccoli ferrati martellavano la via.
Sara osservava l’esterno, forse alla ricerca di scorci o volti da dipingere.
Raphael non sperava che il porporato fosse disposto a parlare della congiura contro il papa. Al suo palazzo non potevano accedere neppure i birri. Ma quello era il luogo in cui Benedetto Accolti e i suoi seguaci Canossa, Manfredi e Pelliccione si riunivano e scavavano, il punto obbligato dal quale iniziare a investigare.
Più ci pensava, meno Raphael riusciva a spiegarselo: il fatto che il reverendissimo cardinale Cesi si fosse esposto, mettendo la propria casa a disposizione di chi voleva uccidere il papa, aveva dell’incredibile.
Poteva significare solo due cose: o Cesi non era al corrente della congiura, oppure ne dava così tanto per scontata la riuscita da non temere conseguenze, perché, morto il papa, ogni traccia della cospirazione sarebbe stata sepolta sotto una coltre di ecumenico oblio.
«Fermati vicino a piazza San Pietro!», urlò Raphael fuori dallo sportellino. Poi estrasse la torcia puzzolente da sotto il sedile e sistemò accanto a sé tutto l’occorrente per accendere il fuoco. Prese l’esca – un pezzetto di stoffa asciutta – e la premette col pollice sull’acciarino, poi iniziò a colpire il metallo con la pietra focaia. Le scintille nella penombra della carrozza sembravano stelle cadenti. Un colpo dopo l’altro, una stella dopo l’altra, la stoffa cominciò a bruciare, e lui ci soffiò sopra, tenendola vicina alla torcia.
Il fuoco crepitò come per magia.
Scesero dalla carrozza.
«Fermati davanti a quel cortile e aspettaci», ordinò Raphael al cocchiere.
Ignazio non fece commenti riguardo al fatto che i signori andavano per un tratto a piedi e neppure chiese quale fosse il motivo della torcia accesa di giorno. «Sì, messere», disse.
Raphael e Sara si diressero verso palazzo Cesi, adiacente alla chiesetta di San Lorenzo in Piscibus e proprio di fronte alla ripida scala santa di San Michele, che i devoti pellegrini percorrevano in ginocchio.
Da qualche tempo i romani avevano diviso quel rione in Borgo Vecchio e Borgo Pio, dal nome di Pio iv, che stava cambiando il volto della città eterna con ingenti lavori urbanistici e architettonici.
E sebbene i romani avessero sempre amato i pontefici disposti a spendere, a Pio iv rimproveravano di favorire maestranze provenienti dalla sua terra di origine, che disprezzavano con l’appellativo di “ciurma milanese”.
Il palazzo del cardinale Cesi, però, affacciava su Borgo Vecchio, e i grandi lavori di rinnovamento della città non lo avevano interessato in alcun modo. Era in pessime condizioni.
Raphael e Sara entrarono nel cortile del palazzo, mentre Ignazio arrivava a passo lento con la carrozza.
C’erano ovunque montagnole di terra, in parte disciolte dalle piogge e tramutate in pozze di fango. Tutt’intorno, arcate e logge semidistrutte dai lanzichenecchi. L’edificio non aveva dimenticato nulla di quei giorni funesti, la devastazione era rimasta intatta. Di sicuro il cardinale Cesi non lo abitava.
Con un cenno del mento, Sara indicò una finestra in alto. Oltre i vetri si percepiva il brillio di un candelabro. «Non mi aspettavo di trovarci qualcuno», disse. «Qui sembra che non sia mai accaduto niente». Ma si accorse che stava parlando da sola.
Raphael era tra mucchi di terra, con una vanga in pugno.
«Cosa stai facendo?»
«Vieni qui, dammi una mano».
Lei scosse la testa, ma poi si sfilò le pianelle – le suole alte un palmo sarebbero state risucchiate dalla terra morbida e dal fango – si tolse anche le calze, sistemò tutto in un angolo asciutto, e si addentrò a piedi nudi sulla melma gelata, tenendosi la sottana sopra le ginocchia. «Eccomi», disse.
Raphael aveva appena sollevato un tavolaccio, e adesso stava guardando in basso facendosi luce con la torcia. «Questo qui deve essere l’accesso agli scavi di cui ci ha parlato Pelliccione». Allungando il braccio nella fossa, la fiamma illuminò dei gradini di terra che si perdevano nel buio.
«Hai intenzione di scendere?»
«Sì, ma fa’ la guardia a questo buco. Non vorrei che qualcuno mi seppellisse vivo».
Sara annuì, e lui scese nella fossa.
Al termine di una rozza e stretta gradinata di terra, il cunicolo si allargava creando uno spazio circolare, abbastanza alto da poterci stare comodamente in posizione eretta. Le pareti erano state rinforzate con dei pali, per evitare che franassero, e tutto faceva pensare che il cavalier Pelliccione avesse detto la verità: lo scavo era soltanto una copertura per giustificare la presenza dei cospiratori nel palazzo Cesi.
A parte i graffi lasciati dalle picconate e un palmo di fango in cui affondare le scarpe, là sotto non c’era niente.
Stava per riemergere dalla fossa quando, muovendo la torcia, notò una tavola quadrata, di un braccio per lato, appoggiata contro la parete di fronte. Non faceva parte dei legni usati per i rinforzi e sembrava messa lì per coprire qualcosa. Raphael si avvicinò. Spostò la tavola con cautela, sperando di non trovare un buco in cui poi avrebbe dovuto infilarsi.
Ma per fortuna non c’era altro che terra compatta.
Quasi in segno di rispetto verso l’oggetto che gli aveva dato quella buona notizia, raccolse da terra la tavola che aveva gettato via e la rimise al suo posto. Quindi, tornò fuori.
«Allora?», fece Sara impaziente tendendogli una mano.
«Non c’è niente».
«Niente?»
«Pelliccione ha detto la verità».
Anche Sara sembrò sollevata dalla mancanza di complicazioni.
Rimisero il tavolaccio sulla buca.
«Cosa state facendo qui?», domandò una presenza alle loro spalle, come spuntata fuori dal nulla.
Sara trasalì e si voltò di scatto brandendo il pugnale, ma riuscì a trattenere la mano in tempo. «Accidenti, padre, mi avete fatto prendere un colpo», sospirò toccandosi il petto.
L’uomo, impassibile, si limitò a ripetere la domanda: «Cosa stavate facendo?».
Raphael si spolverò le mani. «Siamo il cavalier Dardo e Sara Colorni», disse. «Investighiamo per ordine del Santo Padre».
«Voi?»
«Noi».
Il prete chinò la testa. Poi la rialzò, quasi controvoglia. «Io sono padre Teofilo. Posso fare qualcosa per aiutarvi?»
«Vorremmo entrare a dare un’occhiata».
«Ora non è possibile…».
Raphael lo scrutò dalla testa ai piedi: faccia scura, sopracciglia folte e attaccatura dei capelli molto bassa, tempie strette; portava un tricorno nero e alto e sotto la mantella indossava una veste nera lunga fino alle caviglie e stretta in vita da una corda. Un gesuita, pensò. Di solito era più facile trovarli ai confini della Terra, impegnati a portare il Vangelo a popoli sconosciuti. «Sapete cosa è stato trovato qui sotto, padre?»
«No». Teofilo si strinse nelle spalle. «So solo che stavano facendo degli scavi».
«Chi?»
«Dovreste saperlo anche voi. Sarete a conoscenza di quel che è accaduto qui».
«Vorrei esserlo, padre».
«Cosa cercate di preciso, messer Dardo?»
«Conoscevate i congiurati?»
«No».
«Ma abitate in questo palazzo».
«No. Qui non abita nessuno. Vedete in che condizioni è l’edificio».
«Perché siete qui, allora?».
Il prete guardò le gambe infangate di Sara. «Vi prenderete un malanno».
«Ci fa entrare in casa?».
Il prete era indeciso. «Va bene», disse. «Entrate a riscaldarvi». Ruotò di centottanta gradi e si avviò verso la porta di ingresso del palazzo.
Raphael spense la torcia. Osservando il fumo che saliva verso le nuvole nere, ebbe un fosco presentimento.
Si sentì i polmoni compressi dall’angoscia e trasse un profondo respiro per allontanare i brutti pensieri.
Sara lo scosse per un braccio. «Che facciamo, entriamo?»
«Sì, diamo un’occhiata al covo dei cospiratori e sentiamo cosa sa il prete».
Strano modo di iniziare una giornata.