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Raphael percorse gli ampi corridoi del palazzo apostolico, ripensando alle informazioni ricevute da Leccacorvo riguardo Simone Della Barba.

Il fratello dell’archiatra aveva prestato un pugnale d’argento a Pelliccione: era chiaramente colluso con la congiura.

E da chi poteva avere avuto il veleno da mettere nei biscotti, se non da suo fratello Pompeo, il medico ufficiale del papa, che era a sua volta amico stretto di Pelliccione?

La risposta sembrava più che ovvia.

Il veleno dell’ira scorreva copioso nelle vene di Raphael.

Le guardie svizzere, in divisa, con alabarda ed elmo, lo salutarono senza essere ricambiate. Loro piantonavano ogni porta nel palazzo apostolico, compresa quella del Passetto. Raphael aveva il permesso di accedervi in qualunque momento, in quanto guardia del corpo del Santo Padre, ma prima di quella sera non aveva mai usato quel privilegio.

«Aprite», disse.

Le guardie eseguirono senza esitare e spinsero la piccola porta di legno.

Mentre Raphael correva in quella sorta di conduttura senz’acqua, i suoi passi riecheggiavano come colpi di martello sull’incudine, il suo respiro creava un suono innaturale, simile alla pialla di un falegname.

Le pareti massicce e ravvicinate, la volta che gli correva sulla testa, sempre uguale e interminabile, Raphael aveva la sensazione di trovarsi in una stanza che si allungava. Dovette rallentare e chiudere gli occhi per piccoli tratti, ma non si fermò. Continuò a spingere con le gambe e ad ansare più veloce e forte che poteva, fino alla sommità del castello, agli appartamenti di Pio iv, dove era stato solo poche ore prima.

Il medico a cui lui e Sara avevano appena affidato il garzone ustionato aveva riferito che l’archiatra Pompeo Della Barba era stato convocato dal papa a Castel Sant’Angelo. Quindi, Raphael non si stupì di trovarlo lì, a colloquio con il vertice della Chiesa.

C’era anche il governatore di Roma, Alessandro Pallantieri. Indossava la veste talare nera.

E anche l’archiatra portava l’abito scuro della corporazione dei medici, lungo fino alle caviglie.

Il papa, che dava le spalle al fuoco, indossava invece l’ordinaria veste candida con la mantellina e la cuffia di porpora.

Pio iv sorrise a Raphael e con un gesto della mano lo invitò ad avvicinarsi. «Volevi parlarmi?»

«Sì, Santità».

«Vieni, vieni».

L’archiatra e il governatore lo accolsero con un inchino cortese e gli fecero spazio, immaginando che volesse baciare la pantofola del Santo Padre.

Ma lui stavolta non lo fece.

«Buonasera, messer Dardo», gli disse Pallantieri.

E anche il dottore gli rivolse un saluto amichevole, ma senza far sentire il suono della propria voce.

«Cosa ti porta di nuovo qui, mio caro Raphael?»

«Santità», disse, rimanendo in piedi e saltando tutte le cerimonie, «sono accaduti fatti molto gravi».

«Ancora?»

«Sì, purtroppo».

«Parla, ti prego».

«Se mi è permesso, prima vorrei domandare al monsignor governatore se il conte Canossa è stato catturato».

Pallantieri era visibilmente imbarazzato, non tanto per la domanda, quanto per la risposta che dovette dare: «Non ancora».

«Credete che possa aver lasciato la città?»

«Lo escludo, senza dubbio. Lo troveremo, vedrete».

«Immagino che i suoi genitori siano stati interrogati».

«Certo. Sono distrutti, poverini. Mai avrebbero potuto immaginare che il figlio…».

«E la moglie del conte Manfredi è stata ascoltata?»

«Le ho parlato io stesso».

«Vi siete recato a casa sua?»

«Sì. Non ho ritenuto che fosse il caso di portarla in prigione. Ma comunque la contessa non sa dove si sia nascosto l’amico di suo marito».

«Avete interrogato la sorella del conte Manfredi?»

«Barbara? Sì, certo. Ma perché mi fate queste domande? Dovreste sapere che non sono un novellino».

«Perdonatemi, monsignore. Non avevo intenzione di mancarvi di rispetto».

«No, no», si intromise il papa, «chiedi pure tutto quello che vuoi».

Raphael continuò: «Quindi, avete perquisito il palazzo del conte Manfredi».

«Ben due volte. A quanto sembra i congiurati si riunivano a casa di Manfredi, prima di trasferirsi nel palazzo disabitato del cardinale Cesi».

«Grazie», disse Raphael, grave e solenne. «Non ho altre domande».

«Non vedo l’ora che il conte Canossa sia arrestato», sospirò il papa.

L’archiatra si associò all’auspicio e scosse la testa, indignato, come a dire che non si capacitava della malvagità di certe persone.

«Allora, Raphael, non tenerci sulle spine». Pio iv si staccò dal calore del fuoco e strisciando le pantofole sul soffice tappeto persiano lo raggiunse e gli posò le mani sulle spalle. Lo guardò con mestizia, come se gli leggesse negli occhi l’immenso dolore che stava provando. «Quali fatti gravi sono accaduti ancora?»

«Trovarvi tutti qui adesso è un miracolo o uno scherzo del demonio», gli disse Raphael. «Volevo parlare con il dottor Della Barba, e poi con voi, Santità: ho informazioni di vitale importanza riguardanti il vostro archiatra qui presente. Avrei anche mandato a chiamare il monsignor Pallantieri, per far arrestare il vostro illustre medico».

«Arrestare?». Pompeo Della Barba trasalì, gli occhi sgranati e la bocca compressa in un’espressione ridicola. «Cosa dite?». Era oltremodo scandalizzato e oltraggiato. «Per che cosa mi si dovrebbe arrestare, di grazia?».

Raphael avrebbe voluto tuffarsi nelle sue viscere e rigirarvisi strappandogliele via a brandelli, aveva la testa piena di quell’unico desiderio, era una brama insopprimibile, eppure riuscì a dominare l’ira. Aspettò che il papa lo invitasse a dare delle spiegazioni concedendogli il permesso di parlare o che gli ordinasse di andarsene. Quindi, li informò dell’avvelenamento con i biscotti che aveva ucciso quattro, forse cinque guardie svizzere addette alla sorveglianza della sua abitazione, e al quale era scampato per miracolo il piccolo Ariel.

Il papa e il governatore non avevano ancora finito di esclamare Deo gratias! rallegrandosi per la salvezza del fanciullo, che furono raggelati dalla notizia del suo rapimento.

Alla fine, l’unico a trovare la forza di dire qualcosa fu il governatore Pallantieri: «Sono addolorato, messer Dardo».

Pompeo Della Barba recitava la parte dell’uomo ignaro di tutto e affranto dalle tante brutte cose che stava apprendendo.

«Come mai l’archiatra è qui con voi?», chiese Raphael.

Il governatore attese il permesso del Santo Padre, poi disse che il dottor Della Barba era stato convocato al castello in quanto doveva dare delle spiegazioni circa alcuni fatti spiacevoli.

Raphael disse: «So che suo fratello Simone aveva prestato un pugnale d’argento al cavalier Pelliccione, prima dell’attentato al Santo Padre».

«Le vostre informazioni sono corrette», assentì il governatore.

«E so anche che l’archiatra qui presente è amico intimo e di lunga data di Gian Giacomo Pelliccione, con il quale condivide l’interesse per la magia e l’evocazione degli spiriti».

«È così», disse Pallantieri fulminando l’archiatra con lo sguardo.

Pompeo Della Barba si profuse di nuovo in giuramenti sulla buona fede di suo fratello Simone, scagionandolo da ogni responsabilità; e per quanto riguardava la propria amicizia con Pelliccione, fece notare di nuovo che non poteva immaginare, né in alcun modo sospettare, il coinvolgimento del cavaliere nella congiura; si schermì dicendo che più o meno tutti nella corte papale conoscevano qualcuno dei congiurati.

«Tutto è chiarito e risolto», disse.

«Chiarito?», sbottò Raphael. «Vostro fratello ha fatto avvelenare dei biscotti da mandare a casa mia, dottor Della Barba. Lo hanno visto consegnare una fiala a un aiutante delle cucine. E quella fiala non può averla avuta che da voi. Datemi dei chiarimenti su questo!».

Di fronte a quelle accuse, circostanziate e gravi, Pompeo Della Barba cambiò atteggiamento.

Il sommo medico, il rinomato filosofo della natura che si vantava di indagare i sogni e di decifrare i misteriosi rapporti tra l’anima e il corpo, il fine studioso di Macrobio, Pico, Plinio e Ficino adesso aveva l’aspetto di un qualsiasi ladruncolo sorpreso con le mani nel sacco; era solo più disperato e assalito da una paura più profonda. «Menzogne», balbettò, afono, come se la voce fosse andata a nascondersi in fondo alla gola per la vergogna.

«Quanto dice messer Dardo è vero, Pompeo?»

«No, Santità. Mente».

Raphael si dimenticò di dove si trovava e delle persone che erano presenti. Dalla sua visuale sparirono le figure austere del papa e del governatore. Al centro dei suoi occhi assatanati, della sua anima in fiamme, del suo sterminato mare d’odio c’era solo il medico.

La sua faccia olivastra e senza neppure una ruga, velata da un lucido e rivoltante strato di grasso.

Lo afferrò per la lunga veste da dottore e lo sbatté contro la parete. «Chi ha preso mio figlio, dov’è stato portato?»

«Cosa fate? Che modi sono questi?»

«Parlate o giuro che vi ammazzo».

Il papa, che era stato un pirata sul lago di Como e aveva visto questo e altro, non fece una piega, ma gli ordinò di lasciar andare il suo medico.

«Lasciatelo, Dardo», disse anche Pallantieri.

«Mettetemi giù o la pagherete cara», tentennò l’archiatra.

Raphael accontentò il papa e il governatore, e mollò la presa, con la sensazione che se ne sarebbe pentito.

Pompeo Della Barba si sistemò i vestiti e fissò Raphael a testa alta. «Voi credete alle parole di un garzone di cucina piuttosto che alle mie!».

Pallantieri allungò le mani verso Raphael e con un sorriso pietoso gli disse: «Comprendiamo il vostro stato d’animo, messer Dardo, ma non dovete fare così. Conosco il dottor Pompeo Della Barba da molto tempo, è una persona a dir poco onorevole, e non posso credere che volesse avvelenare qualcuno. Per quel che riguarda suo fratello Simone, stiamo investigando. Ne verremo a capo, e chi dovrà pagare pagherà».

«Posso dire lo stesso», soggiunse il papa. E rivolgendosi all’archiatra: «Voi dovrete spiegare, Pompeo. Non ve la caverete a buon mercato. Vi ordino di non lasciare il Sacro Palazzo per nessuna ragione. E adesso fuori da qui».

Pompeo Della Barba se ne andò.

Mentre la porta che dava sulla terrazza del castello si spalancava e sbatteva con violenza, il papa si adagiò su una delle poltroncine damascate, sul morbido tappeto persiano e toccandosi la fronte disse: «Se lo ha fatto, qualcuno deve averlo costretto. Lo conosco troppo bene».

«La pagherà», ringhiò Raphael.

«Non ho intenzione di punirti. Ti comprendo. Chiunque abbia rapito tuo figlio sarà catturato e giustiziato, te lo prometto. E vedrai che scopriremo chi ha commissionato l’avvelenamento delle mie guardie. Il garzone del cuoco potrebbe aver preso un abbaglio, oppure aver mentito di proposito».

Raphael non commentò. «Vi chiedo di avere un occhio di riguardo per quel povero ragazzo. Ha bisogno di cure. Mastro Bartolomeo lo ha gettato nel fuoco».

Il papa congiunse le mani. «O Dio santissimo! Darò ordine a qualcuno di occuparsi di lui».

«Grazie, Santità».

«Posso mettervi a disposizione una compagnia di birri per cercare il fanciullo», propose il governatore, con fare conciliante e premuroso. «Qualunque cosa per aiutarvi a trovarlo sano e salvo».

«No», disse il papa.

«Perché, Santità?»

«Ti occuperai tu di ritrovare il fanciullo. La mia guardia del corpo ha una cosa più importante da fare».

Raphael avvertì un gelo improvviso, non si era mai sentito così tanto confuso in vita sua. «Perché dite questo, Santità?»

«Tu devi salvare la Chiesa. Devi trovare quel che sai. E poi consegnarlo a me e a nessun altro. Ricordi?».

Raphael riuscì a trovare la freddezza di non replicare. Si inchinò, sfiorò l’anello piscatorio con le labbra, poi guardando negli occhi i due potenti uomini di Chiesa disse: «Bisogna averlo, un figlio, per capire cosa si prova».

Quindi, girò sui tacchi e tornò da Sara che lo stava aspettando in piazza San Pietro.

Al diavolo le assurde e disumane pretese del papa, pensò: lui sarebbe andato a cercare Ariel.