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«Isaia 57,2», lesse Panvinio, sentendo la propria voce che veniva risucchiata dalla galleria, «egli entra nella pace: riposa sul suo giaciglio chi cammina per la via diritta».
Andarono dritto.
Ai lati del cunicolo si aprivano anfratti oscuri, vi gettarono dentro le fiamme delle torce, ma non videro che stanze vuote o altre gallerie; rinunciarono a ispezionarle e continuarono seguendo le istruzioni criptate di Virgilius.
«Proverbi 16,25: C’è una via che sembra diritta per l’uomo, ma alla fine conduce su sentieri di morte».
La frase sembrava dissuadere dall’imboccare la via diritta. Decisero di imboccare il cunicolo di sinistra, essendo l’unica alternativa. Ma prima Panvinio marcò la via già percorsa con una x di vernice bianca per terra e altrettanto fece con quella che stavano per imboccare.
«Perché non ci sono dei segni?», si chiese Raphael, sospettoso. «Se Virgilius fosse davvero stato qui e avesse scoperto la via per raggiungere il cuore del labirinto, avrebbe anche lui marcato la strada come stiamo facendo noi».
«Può averlo fatto in un altro modo. Magari con delle pietre o della polvere».
Continuarono.
Fino a quel punto, le pareti non erano tempestate di loculi, come quelle delle catacombe, e non si vedevano neppure pitture; si aveva la sensazione di trovarsi in una sorta di passaggio segreto al di sotto di un castello. Non si poteva fare altro che avanzare per scoprire dove conduceva.
Panvinio aveva contato centodue passi dall’ultima deviazione quando la galleria si aprì in uno spazio ampio. Una sala rettangolare, con la volta più alta rispetto a quella delle gallerie, con false colonne in rilievo ai quattro angoli e un altare a parete, sormontato da una figura scolpita nella roccia: un serpente con la testa di leone, la lingua di fuori, e una corona a sette raggi.
«Questo è il serpente gnostico Chnufis», sussurrò Panvinio facendo luce sul muro. «Sotto c’è una parola, è in greco». Ne sfiorò le lettere con le dita. «Significa Dimenticanza».
Raphael scosse la testa e si guardò attorno.
Esclusa la direzione da cui stavano arrivando, avevano a disposizione tre aperture: a destra, a sinistra, davanti.
«Proseguiamo?».
Panvinio annuì e consultò le indicazioni: «Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura».
Marcarono con una croce l’inizio della galleria a destra, e cominciarono a percorrerla. Via via risultò lunga e tortuosa; compiva continue deviazioni ad angolo retto, a destra e a sinistra, annientando completamente quella vaga illusione che avevano di potersi orientare. Alla fine si trovarono davanti a un muro.
«Vicolo cieco», disse Panvinio. «Dobbiamo tornare indietro».
«Forse Virgilius ha fatto qualche errore».
«Può darsi».
«Se le sue istruzioni non sono corrette e affidabili, rischiamo di inoltrarci troppo e perderci».
«C’è una possibilità». Panvinio alzò la fiaccola e rilesse attentamente le istruzioni dall’inizio. «Ecco, qui». Toccò con la punta del dito la seconda indicazione. «Potremmo aver fatto un errore interpretando il passo Proverbi 16,25: C’è una via che sembra diritta per l’uomo, ma alla fine conduce su sentieri di morte. Noi siamo andati a sinistra, essendo la sola via alternativa a quella diritta, immaginando che potesse condurci sul sentiero sbagliato. Ma credo che non dobbiamo interpretare: semplicemente Virgilius ha estrapolato delle frasi dalla Sacre Scritture contenenti le parole destra, sinistra, diritto».
Raphael approvò l’ipotesi, perché era sensata e perché non ne aveva un’altra migliore.
Invertirono la marcia e segnarono l’inizio di quella galleria con una seconda croce: vicolo cieco. Poi, tornati al punto in cui avevano sbagliato strada, andarono diritto.
«Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra».
Svoltarono a destra.
Qui la galleria curvava verso sinistra, in modo graduale e continuo. Ancora nessun loculo, solo scabre pareti di pietra. Raphael lo fece notare a Panvinio, ma lui gli disse di non essere affatto stupito dalla mancanza di sepolture. Si fermò, lo fissò con occhi di vetro e aggiunse: «Questa non è una catacomba».
Ascoltarono le viscere della terra, il silenzio che ronzava nelle orecchie.
«I Cainiti», spiegò lo studioso, bisbigliando, «non credevano nella resurrezione dei corpi alla fine dei tempi. Per loro, che erano cristiani gnostici, il corpo umano, la materia in generale, rappresentava il male. Non davano alcun valore alla “custodia”, all’“involucro”, come loro chiamavano il corpo. Non seppellivano i morti, li bruciavano. Sarebbe stato un controsenso. Capisci?».
Raphael annuì. Aveva più paura di uscire da lì senza qualcosa da scambiare con la vita di Ariel, per cui riprese a camminare.
Le gambe di Panvinio erano mosse dalla curiosità, oltre che dal desiderio di salvare Ariel, e nonostante fosse terrorizzato non fu necessario pregarlo.
Alla prima deviazione andarono a sinistra, poi presero un cunicolo a destra, perché le indicazioni dicevano: mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra.
Si ritrovarono in una sala rettangolare del tutto simile alla precedente, con le colonne scolpite ai quattro angoli e altre tre aperture sui lati, oltre quella da cui provenivano. Lì mancava l’altare, ma c’era una figura scolpita nella parete.
«Ti presento il serpente gnostico Xnovmis», disse Panvinio.
Era quasi uguale a quello visto prima, salvo per la corona, che aveva dodici punte anziché sette, e per la parola che vi era scritta sotto: Malizia.
«Cosa significa tutto questo?», si chiese Raphael alzando la torcia e ruotando la testa. «Che razza di posto è?»
«Credo che sia un luogo di iniziazione ai misteri gnostici, un tempio. Forse gli iniziati e gli iniziandi venivano qui sotto per compiere azioni nefande».
«Da che parte si va?»
«Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia».
Procedettero avanti, sempre segnando una x di vernice a terra, a ogni incrocio.
Era un percorso chiaramente concepito per scoraggiare gli intrusi dall’addentrarvisi.
Che quell’impressione fosse fondata risultò evidente non quando trovarono il primo scheletro per terra, ma quando videro il secondo, e il terzo, e il quarto.
In tanti avevano perso la vita cercando prima un tesoro e poi l’uscita da quel labirinto. Lo si capiva dagli attrezzi di ferro usati per scavare, ancora integri accanto alle ossa.
Oltrepassarono i resti di quegli sfortunati e andarono avanti.
Giunti al bivio successivo, Panvinio lesse: «Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno».
I sacchi e gli attrezzi cominciavano a pesare sulla schiena.
«Su, va’ nella strada chiamata Diritta e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco, sta pregando…».
A tratti, il senso di occlusione faceva girare la testa e mancare il respiro.
«Il mio calice, lo berrete; però sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo».
A mano a mano diventava la cosa più normale del mondo recitare frasi della Bibbia, sottoterra, imboccando aperture ignote e seguendo gallerie che conducevano soltanto ad altre gallerie.
All’improvviso si trovarono a passare davanti a una fenditura nella parete. Si fermarono a esaminarla e dedussero che doveva essere stata praticata dai saccheggiatori di tombe di cui avevano incontrato gli scheletri. I poveretti non erano riusciti a ritrovarla.
Andarono avanti.
«E porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra… Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra… Vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza… Agli occhi dell’uomo ogni sua via sembra diritta…».
Al termine di quella serie di gallerie, incontrarono un’altra sala rettangolare.
C’era un altare, sormontato da entrambi i serpenti che avevano visto prima.
Sotto le due figure campeggiavano tre parole: Stoltezza della carne.
Si fermarono a riprendere fiato e a far riposare le spalle. Immersi nel silenzio più profondo. Giusto il tempo di bere un sorso d’acqua, poi si rimisero in cammino.
«Insieme a lui vennero crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra», lesse Panvinio.
Continuarono così, una citazione biblica dopo l’altra, finché arrivarono in una quarta sala.
La figura in rilievo sulla parete stavolta era un Abraxas, la parola incisa sotto era Gelosia.
Non si fermarono.
A ogni deviazione avevano diligentemente marcato le vie percorse e la cosa più incredibile, anche per uno come Panvinio, il quale di dedali sotterranei ne aveva visti tanti, era il fatto che non fossero mai passati due volte nello stesso punto.
Significava che il labirinto era parecchio esteso.
E anche che le indicazioni di Virgilius, se non altro, avevano una logica.
Camminando a passo svelto, Panvinio continuò a leggere: «Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso… C’era là un uomo che aveva la mano destra paralizzata… Siedi alla mia destra… Non sta forse davanti a te tutto il territorio? Se tu vai a sinistra, io andrò a destra; se tu vai a destra, io andrò a sinistra… Allora egli disse loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”».
E troverete.
Si fermarono davanti a quella che, secondo le istruzioni di Virgilius, doveva essere l’ultima galleria, prima di accedere al centro del labirinto.
Erano sfiancati e non avevano idea di quanto tempo fosse trascorso da quando erano entrati.
«Però sembra che ci siamo», disse Raphael.
Panvinio si inoltrò nella galleria e lesse l’istruzione successiva: «Ma poi lo ricondurrà su una via diritta e lo allieterà, gli manifesterà i propri segreti». Senza fermarsi, si voltò verso Raphael e annuì, gli occhi che scintillavano.
Proseguirono diritto per una cinquantina di passi e si trovarono davanti a una scalinata che correva in basso sfumando nel buio.
Fremendo per l’inquietudine, esasperati da un misto di curiosità e titubanza, di angoscia e desiderio di arrivare alla fine, lessero l’ultima istruzione lasciata da Virgilius: «Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire».
«E speriamo che ci aiuti», aggiunse Raphael.