7
Raphael abbassò la testa ed entrò per primo. Mosse la torcia nell’oscurità cercando l’uomo che aveva fatto fallire la congiura. Cosa lo aveva spinto a ripensarci e a denunciare i suoi complici?
Presumibilmente, avrebbe evitato la pena capitale, ma sarebbe comunque finito molto male, quasi sicuramente in una galera pontificia, incatenato al sedile, a remare e sguazzare nei propri escrementi per tutta la vita. Un’esistenza orribile, ma per fortuna breve.
Da un angolo buio giunse una voce arrochita dal pianto: «Voi chi siete?»
«Due amici», rispose Raphael facendo segno a Sara di entrare. Distese il braccio e illuminò l’angolo in cui si era rannicchiato il prigioniero. «Alzatevi, per favore».
«Chi vi manda?»
«Colui che volevate ammazzare».
«Dite sul serio?»
«In piedi, ho detto».
Il cavalier Pelliccione si alzò rivelando un’altezza considerevole. Aveva le spalle larghe e sode di chi pratica regolarmente esercizi, la faccia ampia, lo sguardo fiero.
La convinzione di appartenere a un antico e nobile lignaggio, pensò Raphael, doveva aver modellato il suo aspetto, o viceversa. «Compatibilmente con i vostri impegni, vorrei farvi qualche domanda, messer Pelliccione».
«Cosa ci fa una donna qui dentro?»
«Spero che non vi dispiaccia se vi fa un ritratto».
«Mi dispiace, invece, eccome».
Senza dire una parola, restando in piedi, Sara stese un foglio bianco sulla cartella e cominciò a disegnare il volto del congiurato; scelse di farlo della grandezza di una mano, in modo che nello stesso pezzo di carta ce ne potessero stare diversi.
Pelliccione si chiuse nelle spalle e non protestò. La ignorò. «Siete un notaio del governatore?»
«No», disse Raphael.
«Allora, chi siete? Per quale motivo dovrei rispondere alle vostre domande e lasciare che mi si ritragga mentre sono in queste condizioni pietose?»
«Come vi ho detto, eseguo degli ordini. Io sono il migliore amico che voi possiate avere d’ora in avanti. Da domani all’alba il governatore Pallantieri incomincerà a torturarvi senza pietà».
«Ho già confessato ogni cosa dettagliatamente. Se il papa non sarà ucciso, è grazie a me».
«Sapete come va a finire con la tortura? Vi porteranno a dire quel che non avevate intenzione di dichiarare. Si confessa e si ammette qualunque cosa pur di fermare la mano del torturatore. Se parlerete con me, la vostra testimonianza non sarà gettata al vento. Ve lo prometto. Sono qui per aiutarvi».
Il cavaliere guardò il pavimento per qualche istante, mugugnando, poi alzò la testa e disse: «Dovrei credervi? Io non vi conosco». Si lasciò ricadere per terra, e ricominciò a piangere sommessamente, con la fronte sulle ginocchia. «Andatevene, vi prego, lasciatemi solo».
«So cosa vuol dire trovarsi al vostro posto, messer Pelliccione. Sono stato rinchiuso anch’io, con una condanna a morte».
Pelliccione alzò la testa. «È vero?»
«Agisco su incarico del papa», ripeté, calmo; posò il fiasco a terra e aprì la tela che avvolgeva il piatto di porcellana finissima: tutto rubato poco prima nelle cucine del Sacro Palazzo. «Posso fare in modo che la vostra pena sia meno dura», disse porgendogli il piatto. «Vi piace la torta alle arance? L’ha preparata il miglior cuoco del mondo. Mai sentito parlare di Bartolomeo Scappi?».
Il cavaliere annuì e ne prese una fetta. «Va bene», disse addentandola, «chiedetemi tutto quello che volete».
Raphael lo lasciò mangiare. Gli diede anche il fiasco di vino, e restò a guardarlo mentre masticava e beveva con voracità. La sua non poteva essere fame, doveva aver cenato poche ore prima. Ciò nonostante agguantò tutte le fette che erano nel piatto e le divorò rapidamente. Alla fine tracannò anche un quarto di fiasco.
«Grazie», disse.
«Mi chiamo Raphael Dardo».
«Onorato di fare la vostra conoscenza, messere». Pelliccione si fregò le labbra con la manica di velluto e annuì, appagato e pieno di riconoscenza. «Immagino che la prima domanda sia: “Perché volevate uccidere il Santo Padre?”. Ho indovinato?»
«No, questa è la seconda. La prima domanda è: perché all’ultimo momento avete deciso di non farlo?».
Pelliccione scosse la testa. «Per salvare almeno me stesso. Tanto gli altri sarebbero morti comunque, e in modo ignominioso».
«Cosa volete dire?».
Gli occhi del cavaliere si alzarono, lacrimosi e pallidi, come bolliti nel terrore. «L’assassino della croce di sangue…», disse. «Eravamo tutti sulla sua lista».
«Tutti chi?»
«I congiurati. Tre dei nostri sono stati uccisi. Avevano tutti una croce di sangue sulla fronte».
«Erano cercatori di tesori sepolti?».
Pelliccione annuì guardandosi le mani. «Io ho delle conoscenze fra i maghi», spiegò. «Come saprete, alcuni sono in grado di individuare i punti in cui scavare. Tempo fa il conte Manfredi mi avvicinò per chiedermi se potevo suggerirgliene uno bravo a cui rivolgersi. Lo conobbi così».
«Cosa avete trovato sottoterra?»
«Hanno, messere. Io non mi sono mai interessato di anticaglie».
«Dove scavavano?»
«Anche nel cortile del palazzo Cesi, dove avevamo base. Ma era solo una copertura per giustificare la nostra presenza lì».
«E poi dove?»
«Non saprei dirvi. Li ho sentiti parlare di catacombe».
«Come mai vi siete fatto coinvolgere nella cospirazione?»
«Quel pazzo di Benedetto Accolti mi ha abbindolato con i suoi sermoni deliranti! Si esercitava col pugnale usandomi come fantoccio; io seduto su una sedia impersonavo il papa, e lui calava fendenti e portava affondi davanti alla mia faccia». Scosse la testa. «È difficile spiegare come io possa aver perso il lume della ragione a tal punto. Però poi mi sono svegliato».
«Dunque, ricapitoliamo. State dicendo che l’assassino della croce di sangue ha ucciso alcuni dei congiurati, vi siete persuaso che volesse eliminarvi tutti in segreto e, temendo di essere ucciso, vi siete fatto arrestare per essere messo al sicuro in una cella. Ho capito bene?»
«Più o meno le cose stanno così».
«Dunque», si intromise Sara consegnando a Raphael il ritratto a carboncino del prigioniero, «voi avete fatto arrestare i vostri complici solo sulla base di questa sciocca supposizione?».
Il cavaliere alzò la fronte, visibilmente ferito nell’onore. Sostenne per un po’ lo sguardo fermo di Sara, ma alla fine fu lui il primo a riabbassarlo. «Non è una semplice supposizione. Ci ho riflettuto a lungo. L’assassino della croce di sangue stava agendo per conto di qualcuno che aveva scoperto la congiura e voleva farci fuori. Io ho domandato a un avvocato, prima di…». La parola tradire si incagliò fra i suoi denti. «Insomma, avendo denunciato il complotto posso sperare nell’esilio. Qui sono al sicuro, adesso. E quei bastardi adoratori del diavolo avranno quel che meritano».
«Li avete condannati a morte, messer Pelliccione».
«Be’, Dio non mi avrebbe perdonato neppure se avessi contribuito all’uccisione del papa».
«L’assassino della croce di sangue, messer Pelliccione, chi ha ucciso esattamente? Voglio dei nomi».
Dopo un lungo e meditato silenzio, il cavaliere disse: «Mio cugino, Gabriele Pelliccione, è stato il primo. Poi è toccato a un servo del conte Canossa, di cui non ricordo il nome».
«Che ruolo avevano vostro cugino e questo servo del Canossa?»
«Nessuno. Loro volevano solo aiutare Canossa a vendere delle cose trovate sottoterra».
«Che genere di cose?»
«Non lo so».
«Le hanno vendute?»
«Credo di no, perché Canossa si è rivolto a un antiquario».
«Ne conoscete il nome?»
«No. Lo chiamano tutti l’Antiquario. È un mercante di oggetti antichi. Quando ho saputo che era stato ucciso anche lui mi sono deciso a denunciare».
«Sapete dove abitava?»
«Non lo sa nessuno».
Raphael scorgeva evidenti tracce di sincerità nello sguardo del cavaliere. Stava per chiedergli come mai fosse l’unico del gruppo a sapere di quegli omicidi, ma subito si rese conto che sarebbe stata una domanda superflua: i cospiratori non erano nella condizione ideale per recarsi in tribunale a sporgere una denuncia del genere. Cosa avrebbero potuto dichiarare? Che volevano uccidere il papa, ma erano stati scoperti e qualcuno li stava facendo eliminare uno alla volta da un implacabile sicario?
«Sono stati arrestati tutti o là fuori c’è qualcuno di voi a piede libero, qualcuno che potrebbe essere ucciso dall’assassino della croce di sangue?», gli domandò.
«Ho sentito dire», rispose Pelliccione, «che il conte Canossa è sfuggito all’arresto».
«Chi altri?»
«Un certo Zuanne, un tombarolo amico del conte: non lo vedo da alcuni giorni. Anche lui temeva di fare la stessa fine. E poi c’era il mago Virgilius, che io feci conoscere al conte Canossa e al conte Manfredi».
«Virgilius?»
«Sì, andava a fare i sopralluoghi insieme ai due signori, alla ricerca di punti in cui scavare».
Raphael aveva avuto un sussulto involontario nel sentire quel nome, e il ricordo era corso a qualche anno prima, a quando si era rivolto al mago per fargli valutare dei manufatti antichi che interessavano al duca Cosimo. Perché Virgilius non era un mago qualunque, studiava con serietà gli oggetti che trovava grazie alle soffiate degli spiriti dell’aldilà.
«Lo conoscete?», chiese Pelliccione.
«Un po’».
«Anche lui è sparito dalla circolazione, forse perché ha capito prima di me quel che stava succedendo. O magari lo hanno ucciso». Sbattendo le palpebre allargò le braccia. «Virgilius è un tipo strano. Il conte Canossa e il conte Manfredi si erano legati a lui in modo molto stretto. La smania di cavare tesori li accomunava. Quei due nobiluomini sono coperti di debiti fino al collo».
Sara si schiarì la voce. «Permettete una domanda? Questo conte Manfredi, per caso, ha una sorella di nome Barbara e abita nel rione Colonna?».
Pelliccione annuì. «Lo conoscete?»
«A quanto pare», disse lei, «non abbastanza bene».
«Quale parte di lui avete conosciuto meglio?», ridacchiò Pelliccione.
«Attento a come parlate», lo avvisò Raphael. «Sara perde facilmente la calma».
«Come tutte le donne», sentenziò il nobile decaduto. Poi, lentamente, tornò serio. «A cosa vi serve la mia faccia disegnata?»
«Diciamo per ricordo. Ma torniamo a noi, se non vi dispiace».
Lui si grattò la testa con rabbia e poi se la strinse fra le mani. «Va bene, va bene, chiedete pure».
«Il cardinale sapeva quel che stavate tramando nel suo palazzo?»
«Penso che fosse del tutto ignaro del nostro progetto».
«C’è una cosa che non mi è chiara: perché l’assassino di cui parlate non ha iniziato da Benedetto Accolti o dai conti Manfredi e Canossa, o da voi, se chi lo mandava voleva sventare la congiura?»
«In effetti, questa è una buona domanda. Non lo so. Ma ci stavano alle calcagna. Avevo paura che ci avrebbero uccisi. Questo è quel che mi importava, il motivo per cui ho denunciato tutto».
«A parte Zuanne e Virgilius, vi viene in mente qualcun altro che sia stato ucciso?»
«No».
«Dove abita questo Zuanne?»
«Mi pare nella zona di Campo de’ Fiori», disse Pelliccione staccandosi le mani dalle tempie. «Adesso abbiamo finito? Posso vedere il disegno?».
Ricevuto il permesso da Sara, Raphael girò il foglio verso di lui.
Pelliccione scrutò i suoi stessi tratti somatici sulla carta e sorrise. Approvò con ammirazione, nei dettagli e nel complesso. «Non pensavo che una donna potesse disegnare così bene».
Sara incrociò le braccia e lo guardò piegando la testa di lato. «Non so se ringraziarvi per il complimento personale o se sputarvi in faccia per l’offesa al genere femminile».
Pelliccione fece finta di non averla sentita. La visione di se stesso sulla carta continuava a strappargli sorrisi attoniti. «Per la barba del demonio. Ho ancora una certa avvenenza». E guardò di nuovo Sara. «Voi cosa dite? Dovreste intendervene di uomini, visto quanto siete brava con il pennello!».
Lei lo fissò a muso duro, ma si limitò a questo, mentre, chissà per quale insondabile motivo, lui si lasciava andare a una sorta di risata folle, mero sfogo di un’anima disperata.
Raphael si mise in piedi e andò a bussare per richiamare la guardia. «Abbiamo finito!», urlò.
«Non mi chiedete perché volevamo uccidere il papa?»
«Posso aspettare domani, per avere la vostra versione e anche quelle dei vostri complici». Bussò più forte. «Guardia!».
«Eccomi, eccomi!». L’uomo arrivò pestando le scarpe sulla fanghiglia.
Sara raccolse la sacca e la cartella di cuoio, fece qualche passo verso la porta che stava per aprirsi, ma poi si accorse che era la direzione sbagliata e tornò indietro. Improvvisamente, assestò un calcio sulla tempia di Pelliccione, facendo risuonare il legno dello zoccolo contro le ossa del cranio. «Verme schifoso!».
Il cavaliere vacillò tramortito.
«Sara», strillò Raphael, afono, «cosa stai facendo?».
Lei si chinò sul prigioniero e gli fece sentire la lama fredda dello stiletto. «Sono brava col pennello e anche col pugnale», gli soffiò nell’orecchio, sibilante. «Ringraziate Dio se non vi taglio la lingua».
«Sara!».
«Sì», disse lei, «scusami». Fece scivolare il pugnale nella manica del vestito, e quando raggiunse Raphael e la guardia sulla soglia della cella aveva assunto di nuovo le sembianze di una donna fragile e inappuntabile.
«Avete finito?», chiese la guardia con speranza.
«No». Raphael scoccò un’occhiata a Sara, come una supplica. «Dobbiamo disegnare anche i volti di…». I nomi di tutti i congiurati arrestati non li ricordava. Riaprì il foglietto lasciatogli dal procuratore fiscale.
«Voglio sperare che tu stia scherzando».
«Se non fosse importante, non te lo chiederei».
«Lo so, ma…».
«Devi disegnare Benedetto e Pietro Accolti, il conte Taddeo Manfredi, Prospero Pittori e Giovanni da Norcia». Alzò gli occhi su Sara. «A proposito, da quanto tempo la sorella del conte Manfredi sta venendo da te per farsi ritrarre?»
«Il quadro è quasi finito. Direi più o meno una decina di giorni».
«La sorella di uno dei congiurati entrava e usciva dal nostro palazzo…».
«Ogni giorno. Ma io come potevo saperlo?».
La prese per un braccio e la tirò in disparte. «Che persona è il conte?»
«Io ho parlato solo una volta con sua moglie, Elisabetta. Ma quel giorno in casa era presente anche lui. Era insieme al conte Canossa. I due sono amici inseparabili. Il conte Taddeo Manfredi è un soldato, e si dà un sacco di arie: dice di aver combattuto nella guerra di Siena e si dipinge come un eroe. Il conte Antonio Canossa, invece, che è di qualche anno più giovane ed è celibe, mi è parso un gentiluomo più istruito; sa scrivere e leggere, e conosce il latino, è educato come si conviene a un conte. Ma entrambi hanno addosso l’odore dei debiti. Infatti, Taddeo Manfredi sta condannando sua sorella Barbara, di tredici anni, a un matrimonio con un uomo anziano».
Raphael chiuse gli occhi, si figurò nella mente una nuvola nera, ci mise dentro tutti i mali del mondo e la espulse espirando. «E la damigella faceva domande, ficcava il naso?»
«Mi ha chiesto perché a casa abbiamo le guardie e non c’è la servitù; ma è sempre stata con me, in posa. Molto garbata. Disprezza profondamente suo fratello».
«Credi che sia sincera?»
«Sai, proprio oggi mi ha parlato dell’assassino della croce di sangue». Notò lo sguardo confuso di Raphael e lo fissò sbattendo le lunghe ciglia nere. «Non dirmi che non ne eri al corrente».
«Strano, vero?»
«Direi proprio di sì. Barbara Manfredi ne ha sentito parlare in casa sua. Dice che ha ascoltato dei discorsi del fratello».
«Dei discorsi…», annuì Raphael, pensoso. Era un’informazione importante: oltre a Pelliccione, anche un altro congiurato sapeva degli omicidi della croce di sangue.
Eppure in giro non si sapeva. Le autorità non ne erano informate, e se non fosse stato per Pelliccione, Raphael adesso ne avrebbe sentito parlare per la prima volta da Sara.
Essendo quotidianamente a contatto con birri, guardie e soprattutto, in Vaticano, con i più grandi pettegoli del mondo, la notizia gli sarebbe senz’altro giunta alle orecchie.
Barbara Manfredi doveva aver immaginato, ingenuamente, che quella dei delitti della croce di sangue fosse una notizia di dominio pubblico e perciò ne aveva parlato con Sara a cuor leggero.
Pelliccione, dunque, pareva attendibile.
Ciò nonostante la sua versione faceva acqua da tutte le parti.
Perché, ad esempio, l’assassino della croce di sangue aveva iniziato uccidendo gli esperti di anticaglie, i congiurati-cavatori, anziché il capo della congiura Benedetto Accolti, colui che avrebbe vibrato il colpo mortale contro il papa?
«Mi piacerebbe partecipare all’investigazione», gli disse Sara.
«Non se ne parla».
«Allora i disegni li farò domattina».
«Adesso».
«Cinque ritratti mi richiederanno del tempo», protestò Sara. «Li faccio domani».
«Non possiamo aspettare».
«Perché no?»
«Da domani, i volti di quei disgraziati saranno irriconoscibili». Chiamò la guardia. «Fateci vedere gli altri».
«Solo vedere?».
Sara annuì.
«Seguitemi». Superate cinque o sei celle, si fermò davanti a una porta e la aprì. Controllò dentro con la torcia, poi disse a Sara che poteva entrare.
«Non è necessario, fatelo avvicinare, per favore».
La guardia strillò: «Verme della malora, vieni qui, fatti vedere bene in faccia!».
Il conte Taddeo Manfredi si avvicinò alla luce con la testa bassa, strisciando per terra i piedi vincolati dai ceppi. Controvoglia, alzò lo sguardo e si lasciò guardare in viso. Giovane, di bell’aspetto, gli occhi infossati in due baratri oscuri, le labbra esangui. Balbettava senza parlare.
«Basta così», disse Sara dopo un brevissimo esame. La porta si richiuse con un tonfo, e lei rapidamente traspose il volto sulla carta. «Il prossimo».
Il rituale si ripeté invariato per ogni cella, una faccia dopo l’altra, disegno dopo disegno.
Raphael rinunciò a interrogare i prigionieri. Non era necessario. Presto avrebbe ricevuto i verbali degli interrogatori.
Restò a guardare con ammirazione il carboncino che danzava tra le dita di Sara, veloce e impeccabile.
Dopo mezz’ora i volti dei cinque cospiratori erano nelle sue mani, fissati sulla carta, non ancora sfigurati dal boia.
Nessuno li avrebbe mai più rivisti così.