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Il risveglio fu brusco. L’uomo si ritrovò seduto sul materasso, ansimante, a fissare la porta chiusa.
Ascoltò l’esterno della casa, e udì soltanto il letto cigolare al ritmo del suo stesso cuore. Ogni palpito gli riecheggiava nella testa.
Che ora poteva essere?
Il fuoco nel camino era spento, ma la cenere custodiva ancora qualche tizzone acceso.
Era notte fonda.
«Zuanne?», biascicò una voce femminile assonnata, accanto a lui. «Cosa c’è?»
«Hanno bussato», rispose sfilando una camicia arrotolata da sotto il guanciale. «Continua a dormire». Si calò addosso l’indumento di tela, poi poggiò i piedi sulla panca scendiletto e calzò le pantofole.
«Ma chi vuoi che bussi a quest’ora?»
«Sta’ zitta e dormi, ho detto». Con un gesto meccanico, prese il mantello di zibellino e se lo mise sulle spalle; la pelliccia scacciò i brividi provocati dal freddo, ma quelli dovuti alla paura restarono.
«Non ti senti bene?», gli domandò la donna.
«Sto male», mugugnò, «ogni volta che apri quella boccaccia». Appoggiò l’orecchio contro la porta e si mise in ascolto trattenendo il respiro. Poi fece scivolare di lato il passante di ferro, aprì, lentamente. Infilò la testa nelle tenebre, ma non vide niente. Quindi, richiuse e andò verso il camino. Si sedette su una sediolina impagliata, frugò nella cenere con lo spiedo per raccogliere da un lato la poca brace che era rimasta, vi mise sopra della paglia e dei rametti asciutti, e soffiò fino a vedere le prime fiamme baluginare nell’oscurità.
Accese un paio di candele, dopodiché caricò la polvere da sparo nell’archibugio, infilò il colpo nella canna e tornò alla porta.
Guardò nuovamente in strada, a destra e poi a sinistra. Nel raggio di visuale concesso dalle fiammelle dei ceri non si scorgeva anima viva. Il vento viscido e gelato che soffiava per le vie e che gli riempiva i polmoni non portava rumori con sé.
Prese ancora qualche boccata d’aria prima di rientrare, una nebbiolina densa gli usciva dalla bocca quando espirava. Faceva freddo e, seppure in quel momento non stesse piovendo, dappertutto grondava acqua. Un gocciolio calmo, rassicurante.
La luna e le stelle erano oscurate dalle nuvole. Si preannunciava una nuova giornata grigia.
Se mai ci fosse stato in passato un altro autunno così tanto piovoso e freddo, a Roma, Zuanne non lo ricordava. Da settimane, ormai, non si vedeva più il sole. Se ne scorgeva soltanto un bagliore fosco, una luce remota al di là delle nuvole e della densa coltre di fumo generata dai camini, sufficiente a scoprire qua e là meravigliosi arabeschi di rami spogli, e a far luccicare le pozzanghere e le chiazze di foglie fradice.
Nelle case di chi poteva permetterselo si tenevano le lampade e le candele accese anche a mezzogiorno.
Oscurità, acqua, gelo e foschia. Pareva che la città fosse diventata l’ombra spettrale di se stessa, un riflesso oscuro e lacrimoso di quella che era stata nei mesi estivi.
Zuanne richiuse la porta e tornò a sedere davanti al camino. Appoggiò la canna dell’archibugio contro il muro sentendosi uno stupido per essersi agitato in quel modo.
Curvo sotto la pelliccia alimentò la piccola fiamma che aveva acceso poco prima, fino a farla diventare un fuoco robusto.
Sì, era stato uno stupido. Adesso gli veniva da ridere, ma aveva in petto una rabbia sorda che glielo impediva. Udì il lieve frusciare dei vestiti che scivolavano sulla pelle della donna: la sottana di seta, la lunga zimarra di raso nero…
«Te ne vai?», le chiese tenendo gli occhi fissi sul fuoco.
«Sì», fece lei.
«Perché?»
«Dimmelo tu, perché. Di cos’hai paura?»
«Mi era soltanto parso di sentire bussare».
«Allora perché hai caricato l’archibugio?»
«Non si sa mai».
«Vorresti tornare sotto le coperte?»
«Mi piacerebbe, ma all’alba ho delle faccende da sbrigare».
«Come vuoi».
«I soldi li ho messi al solito posto».
«Non sono rimasta tutta la notte».
«Fa lo stesso».
Lei gli passò accanto pestando le suole altissime delle pianelle sul pavimento, raccolse i soldi dalla mensola accanto alla porta, li contò: quaranta fiorini. Se li fece scivolare in una tasca e raggiunse la porta senza voltarsi. «Ci si vede», disse. E mentre la sua mano delicata si avvicinava alla maniglia per afferrarla, quella tozza e ruvida di Zuanne faceva lo stesso con l’archibugio.
Lei aprì, e rimase immobile sulla soglia oscura.
Zuanne la sentì esclamare: «Chi siete voi?», con una sorta di singhiozzo.
«Chi è là?». Chiese Zuanne imbracciando l’arma. La puntò verso la risposta, che gli veniva incontro manifestandosi nella luce scoppiettante del camino.
Occhi fermi e severi, da fiera affamata.
Non potevano essere quelli di un gentiluomo.
«Fuori da qui», ordinò, senza un’appropriata convinzione.
L’uomo non si mosse.
La donna, invece, infilò la porta e sparì nel buio correndo a più non posso.
«Ti ho trovato», disse l’uomo, come se si stesse rivolgendo a qualcuno cui aveva dato appuntamento. La voce suonava nuova alle orecchie di Zuanne.
«Chi siete?»
«Non ci conosciamo».
Indeciso, lo sguardo incollato su quel volto indecifrabile, Zuanne depositò l’archibugio a terra. «Volete», balbettò, «volete derubarmi? Non troverete niente. Fate pure».
«Sapevi che sarei venuto a cercarti». L’intruso allontanò l’archibugio con un calcio. «E dovresti sapere anche cosa voglio».
Ora, nel chiarore del fuoco, Zuanne vide che l’uomo era vestito da sacerdote. «Allora, che cosa volete da me?», balbettò.
«Tutto».
«Io non ero a conoscenza della congiura. Voi state facendo un errore. Io non c’entro». Immaginava cosa gli sarebbe accaduto, se fosse stato consegnato alle autorità: colpevole o no, lo avrebbero portato sul patibolo e ucciso a mazzolate in testa, e poi squartato; la gente avrebbe portato in giro per le strade quel che restava di lui, e i ragazzi avrebbero giocato a palla con la sua testa per settimane. Era finito, pensò. Morto.
«Non mi importa della congiura», disse il prete. «Voglio solo i manufatti antichi che avete rinvenuto nel sottosuolo. Dove sono stati nascosti?»
«Quali manufatti?». Zuanne arretrò strisciando sulle ginocchia. «Non so di cosa parlate».
«Quelli che il conte Canossa voleva vendere. Voglio sapere cosa avete trovato e dove».
«Io non prendevo parte agli scavi di Canossa», si schermì Zuanne. «Non ho trovato niente di niente con lui».
«Spiegati».
«Voleva un parere, ecco tutto».
«Che genere di parere?»
«Mi ha chiesto se conoscevo un venditore che potesse garantire estrema riservatezza. Sosteneva di aver trovato cose di valore. Non mi ha permesso neppure di vederle. Io mi sono solo impegnato a procurargli il venditore che stava cercando. Che male ho commesso?». Zuanne si colpì la testa con le nocche. «Mio Dio, aiutami tu. Sono un misero ubriacone, uno sporco scavatore, un ladro di tombe. Se Canossa ha trovato qualcosa che voi volete, andate da lui».
Il prete, che aveva ascoltato senza battere ciglio, prese lo spiedo dal camino.
Zuanne balzò in piedi. «Cosa volete fare?». Con uno scatto provò a raggiungere la porta, ma urtò con il ginocchio contro una sedia e cadde. Quando avvertì il dolore alla gamba, lo spuntone caldo gli aveva già trapassato la schiena e l’addome. L’ultimo odore che sentì fu il fetore di sangue e cenere che esalava dalla sua stessa carne; l’ultima cosa che vide fu quel volto, le labbra screpolate, le guance smunte, le orbite scure come voragini. L’ultima cosa che disse fu: «Dio ti maledica».
Il prete lo spinse via con una pedata, sfilandogli lo spiedo dalle viscere. Gettò via il ferro, senza preoccuparsi del rumore, posò un ginocchio a terra accanto al cadavere e col polpastrello intinto nel sangue caldo gli tracciò una croce sulla fronte. Infine, aprì una piccola pergamena contenente una lista di nomi, e con lo stesso dito e lo stesso sangue cancellò Zuanne Zorzi.
Prima di andare via, per puro scrupolo, perquisì la casa, ma come previsto non trovò niente.