39
Durante la loro assenza, qualcuno aveva fatto scivolare un pezzo di carta sotto il portone di palazzo Dardo. Un messaggio. Raphael lo raccolse da terra e lo portò vicino alle candele. Lo lesse in silenzio, mentre Sara lo osservava piena di apprensione.
A Raphael Dardo.
Tuo figlio sta bene. È proprio un fanciullo grazioso. Sarebbe un peccato se gli accadesse qualcosa di brutto. Non lo merita.
Dato che sei suo padre, anche stavolta la sua sorte dipende da te.
Trova i papiri, consegnameli tutti, e Ariel vivrà.
Un ricatto.
Raphael aveva esaurito le lacrime. Nella peggior notte che avesse mai vissuto, si impose di calmarsi e si sedette su una sedia a fissare il vuoto, con la carta che gli tremava fra le dita bagnate.
Il segno da parte dei rapitori era arrivato. Come immaginabile, non portava niente di buono.
Provò a concentrarsi sul proprio respiro ripetendo mentalmente le parole qui, adesso. E l’equilibrio dei suoi umori lentamente migliorò. Dalla collerica bile gialla all’aggressivo sangue, dalla malinconica bile nera al freddo e umido flegma.
Si sentiva esausto.
Con Ariel gli avevano tolto tutto, anche la forza di respirare.
«Cosa facciamo?», chiese Sara, che si era limitata a guardarlo con tenerezza, senza osare interferire con i suoi pensieri. «Forse dovresti cercare di riposare un po’, prima di prendere delle decisioni. Da quanto non dormi? Non mangi da ieri».
Raphael annuì. Come uno di quegli automi di ferro che facevano divertire i principi e le loro corti, si alzò e camminò fino alla cucina; raccolse un pezzo di pane dalla credenza, lo spezzò e se lo mise in bocca, con lo sguardo assente. In piedi, immobile, masticò e deglutì senza fretta, finendo tutto il tozzo di pane, poi si versò dell’acqua da una brocca di terracotta e la bevve d’un fiato; era gelida come la sua anima.
Sara gli avvicinò un pezzo di formaggio. «Ancora», gli disse.
Anche lei mangiò qualcosa; era spossata e atterrita. Quando aveva conosciuto Ariel, cinque anni prima, il bambino era nato da pochi mesi. Lo aveva visto crescere e diventare un signorino vivace e buono. Le parole non sarebbero bastate a descrivere l’affetto che provava per lui. Si chiese quanto fosse grande il dolore di Raphael in quel momento e guardandolo capì che non avrebbe mai più rivisto in tutta la vita qualcosa di più smisurato.
Gli prese una mano e la strinse con delicatezza. «Lo troveremo», gli disse.
«Vivo», precisò lui, con un sussurro.
«Vivo», ripeté Sara stringendogli più forte la mano. «Ma adesso dobbiamo asciugarci e pensare al da farsi. Forse è meglio aspettare che smetta di piovere e, nel frattempo, riposare un po’».
«Vogliono i manoscritti».
«Lo so».
«Accenditi il fuoco, mettici sopra una pentola d’acqua e fatti un bagno caldo. Va’ a dormire. Domani avrò ancora bisogno del tuo aiuto».
«E tu?»
«Vado ad asciugare e strigliare i cavalli».
Sara lasciò la sua mano con rassegnazione e speranza. Lo vide allontanarsi. Non gli disse neppure una parola. Evitò di invitarlo alla prudenza, di supplicarlo che tornasse a casa non appena avesse finito di sistemare i cavalli nella stalla. Avvertiva con chiarezza la propria impotenza nei confronti di quella corrente che lo stava trascinando via, verso un mare ignoto e profondo.
«Vuoi andare da Leccacorvo?», gli chiese.
Raphael si fermò e fece un cenno affermativo.
«Sei sicuro che sia una buona idea?»
«Lui e Panvinio hanno la lettera». E non fu necessario aggiungere che, se per salvare Ariel bisognava consegnare i papiri, perdere l’unico che avevano tra le mani sarebbe stata una pessima cosa.
«Allora, tu vai», disse Sara. «Ci penso io al mio cavallo».
«Va bene. Dopo, però, chiudi tutto a chiave. Per dormire scegli una stanza priva di finestre: la cantina, la soffitta…».
«Sì».
«E tieni un’arma a portata di mano».
«Non preoccuparti».
«Io recupero il papiro, mi accerto che Leccacorvo e Panvinio stiano bene e poi torno qui. Riposerò. E domattina, con la luce, andrò a cercare mio figlio».
«Ben detto».
«Chi lo ha rapito si è condannato a morte, Sara. Se solo oserà torcergli un capello, lo scuoierò vivo con le mie stesse mani».
Erano parole terribili, eppure Sara fu sollevata sentendole pronunciare. Dimostravano che Raphael non era piombato in una cupa melanconia, ma stava reagendo con rabbia. Pensò che la rabbia gli sarebbe stata utile.
«Fa’ come ti ho detto, Sara, e se non mi vedi tornare non stare in pensiero per me».
«Certo». Era il suo mestiere. Li avrebbe stanati, si sarebbe ripreso Ariel sano e salvo. Quindi, senza esitare andò ad aprirgli il portone. «Buona fortuna», disse.
Raphael le diede una carezza sulla guancia, infilò le dita fra i capelli ancora bagnati, la guardò dritto negli occhi e le depositò un bacio al centro della fronte. «Fatti forza». Poi montò in sella e sparì nell’oscurità.
E allora Sara si lasciò finalmente cadere per terra e pianse, dando sfogo alla disperazione.