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Un fulmine dopo l’altro, cavalcando sotto un cielo che pareva fatto di scaglie d’argento, Raphael raggiunse la via in cui abitava Leccacorvo.

Con il temporale c’erano poche luci accese, di notte, in tutta la città, i birri non facevano i soliti giri di ronda, e in circolazione non si vedevano i consueti gruppetti chiassosi di nobili che tornavano ubriachi dai bordelli o dalle giocate a dadi, né i capannelli di puttane, né gli innamorati sotto le finestre. Erano tutti al chiuso.

Quando arrivò davanti alla casa di Leccacorvo, però, trovò un gruppo di uomini in mezzo alla strada, con le lanterne in mano, che si agitavano attorno a qualcosa.

Raphael riconobbe qualche vicino di Leccacorvo. Si poteva vedere chiaramente anche il sangue sul selciato, che fluiva a rivoli dal centro della mischia.

«Cosa succede qui?», domandò.

Non ricevette risposta. Gli uomini si limitarono a guardarlo dal basso in alto. Poi si scostarono e attesero che lui smontasse e venisse a capire da solo cosa stava succedendo. Speravano di poter carpire qualche informazione da spettegolare l’indomani al mercato, su quanto era accaduto all’ex bargello del governatore.

Al centro del gruppo di uomini e di una chiazza di sangue, infatti, c’era Leccacorvo.

Seduto per terra, stava sfruttando l’acqua piovana per lavarsi una ferita sulla coscia sinistra. Aveva tagliato via la tela delle brache, e gemeva colmo di rabbia e sbraitava contro i ficcanaso che aveva intorno, intimando loro di tornarsene a casa. Ma quelli non lo sentivano. Volevano a ogni costo sapere cos’era successo, chi era quell’individuo con cui lo avevano visto lottare, e che fine aveva fatto… E, dato che Leccacorvo non forniva risposte, si scambiavano le proprie supposizioni.

«Forse era un ladro».

«A me sembrava un prete».

«Perché, ci vedi qualche differenza?»

«Controlla la lingua, se non vuoi che il boia te la strappi via con le tenaglie».

«Spostatevi», disse Raphael, spingendoli indietro.

Dentro di sé, Leccacorvo era contento di vederlo, ma la sua faccia era impegnata a gestire un repertorio infinito di smorfie di dolore.

«Cosa è successo?»

«Quel bastardo».

«Di chi parli?»

«Fa’ allontanare questi ficcanaso».

«Ah, è così che ci trattate?», protestò uno di loro.

«Siamo venuti a prestarvi soccorso», disse un altro.

«La prossima volta vi aiutate da solo», sentenziò un terzo.

«Per favore». Raphael fece vedere a tutti l’elsa della spada. «Andatevene a casa, se non volete sperimentare sulla vostra pelle quel che sta provando lui». E indicò Leccacorvo, che adesso si stava legando stretto il cinturone attorno alla coscia, sopra la ferita.

Controvoglia, nonostante la pioggia e l’ora insolita, ma uno dopo l’altro girarono sui tacchi e se ne andarono.

Raphael si chinò su Leccacorvo. «Ce la fai ad alzarti?»

«Ho paura che ci fosse del veleno sulla lama», disse lui, con la voce strozzata in gola. «Sfruttavo la pioggia per lavare la ferita con acqua pulita. Quel maledetto mi ha fregato. Lo avevo preso e mi si è rivoltato contro come un serpente».

Raphael capì di chi stava parlando. «Aggrappati a me».

«Forse sto morendo».

«Non è una ferita così grave. Vedrai che, se la mantieni pulita, te la caverai».

«Mi ha affondato una lama nel muscolo, quel porco».

«Gliela faremo pagare».

«Ci puoi scommettere. Ma ho paura per il veleno».

«Se la lama fosse stata avvelenata a quest’ora…».

«Mi gira la testa».

«A quest’ora…».

«Ho un po’ di nausea».

«Saresti morto, Giusto. O quanto meno non avresti la forza di dire stupidaggini».

«Hai ragione». Si lasciò tirare su e saltellando con un piede si fece guidare verso il portone di casa. Gli mostrò la sala da pranzo messa a soqquadro e, in fondo alla cucina, la porta del cortile. «È entrato da lì».

«Devi stenderti. Dobbiamo chiamare un cerusico».

«Va bene».

«Ce la fai?»

«Per chi mi hai preso?».

Ma salire la scala fu più complicato.

«Dov’è Panvinio?», gli chiese Raphael.

«In camera da letto. L’ho chiuso a chiave». Un gradino dopo l’altro, gli raccontò in sintesi quel che era accaduto, e quando arrivarono in cima alla scala aveva quasi finito di descrivere i fatti. «Io gli ho mollato un pugno sulla faccia facendolo stramazzare al suolo», continuò, «ma poi lui si è rialzato, mentre io mi premevo le mani sulla ferita. Ha aperto il portone con una rapidità… sembrava fosse a casa sua. L’ho riacchiappato, e ho perso la presa, e lui è riuscito a scappare in strada. Agile era agile, però per fortuna è scivolato sul selciato bagnato. Non è caduto, ha solo appoggiato le mani per terra. Quindi, anche se zoppicavo, l’ho acciuffato di nuovo per la tonaca…».

«Era un prete?»

«L’abito non fa il monaco».

Raphael annuì.

«Lì, sulla via, l’ho colpito sul volto con l’elsa della spada, gli ho dato una gomitata sotto il mento, ma non l’ho infilzato». Si tolse la chiave della stanza dal collo e gliela diede. «Ho paura che la lama di quel pusillanime fosse avvelenata».

«Te l’ho detto: non avresti la lucidità per parlare. Devi solo preoccuparti di non far infettare la ferita». Aprì la porta della camera da letto e lo spinse dentro.

Panvinio era inginocchiato ai piedi della finestra spalancata e stava pregando con la faccia rivolta alla maestà nera delle nuvole. «Sei vivo!», esclamò affrettandosi ad aiutare il ferito a stendersi sul letto. «Com’è bello vederti, Raphael», disse.

«Il piacere è tutto mio, Onofrio. Adesso ho davvero bisogno di te».

«Contaci».

«Dov’è il codice di papiro?»

«L’ho nascosto tra i vestiti di Giusto, lì in quella cassapanca».

«Di me non vi preoccupate?», protestò Leccacorvo.

Lo stesero sul materasso.

«Non si vede niente», disse Panvinio, e corse a prendere la pietra focaia per accendere il fuoco nel camino, che sarebbe servito per le candele e per riscaldare l’ambiente. Tornò poco dopo portando anche una bottiglia e un coltello. Poi si sedette e cominciò ad armeggiare.

Mentre la pietra focaia ticchettava sull’acciarino, Leccacorvo chiese di Ariel e Sara.

Raphael evitò di dargli la brutta notizia. Non era di sconforto che Leccacorvo aveva bisogno adesso, ma di fiducia e spirito combattivo. Anche se la ferita non era mortale, Raphael aveva visto uomini più forti di lui lasciarci la pelle per molto meno. «Devi bere», gli disse.

Panvinio gli indicò una brocca d’acqua sul davanzale della finestra, accanto al letto. Nel frattempo aveva già acceso il fuoco nel camino e raccolto le candele tutt’intorno, pronte per essere trasferite sul candelabro ad asta, e ora si stava sfilacciando una manica del saio. «Dobbiamo controllare la ferita», disse mettendo il filo che ricavava dalla veste in una terrina con del liquido che aveva versato dalla bottiglia recuperata in cucina. «Potrebbe essere necessario cauterizzarla».

«Perdo molto sangue?»

«Solo qualche goccia», lo rassicurò Raphael.

«Grazie a Dio», sospirò Leccacorvo. Bevve un lungo sorso d’acqua fresca, poi abbandonò la testa sul guanciale. «Tu, frate, sai come si cura una ferita da taglio?»

«L’ho visto fare nell’infermeria del convento».

«Visto fare?»

«Non è difficile».

«Ne sei sicuro?»

«Servono soltanto un ferro pulito e arroventato, un ago da cucire, del filo lavato nel liquore, e qualche grido da parte tua».

«Allora cercherò di non deluderti».

Panvinio accese le candele e si avvicinò con il candelabro in pugno, dentro una bolla di luce ambrata. «Vediamo», disse illuminando la gamba di Leccacorvo. Ispezionò attentamente il taglio. Era corto, all’incirca un pollice, ma profondo. Fortunatamente la lama era ben affilata e la pelle non era stata slabbrata, cosa che avrebbe reso più difficile eseguire la sutura. Impossibile, però, dire se avesse toccato l’osso. Il frate non fece commenti. Tornò al camino e mise la punta del pugnale sulla fiamma; con calma, preparò ago e filo.

«Saresti così gentile da scendere in cantina», disse Leccacorvo a Raphael, «e prendermi la bottiglia di grappa che trovi nella cassetta accanto all’orcio dell’olio?»

«Certo». Gli parve di vedere un ghigno affiorare sulle labbra di Leccacorvo.

«Ti ringrazio».

Ora Raphael ebbe l’impressione che gli stesse strizzando un occhiolino.

«Torna prima che il ferro sia diventato rosso».

Di nuovo quello strano sorriso, in un volto reso cangiante dal dolore.

«Vado», gli disse. Senza esitare, si alzò dal bordo del letto e andò a esaudire la sua richiesta portandosi dietro una delle candele.

Si precipitò giù dalla scala, varcò la porta a sinistra, attraversò la sala da pranzo, entrò in cucina, diede una rapida occhiata alla porta del cortile, notando i segni dell’effrazione, il vetro rotto nel telaio, i frammenti per terra, poi si diresse a colpo sicuro verso la porticina nell’angolo. Aprì il chiavistello facendo scivolare la sbarra, spinse l’uscio e scese i gradini, sapendo perfettamente che erano di legno ed erano sette.

Conosceva molto bene il posto e avrebbe potuto trovare la bottiglia di grappa accanto all’orcio dell’olio anche a occhi chiusi.

Però, non appena allungò il braccio con la candela e fece luce nel seminterrato, sussultò come se avesse scoperto di trovarsi da qualche altra parte.

In un sogno, forse.

O in un delirio.

Si avvicinò, con cautela.

Era troppo bello per essere vero. Troppo vero per poterne dubitare.

Un tremito gli attraversò la schiena, e sentì le labbra che si aprivano, una risata incredula che gli sgorgava dal petto.

Quel vecchio lupo, quel grand’uomo di Leccacorvo era riuscito a catturare l’assassino della croce di sangue. E lo aveva incatenato mani e piedi a uno dei tozzi e bassi pilastri di pietra che sorreggevano la volta a crociera, usando catene, manette e ceppi da prigione, cimelio della sua onorata carriera di birro.

L’uomo, il verme nero vestito da prete, portava i segni dei pugni di Leccacorvo sulla parte sinistra del volto, ma era sveglio e cosciente. Scuro di capelli e di carnagione, occhi ravvicinati sul naso adunco, bocca larga, collo tozzo. Seduto a terra con le gambe incrociate, le mani all’altezza delle spalle nella posizione di chi si arrende, faceva baluginare gli occhi verso la candela che gli si avvicinava. «Messer Dardo», disse.

L’accento era piemontese, o comunque del Nord Italia, la voce viscidamente calda e mansueta.

Per la seconda volta in poche ore, Raphael pregò. Non gli piaceva contrattare con il Creatore, però pensò che la richiesta che aveva da fargli ora fosse accettabile, per un Dio benevolo.

“Ti supplico, dammi la forza di non ucciderlo. Non subito”.