Capitolo XXXVIII
Al calar della sera avevo già sulla scrivania due rapporti preliminari che mi permettevano, a priori, di confermare il mio sospetto che il delitto di Council Grove era stato opera di un orribile imitatore. Non solo il cadavere era stato trovato in un luogo diverso (che già era significativo); inoltre, sebbene fosse nudo, presentava resti biologici, probabilmente liquido seminale, e il corpo non era stato lavato minuziosamente. Risultava anche quantomeno curioso che fosse stato portato sulla riva del lago, non in un fossato sommerso dalla pioggia. La cosa certa era che in quella zona non era caduta una goccia d’acqua negli ultimi quattro giorni.
- Jim, questo non combacia assolutamente con il modus operandi con cui abbiamo a che fare qui – commentai, agitando in aria vari fogli in cui lui e Mark avevano trascritto tutto ciò che erano riusciti a scoprire in appena un’ora.
Il detective Worth si sfregò il viso, che mostrava una barba incolta, sicuramente risultato di giornate estenuanti in cui l’ultima cosa che preoccupava quel brav’uomo era curare il proprio aspetto.
- Ha ragione. Ma ora cerchi di convincere di questo la stampa nazionale e la gente di Topeka. Stanno collegando tutti gli omicidi.
- È normale. Mancano dati, agli uni e agli altri. Siamo avanti a loro. Un tizio disturbato ha seguito le notizie questi giorni e ha voluto attirare l’attenzione nel modo peggiore: commettendo un’atrocità.
- Ethan, è possibile che sia lo stesso soggetto, ma che questa volta qualcosa abbia interrotto il suo lavoro e non abbia avuto il tempo o la possibilità di fare le cose al meglio.
Negai con convinzione. Era una possibilità che mi sembrava insostenibile, e che inoltre non volevo considerare.
- No, no e no. Ho bisogno di maggiori informazioni sul delitto di Council Grove, ma le dico già che ci troviamo davanti a una persona disorganizzata, molto diversa da quella che abbiamo conosciuto qui. Il nostro uomo migliorerà in ogni nuovo omicidio, se continuerà ad agire; al contrario, se non prendono quello di Council Grove, e in fretta, finirà quasi per denunciarsi da solo. Qualcuno lo prenderà con le mani nel sacco.
La nostra conversazione fu interrotta dalla sgradevole vibrazione del mio cellulare. Appena vidi sullo schermo il nome della persona che mi stava chiamando, mi sentii affogare.
- Peter...
- Ethan, mi hanno appena passato una richiesta inviata da Topeka. Mi è arrivata attraverso il nostro ufficio di Kansas City, come sa non ne abbiamo altri nello Stato del Kansas. Richiedono uno specialista in crimini violenti e omicidi seriali, le suona?
Il tono di voce di Wharton suonava terribilmente nitido e duro attraverso la linea.
- Sì, l’abbiamo saputo stasera e ci sto già lavorando, ma non mi sono ancora messo in contatto con loro. Non sapevo avessero richiesto la collaborazione dell’FBI.
- La prego di avvicinarsi a Topeka domani e di controllare ogni informazione relativa a questo nuovo omicidio. Qui sono già nervosi, son sicuro che si occuperà della situazione.
- Lo farò, signore. Ma non ha niente a che fare con gli omicidi su cui stiamo indagando qui a Jefferson.
- Non le sembra un tantino affrettato emettere giudizi di valore senza aver nemmeno studiato il caso?
- È che lo sto già facendo da un po’.
Un lungo silenzio seguì le mie parole. Ogni secondo senza sentire la voce del mio capo divenne eterno. Entrambi, sebbene non fosse ancora stato reso esplicito nella conversazione, sapevamo bene che si era scatenata una tormenta, e di quelle grosse.
- Sì... Immagino che ufficiosamente...
- È così.
- Sa che non avrà più solo la stampa tra i piedi, vero? Questa faccenda, da questo momento, è di interesse nazionale.
- Ne sono certo, ma probabilmente la stessa stampa ha giocato un ruolo chiave in questa disgrazia. Non voglio incolparla direttamente, ma ha agito in modo estremamente irresponsabile.
- Si spieghi meglio, per favore.
- Credo che ci troviamo di fronte a un copycat.
- Ne è sicuro?
- Quasi al 100%. Il modello differisce in alcuni aspetti fondamentali. Potrò confermarle questa ipotesi domani, quando andrò a Topeka.
- D’accordo. Ethan, sta avendo un po’ di sfortuna con tutta questa vicenda, ammettiamolo, ma proprio per questo deve agire più cautamente che mai. Lei è un uomo intelligente, confido nelle sue capacità.
- Peter...
- Sì?
- Ho bisogno che metta un freno alla gente di Topeka. Non voglio che si immischino nel mio caso.
Sentii la respirazione agitata di Wharton all’altro capo del telefono. Ero sicuro che i suoi sbuffi stavano mettendo alla prova la resistenza dei vetri del suo ufficio.
- Il suo caso? Lei ha perso completamente la testa! Le ricordo che è un agente speciale dell’FBI, dell’Unità di Analisi Comportamentale. Maledizione, siamo un organo consultivo, non abbiamo casi!
- Mi sono espresso male...
- No, no, Ethan, so bene cosa voleva dire. Crede di essere lo sceriffo della contea, o qualcosa del genere, ma non lo è. Si limiti a collaborare, non metta a repentaglio una carriera professionale che può essere, glielo assicuro, magnifica. Rifletta. Aspetto la sua chiamata domani, quando tornerà da Topeka.
Quando riattaccai, l’unica cosa che mi teneva legato a qualcosa di simile alla speranza era lo sguardo attonito e comprensivo di Jim.
- Ha sentito tutto? – domandai, quasi in modo retorico.
- Potrei mentirle, ma credo che non servirebbe a molto. Sì, era difficile non farlo.
- Come può vedere, mi son cacciato in un bel guaio.
- Ne usciremo, vedrà.
Apprezzai non solo l’uso del plurale usato da Worth, ma anche la delicata pacca sulla spalla che accompagnò le sue parole.
- Jim, lei cosa pensa?
- Qualcosa di simile a quello che pensa il suo capo. Non cerchi di adattare la realtà ai suoi desideri, Ethan. Credo che domani debba andare a Topeka con la mente sgombra, e lasciare che le relazioni, l’autopsia e le fotografie mostrino cosa ci troviamo realmente di fronte.
- Sì, capisco...
- Per quanto mi riguarda, trovo l’idea di un imitatore piuttosto singolare. È qualcosa che si vede nelle serie tv e nel film, ma lei sa meglio di me che è abbastanza poco frequente.
- Potrei citarle più di una ventina di casi negli ultimi anni, solo negli Stati Uniti. Da stragi nelle scuole ad omicidi seriali, e questo per non considerare i suicidi. Ci sono molte persone in giro prive di immaginazione ma a cui non manca la voglia.
La mia loquacità cercava di nascondere l’evidenza: sebbene ci fossero casi in abbondanza, alcuni ben noti, come quello del killer dello zodiaco, statisticamente rappresentavano una minoranza. Inoltre, gli omicidi di Jefferson non avevano avuto grosse ripercussioni sui mezzi di comunicazione, qualcosa di imprescindibile per scatenare l’azione degli imitatori.
- Lei sa perfettamente ciò che fa. Le consiglio solamente di agire con cautela e di non anticipare gli eventi.
- Ha ragione. La cosa migliore che possiamo fare è continuare a lavorare. Mi piacerebbe che domani mi accompagnasse a Topeka.
- Conti su di me.
Continuai ad analizzare i dati che arrivavano all’ufficio di Oskaloosa e, o io ero molto annebbiato e avevo perso completamente la ragione, o tutto faceva pensare che l’omicidio di Council Grove fosse opera di un copycat. Per quanto cercassi di essere obiettivo e allontanarmi dalla mia impressione iniziale, non riuscivo a trovare una sola prova che mi facesse cambiare idea. Se mi ero sbagliato, avrei subito un durissimo colpo, di quelli che lasciano conseguenze per il resto della vita.
Il sole era già tramontato quando salii sulla Spark. Misi la mano sotto il sedile e toccai la busta, sincerandomi che fosse ancora al suo posto. Attraversai Oskaloosa a tutta velocità e continuai sulla 59, in direzione di Valley Falls. Invece di attraversare il lago attraverso la 92, decisi che la cosa migliore per distrarmi fosse fare un giro lungo per raggiungere il mio obiettivo: Meriden. Tre quarti d’ora più tardi ero parcheggiato vicino al cimitero del paese, su Condray Street, un posto appartato e poco frequentato a quell’ora, e in cui la Chevrolet sarebbe passata inosservata. Ad ogni modo, sapevo che stavo giocando col fuoco. Ma ero fatto trasportare da un’attrazione irresistibile, e quasi senza sapere come, mi trovavo sul retro della residenza di Vera Taylor, con il cuore che mi batteva nel petto come se avessi finito di fare uno sprint di corsa. Rividi la sua bicicletta, abbandonata, come se mi stesse aspettando dalla mia ultima visita, e la sensazione di non dover scartare Vera dalla lista dei sospettati tornò a torturarmi. Qualche secondo dopo stavo bussando alla porta con le nocche. Dovetti insistere varie volte.
- Guarda chi si vede, il mio agente preferito. Sembri un cane impaurito, Ethan.
- Posso entrare? – domandai, senza alcuna voglia di rispondere al suo commento condiscendente. Forse aveva capito più di quanto potesse immaginare.
- Certo, anche se mi piacerebbe che mi avvisassi prima di venire a casa mia, anche se fosse solo per leccarti le ferite.
Entrai nella casa di Taylor e per la prima volta l’odore penetrante di incenso mi risultò piacevole. Era denso ed esagerato, come sempre, ma ora lo associavo a dei bei ricordi, e questo aveva cambiato tutto. Da qualche parte del salone, delle casse riproducevano Goodnight Moon di Shivaree, che mi fece definitivamente sommergere da un ambiente quasi onirico in cui volevo lasciarmi catturare. Lo sguardo viola di Vera fece il resto. Per un’ora mi fusi con le labbra e con la pelle di quella donna affascinante, alla quale mi univa qualcosa di quasi selvaggio; qualcosa che sapevo non avere niente a che fare con l’amore, ma che mi soggiogava in modo potente e irresistibile. La desideravo con un’intensità che andava oltre il razionale e che mi sembrava tanto inspiegabile quanto piacevole. Ci parlavamo appena, ma comunicavamo ugualmente attraverso gli occhi, come se lei riuscisse a entrare nella mia anima, come se la mia anima avesse bisogno che lei percorresse gli spazi più oscuri e poco frequentati delle sue viscere.
Lasciai Meriden scappando di soppiatto, così come ero arrivato, con la speranza che nessuno mi avesse visto. Questa volta, già più calmo, tornai a Oskaloosa prendendo la 92. Come sempre, la visione del lago, la cui superficie a quest’ora era diventata enigmatica e ombrosa, mi confortò. Prima di entrare in casa misi la busta celeste in una cartella, e sperai che non ci fosse nessuno nel salone. Per fortuna fu così: c’era un appunto in cui i ragazzi mi dicevano che se mi andava, li avrei trovati a cenare a farsi qualche birra nella tavola calda. Ma io avevo poco tempo da perdere.
Strappai la busta e ne estrassi un foglio piegato che nascosi sotto il cuscino del mio letto, senza leggerne il contenuto. Avevo ben chiaro cosa anticipare a Clarice Brown, e non volevo che un nome scarabocchiato su un pezzo di carta potesse influenzarmi. Sapevo che ciò che stavo per fare era un’ulteriore stupidaggine, che si andava a sommare alla concatenazione di sciocchezze che il mio cervello generava da giorni. Si poteva quasi dire, dal mio arrivo nello Stato del Kansas.
Brevemente, scrivendo a mano, anticipavo due cose a Clarice, che equivaleva quasi a farlo direttamente alla CBS: da un lato, la informavo che Davies restava in cella per la sua sicurezza, ma che era stato quasi del tutto scartato dalla lista dei sospetti per gli omicidi di Clara Rose e Donna Malick; dall’altro, le suggerivo di anticipare al suo pubblico che il nuovo omicidio avvenuto a Council Grove era quasi sicuramente opera di un copycat killer. Terminavo la mia lettera con una sorta di supplica: la pregavo di disfarsene, bruciandola, se possibile. Probabilmente la mia ingenuità sfiorava vette mai raggiunte prima da nessun membro dell’FBI, ma per come stava andando la partita, pensavo di non avere alternative.
Prima di scendere le scale mi assicurai che Liz, Tom e Mark non fossero rientrati. Poi uscii, girai intorno alla casa e lasciai la busta celeste nel luogo prestabilito. Pregai il cielo che nelle poco più di due ore che restavano prima che la giornalista passasse di lì a raccoglierla, nessuno la vedesse. Sebbene il biglietto non fosse firmato, la calligrafia e l’informazione non lasciavano spazio a dubbi: solo io potevo essere l’autore di quel messaggio.
Tornai velocemente nella mia stanza, mi feci una doccia, mi misi il pigiama e mi infilai nel letto. Passai venti minuti a fissare il soffitto: davanti ai miei occhi, sulla sua vernice madreperlata, scorrevano le immagini di una giornata movimentata e ricca di emozioni. Ero esausto e volevo, sinceramente, incontrare mia madre e realizzare la visita a Mariposa. Non lo dovevo a mio padre, lo dovevo a lei. La mia respirazione agitata si rilassò quando ricordai il tocco e l’odore della pelle di Vera Taylor. L’affascinante contrasto dei suoi occhi malva con la sua chioma nera era qualcosa che già in quel momento sapevo avrei ricordato per il resto della mia vita.
Quando finalmente ritenni di essere abbastanza tranquillo per accettare una verità che in ogni caso mi sarebbe sembrata quantomeno ingrata, mi voltai ed estrassi il foglio che poco prima avevo nascosto sotto il cuscino. Lo aprii lentamente e davanti a me comparve un nome, scritto con una grafia elegante e sicura, che solo una giornalista può avere. Lo ripiegai con cura e lo riposi nello stesso nascondiglio. Quella serenità era pura finzione, perché non riuscii più a chiudere occhio per tutta la notte.