Capitolo XIV
Io e lo sceriffo Stevens eravamo appena rimasti soli nella sala riunioni dell’ufficio di Oskaloosa. Le lunghe ricerche condotte dalla mia squadra e dal suo vice nella zona del fossato dove erano stati trovati i corpi non avevano prodotto alcun risultato. Avevamo la sensazione di non avere in mano niente, ed eravamo tormentati da un’idea terribile. Fu lui ad avere il coraggio di esprimerla:
- Abbiamo bisogno di piste, e sembra che fino a quando non tornerà a colpire non farà passi falsi.
Sedevo leggermente reclinato sulla sedia davanti alla parete coperta di sughero su cui potevo vedere le diverse piantine della contea e soprattutto le foto di Clara e Donna esattamente come erano state trovate. Quest’ultima continuava a supplicarmi con i suoi occhi aperti, come se non mi stessi realmente sforzando di provare a catturare la bestia che aveva strappato il suo futuro dalle radici.
- Non possiamo restare con le mani in mano ad aspettare. C’è in ballo la vita di un’altra ragazza…
- Io non ho detto questo. Ma ci troviamo di fronte a un tipo furbo, veramente furbo. Si è dato un bel daffare e conosce il nostro modo di lavorare. A volte penso perfino che…
Clark non volle terminare il pensiero. Negò con la testa, come se scuotere il cranio potesse far scivolar via quell’idea, come l’acqua da un capello bagnato.
- Qualche poliziotto? – chiesi, in modo quasi retorico.
- Non lo so, Ethan. Ma conosce il nostro modo di agire, di investigare. È troppo attento a ogni dettaglio. Ma come tutti diventerà troppo sicuro, e allora commetterà degli errori. Non voglio aspettare quel momento, però. Non voglio più andare in qualche casa con il cappello in mano a comunicare a dei genitori che la figlia non tornerà mai più.
Il silenzio si impossessò di nuovo della stanza. Mi sentivo sempre più a mio agio in questi spazi di mutismo che si creavano tra me e lo sceriffo. Stabilivamo una strana comunione, attraverso la quale i nostri pensieri sembravano alimentarsi a vicenda, come se avessimo dei poteri telepatici. In realtà si trattava di semplice buonsenso impiegato nello stesso momento di fronte alle stesse identiche prove.
Mi alzai e mi avvicinai alle fotografie, per vederle più da vicino. Non solo gli occhi di Donna volevano dirmi qualcosa, ma intuivo che in quelle foto c’era un messaggio nascosto, che andava oltre l’evidenza.
- Mi piacerebbe ricontrollare tutte le foto disponibili insieme al detective Worth. C’è qualcosa che ci sta sfuggendo, e non so bene cosa, ma lo percepisco ogni volta che le guardo – spiegai, forse parlando come un ciarlatano da quattro soldi che in realtà non ha la più pallida idea di cosa stia dicendo.
- Mi sembra un’ottima idea. Domani lo convocherò qui stesso così potrete darci dentro. Stasera, invece, vorrei che mi accompagnasse a far visita a qualcuno, se non le dispiace.
Lo sceriffo Stevens si era alzato e ora mi stava di fronte. Dedussi che, a suo avviso, la sua proposta non sarebbe stata di mio gradimento.
- Certamente. Sa che sono al suo servizio.
- Allora non perdiamo altro tempo, sicuramente Patrick ci starà aspettando già da un pezzo.
Seguivo Clark verso il SUV parcheggiato proprio davanti alla porta degli uffici. Era chiaro che quell’uomo astuto e perspicace continuava a pensare che lo stesso farabutto che aveva ucciso Sharon si era occupato, 17 anni dopo, di Clara e Donna. Io non scartavo quell’ipotesi, ma la consideravo abbastanza improbabile.
Attraversammo metà paese e girammo a sinistra all’altezza del Tribunale del Distretto, allontanandoci dalla città attraverso la statale 92, in direzione del lago.
- Dove siamo diretti? – domandai, piuttosto perplesso.
- Ad Albion, nella casa in cui risiedeva la famiglia Nichols fino a quando il suo ultimo membro, Patrick, ha deciso di trasferirsi a Oskaloosa.
Ci mettemmo solo qualche minuto ad arrivare ad Albion. Era la prima volta che visitavo quella piccola località. Le case erano sparpagliate e avevano ampi giardini, un po’ trasandati, che le tenevano quasi nascoste dietro i cespugli. Erano in prevalenza di legno, ma ce n’erano anche di più umili: prefabbricate in lamiera, come quelle che si possono trovare in alcuni campi caravan. Parcheggiammo nell’incrocio con un lungo sentiero sterrato che si addentrava fino a una casa graziosa di due piani dipinta di celeste. Vicino alla casa c’era una mountain bike che doveva costare il doppio del mio stipendio mensile e un uomo maturo seduto sulle scale dell’ingresso: era Patrick Nichols.
- Ciao Patrick. Lui è Ethan Bush, l’agente di cui ti ho parlato. È un grande aiuto per noi, è molto più in gamba di quanto immaginassi – disse ironico lo sceriffo Stevens.
- Ci conosciamo già, Clark – rispose Nichols, alzandosi e tendendomi ugualmente la mano. – Si potrebbe dire che gli ho quasi salvato la vita.
Stevens rimase a guardarmi alquanto sorpreso. Io annuii lievemente, sforzandomi di sorridere con gentilezza.
- L’ho incontrato mentre correvo e mi ha permesso di bere dalla sua bottiglia – spiegai.
- Beh, Patrick è fatto così. Molto raramente lo vedrà al volante della sua Lexus nuova di zecca. Lo vedrà in sella alla sua bici, nuotare nel lago, anche in pieno inverno e, soprattutto, correre.
- Bisogna aver cura di sé, Clark! Abbiamo quasi la stessa età e, appena sei arrivato, son riuscito a sentir scricchiolare le tue ginocchia da qui – disse Patrick, prendendolo un po’ in giro.
- Bene, ora veniamo al motivo della nostra visita – disse lo sceriffo, facendosi molto più serio. – Mi piacerebbe che Ethan desse uno sguardo alla camera di Sharon.
Il signor Nichols rimase a osservarmi a lungo. Sembrava stesse valutando la mia capacità di riuscire ad avere successo dove molti altri prima avevano fallito.
- Sai che mi fa molto piacere che vi prendiate questo disturbo… - disse dirigendosi verso la porta d’ingresso e aprendola con le chiavi.
- Te ne siamo molto grati – mormorò Stevens con profondo rispetto.
- Chi è grato sono io, e lo sai bene – rispose Patrick, facendosi da parte per liberarci il passaggio verso l’interno della casa. – Se per voi va bene, vi aspetterò qui fuori. Tu conosci bene la casa…
Lo sceriffo sollevò leggermente il cappello in segno di rispetto e attraversò il pianerottolo. Io invece restai a contemplare il viso di quell’uomo che dopo 17 anni ancora non era in grado di far rimarginare le ferite che un fatto così brutale lascia nell’anima di un padre.
- In realtà mi piacerebbe che ci accompagnasse durante la visita – dissi, quasi in un sussurro.
Patrick guardava oltre l’orizzonte, verso un punto molto lontano dal luogo in cui ci trovavamo. Immaginai che stesse navigando nel passato, in uno di quegli spazi reconditi che la memoria si ostina a proteggere dall’oblio.
- Dalla morte di Amanda, mia moglie, non ho più messo piede in questa casa. Sono passati sette lunghi anni da allora. Una volta al mese faccio un salto qui e apro la porta a una simpatica ragazza che vive qui vicino che la pulisce e da un’occhiata per controllare che nessun delinquente sia entrato a rubare o a occupare la casa – sussurrò. Poi si girò per guardarmi in faccia. – Ma se è indispensabile entrerò con lei e farò ciò che vorrà.
Ci misi qualche secondo a reagire. Io non ero stato in grado di superare la morte di mio padre. Continuavo a pagare l’abbonamento del suo cellulare, come se ciò potesse un giorno restituirmelo vivo. Chissà il dolore inimmaginabile che doveva provare quell’uomo a cui avevano portato via niente meno che una figlia.
- Al momento non è necessario. Se qualcosa attira la mia attenzione me lo appunto – dissi, mostrandogli la mia piccola Moleskine appena inaugurata per quel caso. – Una volta terminato cercherò di chiarire i dubbi qui fuori con lei.
- La ringrazio – rispose, grato.
Patrick si allontanò dall’ingresso e si perse lungo il sentiero sterrato, in direzione della strada principale. Camminava pesantemente, come se avesse le gambe legate per le caviglie e riuscisse a malapena a muoverle. In quel momento sentii una mano sulla spalla.
- Ethan, iniziamo? – chiese lo sceriffo Stevens, che probabilmente aveva sentito la nostra conversazione.
- Sì, certo.
Appena entrai scoprii una casa arredata secondo lo stile di fine anni novanta. Era impeccabile, come se fosse stata appena costruita. Per me fu uno shock: era come viaggiare nel passato, nella casa dei miei genitori, quando non ero più che un ragazzino.
- È esattamente come…
- Sì, amico. Succede più spesso di quanto possa immaginare, soprattutto quando le perdite si sono verificate in circostanze tragiche. E ancora di più quando restano ancora degli aspetti importanti da risolvere…
Clark aveva perfettamente ragione. Le famiglie in cui qualcuno è scomparso, o è stato ucciso senza che venisse trovato l’assassino, sviluppano un trauma profondo che gli impedisce di riposare in pace. Solo quando la persona scomparsa viene localizzata, viva o morta, o l’assassino consegnato alla giustizia, si ritrova la meritata quiete. E quel trauma porta a fermare il tempo, a lasciare un’immagine congelata di tutto ciò che ha avuto a che fare con la persona cara.
Lo sceriffo salì le scale che si trovavano di fronte alla porta d’ingresso, ma io non lo seguii. Preferii curiosare al piano terra prima di visitare la camera di Sharon. Entrai nell’ampio salone, elegante, con un grazioso camino e un televisore con schermo a tubo catodico da 32’’, che dava all’intera stanza un aspetto antiquato. Sul camino giacevano diverse cornici di foto, con ritratti della famiglia, sorridente. C’erano anche vari trofei di atletica a ricordare che Sharon era stata una campionessa nella corsa. Proseguii in direzione della cucina: semplice, dallo stile classico, con i mobili tipici di legno di rovere che oggi non usava più nessuno. Aprii il frigorifero e con mia grande sorpresa lo trovai in ottimo stato, funzionante e con degli alimenti freschi al suo interno. L’ossessione del signor Nichols andava più in là di quanto immaginassi.
Cercai di uscire nella veranda sul retro, ma la porta era chiusa a chiave. Attraverso il vetro riuscii a vedere ciò che un tempo doveva essere stato un orticello, ormai abbandonato. Tornai verso le scale percorrendo un corridoio stretto che collegava la cucina all’ingresso. A metà strada vidi una porta, che immaginai conducesse a una dispensa o a un ripostiglio ricavato dal sottoscala, chiusa a chiave, come quella della veranda sul retro.
- Saliamo? – chiese Stevens, che aveva aspettato il mio ritorno con una certa impazienza.
- Sì, volevo solo dare uno sguardo.
Seguii lo sceriffo, che mi indicò la porta della camera padronale, sulla destra; del bagno, di fronte; e infine quella di Sharon, sulla sinistra. Si fermò proprio lì davanti.
- Ho già ispezionato questa stanza molte volte. Prima come agente semplice, poi come vice sceriffo e infine come sceriffo. Non volevo che Patrick mi vedesse, ha già abbastanza a cui pensare. Ma Ethan, spero che capisca che per me è sempre più difficile attraversare questa porta. Credo sia importante che lei lo faccia per la prima volta, ma mi piacerebbe restare qui mentre esamina la stanza della ragazza.
La voce logora di Clark evocava una vecchia sconfitta. Probabilmente si colpevolizzava per non essere stato in grado, in quasi vent’anni, di prendere il criminale che aveva ucciso una delle ragazze della sua comunità. Era una spina piantata nelle viscere, di cui non riuscivo a comprendere il profondo dolore.
- Lasci stare. Me la caverò.
Entrai nella camera di Sharon ed ebbi la sensazione di trovarmi in un santuario. Lo avevo visto in diversi video o fotografie di altre vittime in decine di casi: i genitori lasciavano le stanze dei propri figli esattamente com’erano l’ultimo giorno che li avevano visti vivi. Dal punto di vista psicologico, era un grave errore. Probabilmente qualcuno l’aveva detto ai Nichols: gli avranno suggerito con delicatezza che la cosa migliore fosse rivoluzionare la stanza, o perfino cambiare casa, contea o Stato… Ma in pochi ascoltavano quando si trattava di un figlio, specialmente se era l’unico. Ero commosso. Una cosa era studiare un caso a Stanford o nella aule di Quantico, ma trovarsi all’interno di quella stanza piena di oggetti e ricordi di una giovane che era stata selvaggiamente assassinata era cosa ben diversa.
Il celeste chiaro predominava sugli altri colori: nell’armadio, nella scrivania, nelle cornici dei quadri, nella testiera del letto… Il copriletto, invece, era di un rosa pallido abbastanza grazioso, con dei pois di un tono leggermente più scuro. Sembrava un po’ infantile per una giovane che aveva appena compiuto 18 anni, ma si tratta di quell’età in cui si è grandi, ma al tempo stesso ancora bambini.
Controllai i cassetti, le foto e altri ricordi con il maggior tatto possibile, come se qualsiasi gesto maldestro potesse turbare l’anima di Sharon, i cui resti riposavano da quasi due decenni nel vicino cimitero di Meriden. Ricordo che avevo già trascorso un bel po’ di tempo nella stanza quando mi accorsi che il sole stava tramontando: mi trovavo lì da almeno un’ora e mezza. Stavo per uscire quando notai una scatola di cartone decorata con diversi ritagli di riviste, che fino a quel momento non aveva attirato la mia attenzione. La aprii e trovai alcune lettere. Leggermente imbarazzato, pur sapendo che faceva parte del mio lavoro, le lessi tutte. Lettere dirette a un paio di amiche in cui non faceva altro che spettegolare su alcuni ragazzi dell’Università del Kansas o sui vicini di Meriden, Albion o Ozawkie, che considerava dei bifolchi. Mi misi a riporre con attenzione le lettere nella loro scatola quando questa mi sfuggì di mano e cadde in terra, producendo un rumore sordo che mi lasciò perplesso. Intuii ciò che poteva significare, e spinto dalla foga investigativa recuperai la scatola con agilità per esaminarla più attentamente. Tastai il fondo interno e poi colpii la stessa parte, ma dall’esterno. Non avevo alcun dubbio: Sharon, o qualcun altro, aveva creato un doppio fondo in quella scatolina che per poco non sfuggiva al mio esame. Aiutandomi con un semplice tagliacarte che la ragazza conservava in un portapenne, iniziai a separare cautamente il presunto fondo di cartone dai lati a cui era stato incollato. Mi ci volle circa un quarto d’ora per finire quel compito, quasi da lavoretto delle elementari, per il quale non ero assolutamente preparato. Sentivo una specie di ardore nello stomaco, chiedendomi se lo sceriffo Stevens potesse entrare da un momento all’altro. Ero diventato un volgare ladruncolo che viola senza rimorsi i segreti più preziosi di una ragazzina innocente. Finalmente riuscii a separare il cartoncino che aveva nascosto una manciata di fogli giallo pallido, perfettamente piegati, per quasi vent’anni. Senza pensare alle possibili conseguenze delle mie azioni, mi misi i fogli, così com’erano piegati, in una delle tasche dei pantaloni e restituii il resto delle lettere alla scatola, rimettendola nel posto in cui l’avevo trovata. Subito dopo uscii precipitosamente dalla stanza.
Clark, che aspettava appoggiato allo stipite della porta del bagno, si spaventò vedendomi irrompere in maniera così improvvisa.
- Hai trovato qualcosa di interessante?
- No… Beh, più o meno ciò che mi aspettavo.
- Vuol dire che abbiamo sprecato la serata – sospirò, come parlando tra sé.
- Assolutamente no. Sono davvero soddisfatto di questa visita. Non si può sapere se in futuro riuscirò a unire i puntini grazie a quello che ho visto in questa stanza e se ciò sarà fondamentale per la risoluzione del caso – risposi, cercando di sollevare lo sceriffo dalla sua desolazione.
Stevens mi rivolse un mezzo sorriso di approvazione, come a volermi dire: ragazzo, non sono un poppante, non sia accondiscendente con me. Scendemmo le scale e uscimmo di casa in cerca di Patrick Nichols. Ci aspettava vicino all’Explorer Interceptor.
- Tutto bene?
- Sì, Patrick. Ethan mi ha detto che questa visita è stata molto importante, e tutti e due ti siamo molto riconoscenti per averci concesso la tua collaborazione – si affrettò a rispondere lo sceriffo, prima che io potessi aprire bocca.
Salimmo sul SUV. Desideravo fuggire di corsa da quel posto e rifugiarmi nella mia stanza della casa che ci ospitava a Oskaloosa. Stevens aveva iniziato a svoltare per prendere la strada dissestata quando Patrick improvvisamente bussò sul tettuccio. Girò intorno alla macchina e si avvicinò al mio finestrino, chiedendomi a gesti di abbassarlo. Premetti il pulsante che permetteva di far scivolare il vetro verso le viscere della portiera, mentre il cuore mi batteva con pulsazioni così violente che riuscivo quasi a sentirlo colpire lo sterno.
- Ethan, volevo proporle una cosa…
- Sì? – domandai, più spaventato che curioso.
- Quando vuole possiamo andare ad allenarci insieme. Mi farebbe bene avere un po’ di compagnia mentre corro e a lei non farebbe male un allenatore maturo in buona forma – disse, mentre mi rivolgeva un sorriso ampio e sincero.
Mi sentii così sollevato, in effetti nella mia immaginazione erano passate decine di possibilità ma nessuna così candida e evidente, che annuii subito con decisione, come se avessi aspettato quella proposta per tutta la vita.
- Patrick, mi farebbe molto piacere. Ma mi raccomando, non dimentichi di portare con sé delle bottigliette in più per quando avrò bisogno del suo aiuto.
Lo sceriffo Stevens salutò di nuovo il signor Nichols e diede gas all’Interceptor, con mio grande sollievo. Era già calata la notte sulla contea di Jefferson, e la vegetazione si confondeva con l’oscurità. Tuttavia, quando attraversammo il lago sulla 92, di ritorno a Oskaloosa, l’immagine delle acque tranquille ed enigmatiche che riflettevano le luci della riva mi risultò confortante. Ero a pezzi, veramente sopraffatto dalle mille emozioni vissute durante la giornata. Il finestrino era ancora abbassato e sentii l’aria fresca e umida colpirmi il viso e desiderai che quel breve tragitto non finisse mai. Era una sensazione che mi ricordava i viaggi da San Francisco verso le spiagge del sud della California nella macchina di mio padre. Quando eravamo sul punto di arrivare, desideravo sempre che il viaggio non finisse così presto. Fu allora, in quello stato di felice fantasticheria, che muovendomi dal sedile della macchina sentii contro la gamba i fogli piegati che avevo rubato della casa dei Nichols. L’allegria svanì in un attimo e mi sentii l’essere più miserabile e spregevole sulla faccia della terra.