Capitolo XXXV

 

Arrivai nell’ufficio dello sceriffo ancora turbato dall’affascinante loquacità della giornalista della CBS. Per fortuna non c’era alcun reporter all’ingresso.

Tenni una riunione di due ore con Bowen e Worth, aggiornandoli sugli ultimi progressi (seppur riservandomi alcune questioni, non perché dubitassi di loro, ma degli uomini che avevano sotto la loro supervisione) e stabilendo tabelle di marcia per i giorni seguenti.

- Domani voglio interrogare Duane Malick insieme a Liz, come abbiamo fatto a suo tempo con Tim Nolan. Mi piacerebbe che andaste da lui e gli proponeste di presentarsi qui volontariamente.

- Perciò non c’è bisogno di chiedere un’ingiunzione o di presentare alcuna accusa – precisò Ryan.

- Esattamente. Voglio che venga qui rilassato. Abbiamo molti sospetti e indizi. Il suo comportamento nel fossato vicino al lago e ciò che ha scoperto Liz dalla sua ex moglie lo hanno posto al centro dei nostri sospetti, ma non voglio che sia prevenuto.

- E se rifiuta di collaborare?

- Se rifiuta… In quel caso gli indizi acquisiranno maggiore forza, allora andrete a parlare con il giudice e lo convocheremo a testimoniare con la forza.

- D’accordo.

Bowen lasciò la sala in cui ci trovavamo per dare istruzioni ai suoi ragazzi, lasciandomi da solo con Worth. Era una situazione imbarazzante, ma stimavo veramente quel detective integro e onesto. Le mie scuse telefoniche non erano sufficienti, e ora che ce l’avevo davanti l’avevo capito più che mai.

- Non sempre l’istinto gioca a mio favore.

- Non pensi più alla storia di Davies, d’accordo? Inoltre, so bene che non l’ha ancora cancellato del tutto dalla lista dei sospettati.

- Come lo sa?

- Perché inizio a conoscerla, Ethan. La ammiro, e provo davvero invidia per lei. Ma non si lasci trascinare da quella testa straordinaria che ha e ascolti i consigli di persone meno intelligenti, ma dallo spiccato buonsenso, come me.

Gli occhi espressivi di Jim si erano fermati a guardare intensamente, senza battere ciglio, i miei. Non era uno sguardo di sfida, anzi, era carico d’affetto e ammirazione.

- Ultimamente sto sentendo molti consigli del genere – borbottai, come se parlassi tra me e me.

- Ci sarà un motivo. Ci aspettiamo tutti molto da lei. Abbiamo la certezza che sia l’unico davvero in grado di risolvere questo rompicapo… se si lascia aiutare.

Ebbi l’impressione che quel tutti includesse, immancabilmente, lo sceriffo. Sicuramente lui e Bowen parlavano in segreto con Stevens, e magari lo tenevano a grandi linee al corrente di come procedevano le indagini.

- Per quanto abbia voluto evitarlo, non c’è altra soluzione che accettare quell’aiuto. Specialmente se è il suo, Jim. Grazie.

- Ora, se non le dispiace, vado a lavorare. Mi ha assegnato molti incarichi.

Il detective Worth mi lasciò sommerso in un momento di riflessioni sconnesse che lottavano per farsi spazio nella mia mente. Mi alzai e restai ad osservare il grande pannello di sughero sui cui, rette da delle puntine, si ammassavano relazioni, analisi e decine di fotografie. I miei occhi, per l’ennesima volta, incrociarono quelli di Donna Malick, che sembrava valutarmi dalla sua immobilità pietrificata. Non ti deluderò, mormorai, come se potesse sentirmi.

La vibrazione del mio cellulare arrivò in tempo per salvarmi dalla disperazione più profonda. Era Patrick Nichols.

- Pronto?

- Dove si trova?

- In macchina, parcheggiato sul bordo della 59, proprio di fronte all’ufficio dello sceriffo.

- Sarò da lei tra un minuto.

Me ne andai dall’ufficio senza dire dove andavo, né con chi. Mentre Worth, Bowen, i loro ragazzi e tutta la squadra che Peter Wharton mi aveva permesso di portare da Washington, lavoravano instancabilmente senza nessun tipo di osservazione e senza mai avanzare una lamentela, io abbandonavo le mie funzioni e mi allontanavo per passare del tempo a fare dei giri, come un criceto, in una pista di tartan. La mia indisciplina, il mio egoismo e la mia stupidaggine non conoscevano limiti.

- È molto occupato? Distrarla è l’ultima cosa che vorrei. Possiamo rimandare a un altro giorno – disse Patrick appena mi accomodai sulla sua Lexus fiammante.

- Assolutamente no. Ho lasciato tutto in ordine. Ci vorrà poco, e ne ho bisogno per poter poi continuare a lavorare al 100%. Inoltre non mi perderei questo allenamento per niente al mondo. È arrivato il momento di dare una lezione a tutti i dilettanti dell’ora delle tartarughe – affermai, entusiasta.

- Allora non perdiamo neanche un secondo.

Ci separavano appena 30 minuti di macchina dal campus dell’Università del Kansas, ma avvertivo già un formicolio percorrermi i polpacci: tornavo ad essere un corridore vero, come lo ero stato molti anni prima. L’euforia che mi pervadeva annullava qualsiasi senso di colpa per aver abbandonato i miei colleghi di lavoro.

- Ha letto il giornale di oggi? – domandai, subito, per rendere più piacevole il breve tragitto.

- Sì. Ho visto che hanno attaccato la casa di Davies – rispose Nichols, con un tono di voce che mi sembrò piuttosto equivoco.

- Patrick, lei non sarebbe capace…?

Nichols ridusse la velocità per poter distogliere brevemente l’attenzione dalla strada e rivolgermi uno sguardo condiscendente.

- Mi creda, il giorno che lei troverà l’assassino di quelle ragazze, il mostro che ha messo fine alla vita della mia povera Sharon, sarà meglio che lo rinchiuda molto lontano da me. Io non avrei perso tempo a imbrattare la sua proprietà e a fare dei graffiti sulla porta. Le garantisco che quella non è opera di un padre. È opera di qualche vicino arrabbiato, o di qualche bullo, niente di più.

All’improvviso mi venne in mente Worth. Le parole di Patrick erano uscite dalle sue labbra senza quasi trasmettere alcuna emozione, ma risultavano ugualmente minacciose.

- Non si sa assolutamente se sia stato Davies il colpevole dei crimini. Di fatto, in questo momento l’unico motivo per mantenerlo dietro le sbarre è la sua sicurezza – dissi, commettendo un’imprudenza che andava a sommarsi a un cumulo che iniziava ad essere terribilmente grande.

- Lo so, Ethan.

- Da cosa lo sa? – domandai, perplesso di fronte alla sicurezza con cui si era rivolto a me.

- Ci stimiamo. Sono sicuro che il giorno che avrà la certezza di aver catturato il miserabile che ha ucciso Clara, Donna e mia figlia, sarò tra i primi a saperlo.

Nichols aveva aumentato la velocità e in lontananza si intravedeva la città di Lawrence. Alla mia destra scorreva una linea ferroviaria parallela alla strada e più in là il fiume Kansas; era un paesaggio incantevole e accogliente. Tuttavia non riuscivo a godermelo a causa della piega che aveva preso la conversazione.

- Pensa davvero che sia stata la stessa persona a uccidere tutte e tre le ragazze?

- Non ho alcun dubbio – rispose Patrick, asciutto.

- Io non ne sono così sicuro…

- Sarà meglio, per il bene di tutti e due, che cambiamo argomento. Siamo venuti qui per svagarci, per divertirci un po’ insieme; ne abbiamo bisogno entrambi. Inoltre, mi ha già avvisato di non poter parlare con me di alcuni aspetti legati all’indagine.

Annuii, e fui sollevato dal buonsenso mostrato dal mio compagno di corsa, che non smetteva di essere il padre distrutto a cui avevano brutalmente portato via la persona che più amava al mondo, e che avrebbe continuato ad amare per il resto dei suoi giorni. Io ero l’agente speciale che stava cercando di ridare un po’ di pace alla sua anima torturata da quasi due decenni. Era una relazione che non sarebbe mai dovuta arrivare così lontano, e la colpa di questo era solo mia.

Non ci rivolgemmo più la parola fino a che Nichols si fermò nell’ampio parcheggio di Allen Fieldhouse, l’impianto polivalente coperto dell’Università del Kansas, sede della squadra di basket dei Kansas Jayhawks.

- Vado a procurarle un pass perché possa entrare con me nel Memorial Stadium. Se vuole, nel frattempo, può dare un’occhiata in giro. Il campo dei Jayhawks è davvero impressionante.

Lasciai Patrick a occuparsi delle questioni burocratiche in un piccolo ufficio ed entrai nell’impianto polivalente. Un gruppo di ragazzi si stava allenando sotto la direzione di un tizio maturo, alto e aggressivo, che senza alcun dubbio tempo addietro era stato un giocatore professionista. Ma presto mi annoiai: il basket mi era sempre sembrato uno sport avvincente ma che non suscitava in me alcuna passione. Attraversai le tribune e uscii dalla porta secondaria dell’edificio. Arrivai fino a un piccolo parcheggio e scorsi dall’altro lato di una stretta strada quello che sembrava essere un campo in erba sintetica, anche se da dove mi trovavo non riuscivo a vederlo bene. Pensai che lì dovesse trovarsi la pista di atletica, e mi rivolsi a un giovane che stava parcheggiando la sua auto vicino a me.

- Scusa, è la prima volta che vengo in questo campus, è lì la pista di atletica?

Il giovane mi rivolse un sorriso ironico, come se lo stessi prendendo in giro, ma si accorse subito che la mia ignoranza era sincera.

- No, il Memorial Stadium è esattamente dall’altra parte, attraversando il parco. È venti volte più grande dell’Hoglund Ballpark, che è lo stadio di baseball.

Sentire quel ragazzo dirmi che si trattava del campo di baseball, mi provocò una fitta di profondo dolore nel petto, non potei evitare di pensare a mio padre.

- Grazie mille, e scusa la mia confusione.

Due minuti dopo mi trovavo seduto nella piccola scalinata a guardare le sessioni di allenamento degli universitari. Mentre li osservavo correre per le basi o colpire la palla con tutte le loro forze, mi accorgevo come le emozioni andavano via via accumulandosi nella mia gola, strangolandola, rendendomi quasi impossibile respirare. Alla fine non potei evitare di mettermi a piangere come un bambino; singhiozzavo come il fatidico giorno in cui mia madre, con gli occhi esausti per le troppe lacrime versate, mi disse che mio padre ci aveva lasciati per sempre, e che ora si trovava con Dio, in cielo, e che ci avrebbe aspettati lì con le sue enormi e potenti braccia aperte.

- Accidenti, ci ho messo venti minuti a trovarla!

La voce di Nichols, che gridava dal campo, mi strappò dall’incubo in cui mi ero infilato senza volerlo.

- Mi dispiace, avrei dovuto avvisarla.

Abbassai lo sguardo e Patrick capì subito che avevo pianto a dirotto.

- Che succede, Ethan?

- È una lunga storia, e non voglio rovinarle la serata raccontandogliela. Posso riassumerla in una frase: ho perso mio padre qualche anno fa e lui era un vero fanatico del baseball.

- In questo caso non c’è nient’altro da aggiungere.

Nichols mi prese per una spalla e quasi mi trascinò tra gli edifici fino a un parco straordinario. Al centro c’era il Potter Lake, il cui nome mi sembrava sempre piuttosto buffo. Poco dopo, non appena attraversammo un boschetto, un’imponente costruzione si erse davanti ai miei occhi, e capii finalmente l’incredulità che aveva mostrato il giovane che avevo avvicinato all’uscita dell’Allen Fieldhouse.

- Che stadio! – esclamai, esterrefatto.

- Sì, la verità è che è impressionante. Gli spalti possono accogliere più del 50% della popolazione dell’intera città di Lawrence – rispose Patrick con soddisfazione.

Dopo aver mostrato dei tesserini a un guardiano, ci addentrammo nella favolosa installazione dalla porta principale. Lì incrociammo alcuni studenti che se ne andavano ben vestiti, freschi di doccia.

- A presto, professor Nichols! – dissero in coro alcuni di loro.

Aspettai che si fossero allontanati qualche metro prima di parlare, c’ero rimasto di sasso.

- Professore? Lei è docente in questa università?

- Beh, lo sono stato fino a qualche anno fa. Ma credo che continueranno a chiamarmi professore per un po’ – rispose Patrick, sorridendo, mentre mi apriva gentilmente la porta degli spogliatoi.

- Come sarebbe?

Nichols si guardò intorno, e quando ebbe la certezza che fossimo soli, accompagnati solo dalle decine di armadietti e qualche lunga panca di legno ben curata, rispose a voce molto bassa.

- Diciamo che è stata una pazzia. Una strategia. Ma dopo qualche tempo ho capito che si trattava di un’enorme stupidaggine e ho abbandonato. Ad ogni modo non ero niente male.

- Una strategia? Per dimenticare la morte di sua figlia? – domandai, temendo che la mia insistenza lo irritasse, ma ero divorato dai dubbi: era opportuno insegnare nella stessa università che aveva frequentato Sharon, per superare il lutto? Come psicologo mi sembrava un’assurdità, e avevo bisogno di sapere quanto può essere complessa e irrazionale la mente umana in determinate circostanze.

- Assolutamente no. Una strategia per trovare il suo assassino – rispose Patrick, laconico.

Ci cambiammo i vestiti in silenzio e uscimmo nella fantastica pista di atletica. Lo stadio era strabiliante, e anche se nelle scalinate c’era solo un gruppetto di persone, per la maggior parte studenti che sembravano trovarsi lì per fare i compiti, invece di sfruttare le loro stanze o la biblioteca, lo si poteva facilmente immaginare gremito di tifosi infervorati.

- Mi sento come un atleta che entra in pista il giorno della finale olimpica della sua disciplina. La ringrazio infinitamente per avermi portato qui.

- Sapevo che le sarebbe piaciuto. Io mi ci sono abituato poco a poco, ma sento ancora un piacevole brivido quando guardo gli spalti.

Ci riscaldammo per 15 minuti, correndo lentamente. Poi Patrick mi mise alla prova: facevamo un giro lento e il successivo correndo al massimo. In effetti, constatai subito che quella era la famosa ora delle tartarughe, perché non c’era nessuno che prendesse sul serio l’allenamento, e non facevano molto più che semplice jogging.

Tra loro non c’era alcun atleta dell’università, perciò ci guardavano stupiti, ogni volta che aumentavamo il ritmo. Era una sensazione meravigliosa. Dopo dieci giri ero sfiancato.

- Non ce la faccio più – dissi, abbandonando la prima corsia della pista verso l’interno, e lasciandomi cadere sul morbido prato sintetico.

- Non si preoccupi. Ha superato le mie aspettative. Si vede che è stato un ottimo atleta anni fa.

- Non è che ha con sé qualche pozione? – domandai, vedendo che non portava la cintura che indossava solitamente quando si allenava a Oskaloosa.

-  Non faccia il frignone. Qui ci renderemmo ridicoli anche tra i corridori fuori forma portando delle bottiglie.

Sorrisi. Aveva ragione. In vita mia non avevo mai visto in una pista di tartan qualcuno allenarsi con una cintura piena di bibite e gel. Quelle cose erano per i divoratori di asfalto che preparavano maratone estenuanti, non per le rapide e brevi sessioni di serie esplosive.

- Questo deve essere stato un posto magnifico dove vedere sua figlia allenarsi – affermai, quasi senza riflettere, immaginando che a mio padre sarebbe piaciuto vedermi correre in una struttura del genere.

- Sfortunatamente non arrivò a goderne. Finirono i lavori della pista di atletica dopo la sua sepoltura. Era molto emozionata, e il fatto che non sia riuscita a calpestarla è stato qualcosa che mi ha ossessionato per settimane. Questa maledetta vita è così, che altro dire...

Restai a guardare quell’uomo piacevole, sano, in perfetta forma, che stimavo, ma che aveva due immense ferite nelle viscere, con cui doveva fare i conti ogni mattina al suo risveglio.

- Come è riuscito a sopportarlo?

- Sopportare cosa? – domandò, come se non avesse capito.

- Il dolore.

- Beh, ho preso i miei provvedimenti dall’inizio. Sa… credo che proprio per questo Amanda abbia finito per suicidarsi. Non è mai riuscita a fissare delle barriere.

- Barriere?

Nichols ammirò lo stadio. Era una giornata splendida, con un cielo terso, una temperatura ideale per fare sport e una leggera brezza che accarezzava il viso con una piacevole delicatezza. Aspettò un lungo momento prima di rispondere alla mia domanda.

- Non sono mai entrato nella camera di Sharon. Non solo da quando è stato scoperto il suo cadavere, intendo dire che non ci sono mai più entrato dal giorno della sua sparizione. Inoltre, ho insistito con mia moglie per trasferirci, ricominciare una nuova vita; se era possibile, in un altro luogo, o magari un altro Stato, ben lontano da Albion. Ma lei invece entrava ogni giorno della camera della sua bambina. Ci passava qualche momento senza toccare niente, mi diceva, e poi tornava in salotto, o in cucina, come se niente fosse. Ma io sapevo che questo la stava uccidendo dentro.

-  Non sono in grado di giudicare sua moglie, e la prego di non fraintendermi, ma si è sottomessa a un supplizio auto inflitto che si rivela molto dannoso a breve e medio termine.

- Lo so. Appena Amanda ci ha lasciati mi sono trasferito a Oskaloosa. Non avevo nient’altro da fare nella casa di Albion, se non perdere completamente la ragione. Nonostante tutto, come ha avuto modo di notare, tengo quella casa quasi come se ci vivessi ogni giorno, come se Sharon e mia moglie potessero entrare dalla porta, di ritorno da un lungo viaggio, e io mi preoccupassi di fargli trovare tutto in ordine.

Patrick parlava con titubanza, mentre alcune lacrime rotolavano lungo la sua pelle coriacea giù, fino al mento, per poi cadere e perdersi nell’erba sintetica.

- Lei è qui, e questo è già un merito incredibile...

- So perché mia moglie si è suicidata.

Mi pentii profondamente di essermi cacciato in quel labirinto, ma ormai non c’era altro rimedio che continuare a percorrere i suoi passaggi intricati fino a trovare l’uscita.

- Patrick, non credo...

- Sono stato un egoista, un codardo. Quando lo sceriffo Johnson ci ha chiesto di riconoscere il cadavere io non ci sono andato. Non ho nemmeno visto una fotografia, niente. Ma Amanda sì; lei si è occupata di tutto mentre io mi seppellivo nel nostro letto, rifiutandomi di accettare la realtà.

- Non si colpevolizzi, è una reazione molto comprensibile e che probabilmente le ha permesso di convivere con il dolore per tutti questi anni. Il ricordo che conserva di sua figlia è il migliore: quello di quando era ancora viva.

- Lo so, Ethan, lo so perfettamente. So che mi son preso cura di me, dei miei sentimenti, dell’impatto che la vista del corpo senza vita di mia figlia avrebbe potuto provocarmi per gli anni a venire.

Mi azzardai a posare la mia mano su una delle spalle di Nichols, che ormai piangeva rassegnato e abbattuto. In parte sapevo che quell’uomo poteva aver passato secoli a cercare di esprimere le sue emozioni, e molto spesso nessuno è meglio di una persona appena conosciuta per farlo, senza pudore, senza timore, senza alcun tipo di finzione o menzogna.

- Ha fatto quello che io, se le fossi stato vicino, le avrei consigliato.

- Grazie, apprezzo le sue parole. Molti psichiatri mi hanno detto la stessa cosa, e probabilmente hanno tutti ragione. Ma Amanda ha collaborato con la polizia, ha confermato che quella era la nostra bambina. E lo ha fatto da sola. Nella sua mente si è impressa l’immagine di Sharon senza vita, e lei non è riuscita a cancellarla mai più. Per questo mi sento così colpevole. L’ho abbandonata, e questo è il motivo per cui si è fatta saltare le cervella il giorno del decimo anniversario dell’omicidio di nostra figlia. Non ne poteva più.