Capitolo III

 

Quella notte sognai mio padre. Eravamo insieme in un campo da baseball completamente deserto. Probabilmente si trattava di quello dei San Francisco Giants, anche se non potrei dirlo con certezza, in quanto i miei occhi erano completamente fissi su quelli di mio padre. Lui faceva il lanciatore ed io reggevo una mazza adatta alla mia età e statura. Mio padre mi sembrava enorme, invincibile da lontano. I suoi profondi occhi neri incutevano quel tipo di rispetto guadagnato con l’autorità del sapere, non con l’imposizione della forza.

- Sei a due strike, quindi devi concentrarti bene su questo lancio – mi disse, come se invece del mio rivale fosse il mio allenatore.

- Ok! – esclamai, incoraggiato dalle sue parole.

Mi concentrai sulla preziosa palla di cuoio lucido che stavamo inaugurando quella mattina stessa e mi sistemai il berretto in modo che la visiera proteggesse bene le mie pupille dal sole di mezzogiorno. Mio padre lanciò la palla come solo i professionisti sapevano fare, ma per fortuna io battei un colpo abbastanza buono da permettermi di abbandonare la gabbia di battuta per cercare di raggiungere la prima base. Scattai correndo come un’anima indemoniata e prima che mio padre, senza troppo sforzo, potesse anche solo prendere la palla io avevo già completato un fuoricampo in tempo record.

- Grande, Ethan! Oggi ti sei meritato una bud fresca.

Essendo io ancora un adolescente, mio padre di quando in quando mi premiava con qualche birra. Da un lato era un modo per stare tra uomini, dall’altro credo che desiderasse che i miei primi contatti con l’alcol, che presto o tardi si sarebbero verificati, avvenissero in sua presenza e in maniera controllata.

Nel sogno mio padre tirava fuori due Budweiser da un frigo portatile pieno zeppo di ghiaccio ben tritato e me ne lanciava una, con un sorriso così splendente da illuminare lo stadio. Poi ci sedevamo insieme nella panchina della squadra di casa.

- Non ti piace il baseball… vero? – chiese lui, guardando la struttura, evitando il mio sguardo, come per darmi il coraggio per rispondere.

Mi fermai a pensare un attimo. Aspettavo quella domanda da un paio d’anni. Esattamente da quando avevo abbandonato la squadra di baseball della scuola per darmi all’atletica. Era qualcosa che ero riuscito a confidare a mia madre, ma non a lui.

- Lo adoro. Mi piace molto andare con te allo stadio a vedere i Giants – risposi, cercando di eludere la vera questione.

- Sai che non mi riferisco a questo. So che ti piace vedere il baseball, che ti godi ogni partita, anche se arriva a durare più di cinque ore. Mi riferisco al giocare a baseball…

Nei sogni il tempo passa in modo diverso dal mondo convenzionale. In quel sogno credo di aver tardato due o tre giorni a rispondere a mio padre, che aspettava in un silenzio statico e prudente la mia risposta.

- No, papà. Non mi piace. L’unica cosa che mi piace del giocare a baseball è poter stare un po’ al tuo fianco.

Mio padre mi cinse con il suo forte braccio e mi strinse a sé. Potei scorgere i suoi occhi umidi per l’emozione. Era un tipo robusto e duro, ma il suo cuore era più grande del resto del corpo.

- Sai una cosa? Quando ti ho visto correre per le basi, sono rimasto impressionato. Nemmeno un ghepardo sarebbe stato in grado di raggiungerti.

- Puoi dirlo forte! – esclamai, sollevato.

- Ti piace correre?

La domanda mi colse impreparato, e per un attimo ebbi la certezza che mia madre avesse rivelato il nostro piccolo segreto.

- Sì, mi piace molto. Papà… da due anni faccio parte della squadra di atletica, invece che di quella di baseball… - confessai.

Mio padre mi diede due lievi pacche sulla spalla, e mi rivolse uno sguardo che sembrava quasi colmo di ammirazione.

- E come te la cavi?

- Sono uno dei migliori! – esclamai. Ma non era del tutto vero: non ero uno dei migliori… ero il migliore. Uno dei mezzofondisti più promettenti di tutta la California.

- Allora è deciso. D’ora in avanti niente più baseball. Beh, continueremo ad andare a veder giocare i Giants, ovviamente. Ma verrò a vederti mentre ti alleni in pista. Voglio essere nel posto dove ti senti veramente felice, figlio mio.

Mi svegliai madido di sudore. Sembrava avessi appena finito di correre la maratona di Boston, in un giorno da cani di inizio primavera. Ci misi un po’ a rendermi conto di trovarmi nella casa che lo sceriffo della contea ci aveva prestato a mo’ di hotel.

Il sogno era stato senza dubbio curioso: vi si mescolavano fatti reali con scene del tutto immaginarie. Non capivo quale motivo avesse spinto la mia mente a recuperare dal passato quegli attimi remoti per collocarli nel presente. Istintivamente, senza pensare, allungai la mano in cerca del mio Smartphone e scorsi la rubrica fino a trovare la voce che cercavo: Papà. Appena premetti il pulsante di chiamata capii che non avrebbe risposto nessuno. Il suo vecchio cellulare era custodito come un tesoro in un cassetto del mio appartamento nella periferia di Washington. Continuavo a pagare puntualmente la rata mensile all’AT&T, sebbene da quasi dieci anni mio padre riposasse nel piccolo cimitero di Mariposa, in California.