Capitolo XXVI

 

Il giorno seguente mi sentivo bene fisicamente, ma il mio cervello era confuso, com’era stato per tutta la settimana, d'altronde. Sapevo che avrei avuto bisogno di tutto ciò che avevo imparato prima a Stanford, poi a Quantico, e di molto di più per poter affrontare un caso in cui i sospettati apparivano e scomparivano come i funghi a inizio autunno.

Prima di avvicinarmi all’ufficio dello sceriffo per fare due chiacchiere con Ryan Bowen e Jim Worth, dedicai un po’ di tempo a cercare di spiegare a Liz e Mark il mio incontro con Stevens e l’accordo che avevamo raggiunto. Liz si mostrò contraria a quella decisione, mettendomi in guardia dai grossi rischi che correvo. Mark si limitò a fare spallucce e ad aspettare nuove istruzioni. Volevo che si concentrassero entrambi sul cianuro di potassio e che ripassassero tutta la lista di sospetti che aveva redatto Jim, nel caso in cui ci fosse scappato qualche dettaglio cruciale. Tom, da parte sua, si sarebbe occupato della casa degli Stevens (gli dissi di non azzardarsi nemmeno a nominare, neanche per sbaglio, Donna Malick) e poi, quando io avessi terminato la mia riunione con Bowen, si sarebbe incontrato con lui per ottenere una volta per tutte il mandato di perquisizione della casa di Davies.

Non appena arrivai nella sala riunioni trovai Ryan e Jim che mi aspettavano da un pezzo. Gli spiegai che Stevens, a causa di problemi di salute, si vedeva costretto a passare qualche settimana di riposo a casa. Entrambi accolsero le mie parole con scetticismo. Si mostrarono ancora più sorpresi quando gli comunicai che, ufficiosamente, e per evitare l’intervento della Polizia di Stato, che avrebbe potuto ostacolare o ritardare l’indagine, assumevo io il comando della situazione. La mia autorità era vista come limitata al caso di Clara Rose e Donna Malick, perciò, per le altre questioni, la figura al comando, fin tanto che Clark non si fosse ristabilito, passava nelle mani di Bowen, che in fondo era il braccio destro di Stevens. Dopo avergli comunicato la notizia, mi misi a organizzare le attività dei giorni seguenti, cercando di mostrarmi il più cordiale possibile. Quando terminai, Ryan se ne andò in tutta fretta per non fare tardi al suo appuntamento con Tom e il giudice. Immaginai che non avrebbe tardato un secondo a telefonare a Stevens.

- Perciò, sbaglio o i sospetti si sono trasformati in certezze? – domandò Jim, appena restammo soli.

- Si, sbaglia – riposi asciutto.

- Allora, perché tutto questo casino?

- Ieri Clark mi ha convinto in gran misura della sua innocenza. Ma restano ancora degli aspetti da chiarire e fino ad allora non potremo essere sicuri di niente.

- Sa che prima o poi mi chiamerà.

- Lo so. Ma so anche che posso fidarmi di lei. E in questo momento ne ho bisogno più che mai.

- Ci troviamo in un bel guaio.

- Può dirlo forte. Le sembrerà ridicolo, ma quando il mio capo mi ha chiamato per affidarmi questo caso ho pensato che rispetto a quello di Detroit questo sarebbe stato una passeggiata.

- Non la biasimo. Quando succedono dei fatti così terribili in delle contee apparentemente tranquille come Jefferson, alla fine tutta la merda finisce per venire a galla: segreti, litigi, invidie, passioni… E in questo pantano è difficile far emergere la verità.

Le parole di Jim, come spesso succedeva, furono come un balsamo per i miei neuroni torturati. Avevo bisogno di aggrapparmi a un briciolo di buonsenso e onestà per andare avanti. Lo salutai ringraziandolo e gli dissi che dovevo incontrarmi con qualcuno, senza confessargli che ero diretto a Meriden.

Percorrendo la 92 mi ci vollero poco più di venti minuti per arrivare fino al grazioso giardino che circondava la casa di Vera Taylor. Avevo la mia Moleskine con me, insieme all’album di fotografie che io e Liz avevamo preso in prestito durante la nostra prima visita.

- Guarda guarda, il mio agente preferito – disse Vera, non appena mi vide, aprendo la porta di casa sua.

- Non sapevo ne conoscesse molti.

- Si potrebbero contare sulle dita di una mano – mormorò, mostrandomi la sua mano sinistra, sporca di farina, - ma lei è comunque il mio preferito.

Non c’erano dubbi che Vera Taylor notasse l’attrazione che suscitava in me e che io cercavo di nascondere, mentre lei si divertiva ad alimentarla senza alcuna vergogna. Mi chiedevo che vita facesse, senza problemi economici, quasi tutto il giorno a casa e con quel carattere a dir poco particolare.

- È fantastico. Ha qualche minuto da dedicarmi? – domandai, cercando di mostrarmi il più freddo possibile.

- Stavo preparando una torta di carote, e per di più non mi ha avvisata del suo arrivo, come le avevo chiesto. Ma la riceverò comunque, come no!

Entrammo in casa e questa volta girammo verso destra, diretti verso la cucina. Era pulita, abbondantemente arredata e con utensili e elettrodomestici sufficienti a preparare da mangiare per un reggimento.

- Si dedica a preparare banchetti o roba simile?

- Neanche per idea. Adoro la pasticceria. Quando ho scoperto che non dovevo muovere un dito per guadagnare soldi come il resto dei comuni mortali, ho deciso di dedicarmi alla mia grande passione. Preparo dessert, torte, muffin e dolci per compleanni e altre occasioni.

- Non abbiamo trovato la pagina web della sua attività su Internet – le dissi, ricordando che Mark aveva fatto un po’ di ricerche sul suo conto.

- Ci sto pensando. Per il momento funziona bene il passaparola, e il mio unico marketing sono questi discreti biglietti da visita – disse, indicandone un mazzetto su tavolino di legno, - come quello che le ho consegnato l’altra volta. Magari gliene regalo un assortimento.  Non si sa mai, potrebbe diventare uno dei miei clienti migliori.

Vera si lavò le mani. Indossava dei jeans neri molto aderenti e una maglietta dello stesso colore, con lo scollo a V e senza maniche. Pensai che quella donna sarebbe stata attraente con qualsiasi cosa addosso.

- Le ho riportato il suo album di foto. Mi piacerebbe farle qualche domanda.

- Non si fida di me, non è così? Finché non prenderà il colpevole di tutti gli omicidi resterò nella sua lista di sospettati.

Mi metteva a disagio il modo diretto con cui si rivolgeva a me. Mi metteva a disagio la sua bellezza misteriosa. E soprattutto, mi metteva a disagio l’incontrollabile attrazione che tutto ciò mi provocava dentro.

- Non mi fido quasi di nessuno. A malapena lo faccio della mia squadra, si figuri di una sconosciuta.

Con movimenti volutamente lenti Taylor mi prese dalle mani l’album di foto che le stavo porgendo. Sentii il tocco delle sue dita e desiderai scappare da quel posto che mi sembrava quasi stregato. Non mi ero mai sentito così prima, da solo con una donna. Non riuscivo a spiegarmi che diavolo mi prendesse.

- Sono qui, la ascolto.

- C’è una foto che ha attirato la nostra attenzione. Si trova verso la fine. Dovete averla scattata qualche mese o settimana prima dell’omicidio di Sharon.

Vera venne affianco a me e sfogliò lentamente le ultime pagine dell’album, aspettando che le indicassi a che foto mi riferivo. Quando comparve gliela indicai con il dito.

- Eravamo solo delle bambine – commentò, leggermente emozionata.

- Dove fu scattata questa fotografia?

- Qui. In una della stanze del piano di sopra. Che importanza può avere tutto ciò?

- Possiamo salire?

- Certo, immagino sappia ciò che fa. Credo che stia perdendo tempo, ma non ho assolutamente niente da nascondere.

Seguii Taylor al primo piano della sua grande casa. Contai almeno sei porte, tutte chiuse. Si diresse senza esitazioni verso una che si trovava giusto al centro dell’ampio pianerottolo e mi invitò a entrare. Riconobbi immediatamente sullo sfondo il colore delle pareti, e una zona rettangolare un po’ scolorita con un piccolo buco nella parte superiore. Mi avvicinai fino a quel punto, meravigliato.

- Dov’è il quadro che era appeso qui?

- Quello delle libellule azzurre? – domandò lei, guardandomi a metà tra il sorpreso e il confuso.

- Sì, quello. È importante – risposi, correndo il rischio che lei l’avesse ritirato da lì e assumesse un atteggiamento difensivo. In quel momento c’erano davvero pochi dubbi sul fatto che Vera avesse effettivamente perso le libellule nella strada sterrata vicino al fossato.

- Me l’hanno rubato qualche mese fa – rispose, con naturalezza. Se si era preparata una risposta precedentemente, l’aveva fatto molto bene.

- Gliel’hanno rubato?

- Sì. Una mattina sono uscita per consegnare delle torte che mi erano state commissionate a Topeka e la sera, quando sono tornata, mentre facevo un po’ di pulizie, ho scoperto che non c’era più.

Era una scusa stupida e perfetta allo stesso tempo. La cosa mi irritava profondamente.

- Ha sporto denuncia?

- No, mancava solo quel quadro, nient’altro. Sono impazzita ribaltando la casa da cima a fondo e non mancava nient’altro.

- Chi diavolo poteva volere quel quadro? Aveva qualche valore?

- Per me sì. Me l’aveva regalato Sharon cinque o sei anni prima. Le piacevano molto le libellule, specialmente quelle azzurre. Ogni tanto ci facevamo dei regali, senza una ragione particolare. Io di solito le regalavo qualche dolce e lei qualche lavoretto manuale.

- Vera, la prego di ascoltarmi bene, e ho bisogno che sia sincera con me. La notte della scomparsa di Donna Malick si trovava nei pressi della laguna in cui è stato ritrovato il cadavere? - si allontanò bruscamente da me, come se mi fossi trasformato in un mostro abominevole.

- Donna Malick? Che diavolo sta dicendo?

- Quello che ha sentito.

- No! Non ho mai messo piede in quella zona del lago. Solo i fuori di testa vanno lì, tipi strani come Nolan. Prima vuole collegarmi alla morte di Sharon, e ora a quella di Donna. Per essere il mio agente preferito, lei è piuttosto incapace.

Incassai il commento imperturbabilmente. Sembrava veramente offesa dalle mie insinuazioni, ma era anche possibile che stesse recitando un copione magistrale.

- Mi ha detto che Sharon si vedeva con qualcuno, chi era?

Vera si rilassò notando che cambiavo argomento, e non insistevo con la storia di Donna.

- Non lo so, non me l’ha mai detto. Credo si trattasse di una persona più grande, o qualcosa del genere. Magari un uomo sposato. Le ho già detto che si vergognava di trattare l’argomento anche in modo superficiale.

- All’epoca lei usciva con qualcuno?

- No! Accidenti, non posso abbassare la guardia un attimo. Si sta impegnando a ficcarmi in questo orribile casino e io non ho niente a che fare con tutto ciò.

Non potevo raccontare a Taylor del diario. Non l’avevo ancora detto nemmeno alla mia squadra, solo Liz ne era al corrente. Inoltre, non potevo nemmeno avere la certezza che lei avesse nascosto  proprio le tre pagine strappate: in una di quelle Sharon la nominava direttamente. In realtà, la minacciava, quasi.

- Sharon mostrò mai della gelosia nei suoi confronti?

- Gelosia? Non credo. Era molto bella, studiava a Lawrence e per di più era una delle promesse dell’atletica qui, cosa si può volere di più?

- Niente, immagino – dissi.

- Ethan, posso chiamarla per nome?

- Sì – risposi secco. Sfortunatamente mi piaceva il suono del mio nome pronunciato dalle sue labbra.

- Sa dov’è sepolta Sharon?

- Qui vicino, credo, nel cimitero del paese.

- Esatto. Un giorno si avvicini alla sua tomba. La troverà sempre pulita e con dei fiori freschi. Vado lì tutte le settimane a fare una passeggiata e mi assicuro che il luogo dove riposano i suoi resti sia il più decente possibile. Lo faccio da quasi vent’anni.

- Capisco…

- La pregherei di cancellarmi una volta per tutte dalla sua lista, in cui so di essere stata inserita. Non ho ucciso io la mia amica Sharon.

Dopo quella dichiarazione incisiva tornammo in cucina, più rilassati, e mi offrì un muffin al cioccolato.

- Anche se non se lo merita, mi piacerebbe che assaggiasse uno dei miei dolci. Poi mi dirà. Magari riuscirò a far sì che un giorno mi avvisi prima di venire qui, e senza quella faccia da poliziotto cattivo.

Accettai il dolce, un po’ a disagio. Cercai di allontanare lo sguardo dai suoi occhi e di andarmene da lì il più presto possibile. Non era rimasto molto da scoprire.

- La ringrazio. Probabilmente dovrò tornare un giorno o l’altro, ci sono troppi punti oscuri in quest’indagine e magari potrebbe aiutarci a fare un po’ di luce sulla faccenda.

- La aspetterò, Ethan.

Uscii dalla casa con la sensazione, di nuovo, di camminare alla cieca, di tornare alla mia camera di Oskaloosa sempre a mani vuote. Guidai lentamente lungo la 92 e una volta arrivato nella zona che attraversava il lago, spensi la macchina e scesi a contemplare le acque tranquille. Il colore non era bluastro come al solito: aveva acquisito un tono quasi viola, come gli occhi di Vera Taylor, e desiderai immergermi in quel liquido dai riflessi incredibili.

Non so bene quanto tempo passai a guardare il lago dalla riva, ma all’improvviso la vibrazione del mio cellulare mi riportò alla realtà. Era Tom.

- Capo, dove sei?

- Perdendo tempo, credo, vicino a Ozawkie.

- Ho bisogno che ti rechi di corsa all’ufficio dello sceriffo.

- Avete ottenuto il mandato di perquisizione?

- Sì, sì. Quello è stato un gioco da ragazzi.

- Allora, ha a che fare con la tua visita a casa degli Stevens?

- No. Non c’era niente di interessante, lì. Madre e figlia hanno confermato l’alibi, e Mark ha recuperato una copia del noleggio su Netflix. Sembra che lo sceriffo sia pulito.

- Beh, non fidiamoci troppo. In fin dei conti si tratta delle dichiarazioni di una moglie e di una figlia, cos’altro potrebbero dire? E il noleggio serve solo per confermare la sua dichiarazione, ma niente ci garantisce che lui fosse davanti alla tv.

- Ok, ne parliamo dopo. Ma vieni o no?

Tom sembrava davvero eccitato, e per questo avevo sondato ciò che ritenevo avesse potuto alterare il suo stato d’animo con maggiore probabilità.

- Che cavolo è successo?

- Le telecamere notturne. Proprio in questo momento sono qui con Ryan e Jim. L’agente incaricato di visionarle ha visto qualcosa: un tizio che si aggirava in quella zona per un bel pezzo. La strategia di ritirare le pattuglie ha dato i suoi frutti.

- Cazzo! Sarò da voi in cinque minuti. Ma, dimmi, chi diavolo ha avuto il coraggio di farsi beccare lì?

- È successo la notte scorsa, all’alba. Non ci crederai: Duane Malick, il padre di Donna.