Capitolo XVIII
Il giorno seguente mi presi la mattinata libera. Avevo bisogno di riflettere tranquillamente e di lasciar lavorare la mia squadra in totale libertà. Telefonai a Patrick Nichols, ricordando la sua proposta, e lui si presentò immediatamente alla nostra porta, come se stesse aspettando la mia chiamata, pronto ad andare a correre da quando ci eravamo visti nella sua casa di Albion.
- Pronto per soffrire? – mi chiese, con un sorriso ampio e sfrontato.
- Spero di no. Ma comunque non sia troppo benevolo con me: ho bisogno di una bella strigliata.
Questa volta non andammo verso il lago, cosa di cui per altro fui grato, ma ci dirigemmo di buon passo verso nord. Passammo davanti alla Scuola Superiore e uscimmo dalla città attraverso Columbia Street, lasciandoci il cimitero alla nostra destra e addentrandoci in un sentiero di terra battuta.
- L’asfalto è molto aggressivo, specialmente dopo molto tempo di inattività. Meglio percorrere questo terreno più gentile con le sue articolazioni, non trova?
Patrick parlava senza interrompere le frasi. Correva agevolmente, mentre io iniziavo già a sentire lo sfinimento non solo nelle gambe, ma anche nei polmoni.
- Non saprei… È lei l’allenatore – risposi, sebbene non avessi dimenticato ciò che avevo imparato sull’atletica ai tempi in cui gareggiavo.
- Se recupera in fretta la forma ho una sorpresa in serbo per lei.
Nichols mi parlava come se mi conoscesse da tutta la vita. I corridori, così come succede agli sconosciuti che condividono una stessa passione, stabiliscono in fretta un legame di amicizia che è difficile da spiegare. Ricordavo quella volta in cui mi allenavo in un nuovo parco di San Francisco, quando dopo dieci minuti mi ero felicemente integrato in un gruppo di sportivi che non avevo mai visto.
- Mi fa paura – risposi, inspirando l’aria tra una parola e l’altra per riuscire a pronunciarle.
- Non si preoccupi. Ci avvicineremo a Lawrence. C’è una pista di tartan favolosa e potremo allenarci sul serio. Come atleti professionisti.
Continuai a correre per un bel po’ in silenzio, con la speranza che Patrick pensasse che non parlavo per conservare le forze e poter continuare la nostra vivace passeggiata. In realtà mi sentivo colpevole. Correvo al fianco di un uomo distrutto, che aveva perso la figlia e la moglie; che ora mi offriva ciò che sicuramente avrebbe voluto fare con la sua creatura: allenarsi nell’Università di Lawrence. Ma lui non sapeva che la persona che aveva affianco era un farabutto che aveva rubato da casa sua ad Albion le lettere più segrete della sua adorata Sharon.
- Sarebbe fantastico – dissi, dopo più di dieci minuti, - ma prima di arrivare a quel punto dovremmo uscire a correre ancora molte volte. Non voglio che qualche universitario in forma smagliante si sbellichi dalle risate a spese mie.
- Non si preoccupi, Ethan. Conosco gli orari di allenamento dei migliori atleti. Andremo al turno delle tartarughe.
- Il turno delle tartarughe?
- Esatto. È quando professori stressati, vicini di Lawrence che vogliono buttar giù un po’ di pancia in previsione dell’estate e qualche incapace, usano la pista di atletica. Sembreremo delle gazzelle in confronto a loro, glielo assicuro.
- Ne sa una più del diavolo, Patrick – dissi sorridendo e fermandomi di colpo. Le mie gambe avevano detto chiaramente basta.
- Che le prende?
- Ha mai letto il fumetto di Asterix, il Gallico? – domandai, sapendo che si trattava di un personaggio famoso in Europa, ma poco conosciuto negli Stati Uniti. Un mio zio che aveva vissuto in Francia per quasi cinque anni mi aveva fatto appassionare alle sue esilaranti avventure.
- Anni fa…
- Ecco, in questo esatto momento ho bisogno della pozione magica che il druido Panoramix dà ad Asterix per fargli avere una forza fuori dal comune. Ho bisogno del barattolo di spinaci che rende Braccio di Ferro imbattibile.
- Ergo, vuole che le dia una delle mie bottigliette, giusto?
- Qualcosa del genere…
Dopo aver riposato e recuperato le forze grazie alla bevanda isotonica magica che Nichols portava in vita, ritornammo spediti a Oskaloosa. La mia mente si era completamente schiarita. Correre continuava ad essere qualcosa di strepitoso.
- Non è niente male. Sei miglia e mezzo in cinquanta minuti. Si vede che c’è una buona base nascosta lì da qualche parte – commentò Patrick, maneggiando con attenzione il suo orologio sportivo dotato di GPS.
- La prossima volta farò di meglio.
Nichols mi rivolse un sorrisetto di approvazione. Credo che fosse felice quanto o più di me di aver trovato un compagno per i suoi allenamenti. Aveva ricevuto quel la prossima volta quasi come un dono.
- Aspetto la sua chiamata. Sono quasi sempre disposto ad andare a correre – mi gridò, mentre si allontanava in direzione della sua nuova casa, a Oskaloosa, dove poteva tenere a bada l’immenso dolore che una zampata selvaggia della vita gli aveva causato.
Mi feci una doccia e mangiai da solo in cucina. Un barattolo di fagioli con salsa di pomodoro riscaldato al microonde e una porzione di purè di patate. Quando tornai nel salone, ormai riposato e guarito dalla batosta, Tom mi aspettava con il portatile aperto e una vagonata di fogli sul tavolo.
- Quel Davies è un bel tipo, capo. Alla fine salterà fuori che lei ha davvero dei poteri paranormali.
Non feci caso all’ultimo commento e mi sedetti affianco a lui per scoprire cosa aveva scoperto sullo strano guardiano del Perry State Park.
- Ti ascolto.
- Matt non ha mai terminato le scuole superiori. Aveva problemi già da bambino. È cresciuto in una famiglia disastrata insieme a quattro fratelli. È nato a Atchison, e ha vissuto lì fino a quando i genitori hanno divorziato e si è trasferito con la madre a Valley Falls. A quanto pare, il padre era un ubriacone che picchiava la moglie e i figli. Poco dopo il divorzio è stato trovato morto in una pensione da quattro soldi a Kansas City. Era affogato nel suo stesso vomito.
- Cazzo – dissi, per prendere fiato. Tom parlava come chi va ad annunciare che tempo farà il giorno seguente. Io, invece, non ero in grado di mantenere la freddezza: il contrasto tra la piacevole corsa che avevo fatto lì intorno e quella storia così truculenta mi dava il voltastomaco.
- Non fare la femminuccia, capo. Ci sono centinaia di drammi come questo che prendono polvere nei dossier di decine di uffici degli sceriffi di contee come quella di Jefferson.
- Lo so. Ma ciò non significa che la cosa smetta di impressionarmi. Più mi abituo alla barbarie, più mi sento barbaro io stesso.
Tom rimase a guardarmi, e credo che capì immediatamente il messaggio che avevo lanciato. In realtà non ero così pusillanime: le circostanze avevano aumentato la mia sensibilità in quel momento, niente di più.
- Touché. Magari è colpa dei sei anni in più di servizio passati nel fango. Sono così immerso nel fango che non sono più nemmeno in grado di distinguere la merda – rispose, intendendo che la corazza che ci protegge dalla pazzia, con il tempo diventa troppo spessa.
- D’accordo, lasciamo le discussioni filosofiche per la notte. Continua…
- Dopo aver abbandonato gli studi ha svolto molti lavori. La maggior parte come aiutante: di muratori, di un carrozziere, di un elettricista… Ma non è durato tanto in nessuno. Mi pare di aver capito che la causa fosse il suo essere fannullone o imbranato. Alla fine ha provato per due anni a entrare nell’esercito, ma non è stato ammesso.
- Problemi psicologici? – chiesi immediatamente, in quanto si trattava di una strada che ci avrebbe permesso di procedere senza problemi nell’indagine.
- No. Niente del genere. Mancanza di attitudini fisiche.
- Ok – dissi, deluso.
- Dopo essersi spostato di continuo in cerca di fortuna in città più grandi come Topeka o Leavenworth, dove ha lavorato qualche volta come cameriere e qualche altra come aiuto cuoco, ha ottenuto quasi per miracolo un posto fisso come guardiano al Perry State Park. Lavora lì da sette anni.
- Ma come è possibile che un tipo del genere occupi il gabbiotto di un posto così?
- Un amico d’infanzia e un curriculum adeguato. I proprietari di alcuni locali scrissero delle lettere di raccomandazione dicendo che aveva lavorato come guardia per loro, svolgendo bene il suo incarico.
- Niente male per 12 ore di lavoro – dissi, dando una pacca sulla spalla a Tom per complimentarmi, mentre mi prendevo un po’ gioco di lui, alla sua maniera.
- Aspetta, ho appena iniziato – rispose, facendomi l’occhiolino. – Valley Falls è una città molto piccola e le anziane non aspettano altro che offrire un bicchiere di limonata a un giovane affascinante come me per spettegolare un po’.
- Ciò significa che tutto ciò che mi stai raccontando potrebbe essere solo un mucchio di bugie.
- Beh, la parte che mi ha fornito Mark credo sia attendibile al 100%.
Tom era fatto così. E lo era quasi tutto il tempo. Non sapeva prendere la vita in altri modi. A volte mi sembrava un completo decerebrato e mi chiedevo cosa ci facesse con noi, ma in fondo sapevo che era l’unico in grado di ottenere certe piste, di interpretare alcune prove e di contemplare la realtà da una prospettiva completamente nuova e diversa dalla nostra. Era un male necessario. Per questo gli perdonavo tutte le sue stupidaggini, nonostante ci fossero momenti in cui proprio non le sopportavo.
- Tutto chiaro. Continua.
- Ora risiede a Valley Falls, nella casa comprata da sua madre. La poveretta è morta due anni fa. Era un po’ fuori di testa, credo soffrisse di demenza senile o qualcosa del genere. Non l’hanno mai portata da uno psichiatra.
- E gli altri fratelli?
- Tutti morti.
- Come?! – esclamai, sinceramente sorpreso.
- Uno è morto da piccolo, poco dopo essersi trasferito a Valley Falls con la madre. Una malattia rara. Un altro, che era riuscito a entrare nell’esercito, è morto in servizio durante la prima guerra in Iraq.
- Tom, sei sicuro che ciò che mi stai raccontando sia la verità? – chiesi, pensando che nemmeno il più famoso degli sceneggiatori di Hollywood sarebbe stato capace di ordire una trama così folle e amara.
- Ethan, puoi verificare ogni singola informazione. Non ho quasi dormito stanotte e ho passato la mattinata a fare telefonate e a spettegolare di casa in casa.
Sprofondai nel divano e mi passai lentamente le mani tra i capelli ancora umidi dalla recente doccia. Uno poteva anche capire che storie come quella potessero dare come risultato dei veri e propri degeneri, incapaci di provare empatia verso il resto del mondo.
- Continuo? – domandò Tom.
- Certo, non fare caso a me.
- Ora viene la parte migliore. L’ultimo fratello morì in casa in circostanze sospette: overdose da stupefacenti. La morte fu considerata accidentale, il soggetto in questione, sebbene non fosse tossicodipendente, era solito frequentare cattive compagnie per consumare crack o roba del genere di quando in quando.
- E credi che Davies possa aver avuto qualcosa a che fare con la vicenda?
- Non lo so. Come ti ho detto, non venne nemmeno aperta un’indagine al riguardo. Ma Matt non era in buoni rapporti né con il fratello né con la madre, con cui condivideva la casa. Pare che in appena sei mesi entrambi i problemi si siano dissolti e il tuo caro guardiano sia rimasto il proprietario della casa di Valley Falls.
- Interessante. Ma del tutto insufficiente per richiedere una perquisizione. Per di più, siamo qui per investigare sugli omicidi di Clara e Donna, non sui presunti crimini su cui speculano delle anziane annoiate.
- Capo, tu mi hai chiesto delle informazioni su quel tizio e io ti ho portato quello che ho trovato. Ma sicuramente mi piacerebbe che vedessi almeno una fotografia che ho scattato fuori dalla casa.
Tom girò lo schermo del suo portatile per farmi osservare bene l’immagine. Si vedeva una costruzione umile di legno su un solo piano, di un celeste pallido, piena di scalcinature. L’intera proprietà era circondata da una staccionata bassa in metallo su cui spiccavano numerosi brandelli di vestiti, come se qualcuno avesse cercato di scavalcarla e si fosse strappato la maglietta o i pantaloni negli spunzoni. C’erano anche dei pali sparsi in diverse zone: ciascuno di questi terminava nella parte alta con un teschio di bufalo. Lo spettacolo risultava veramente raccapricciante.
- Merda! Che cazzo è questo?! – esclamai, un po’ schifato. – Sembra la sede di una setta satanica.
- Ho pensato la stessa cosa appena l’ho vista – rispose Tom tranquillo, con un’alzata di spalle.
- Cosa c’è dietro la casa? – chiesi, vedendo che la staccionata si perdeva da ambo i lati in una specie di avvallamento.
- La proprietà si trova nella periferia di Valley Falls, proprio davanti a dove passa il fiume Delaware.
- Dobbiamo saperne di più su Davies. Ti ho già detto che mi suscitava una strana sensazione. Indaga sul suo comportamento nel Perry State Park, su com’era il suo rapporto con Clara, che conosceva perché lavorava lì ogni estate; e infine scopri se aveva qualche tipo di legame con Donna.
- Vuole anche sapere se conosceva Sharon Nichols? – domandò Tom, diretto, mentre prendeva appunti in uno dei fogli che si trovavano sparpagliati sul tavolo. Per me, abituato a inaugurare una Moleskine per ogni caso e a usare vari taccuini, quello spettacolo rappresentava il caos assoluto.
- Sì, certo – risposi, quasi in maniera automatica. – A proposito, quanti anni ha?
- 51.
- Quindi aveva 34 anni quando Sharon è stata uccisa. Già che ci sei, prova a scoprire cosa faceva a quell’epoca.
- Tutto ciò mi costerà molte ore di caffè ben accompagnato da torta di carote con le mie care vecchiette – rispose Tom, con il suo solito tono ironico.
- Arrangiati come puoi. Quello che ti chiedo è di fare un lavoro buono come quello di oggi – aggiunsi.
Sfinito, decisi di andare in camera mia a ripassare tutti i miei appunti per trasferirli sul computer, su cui seguivo l’evoluzione del caso grazie alla mia particolare metodologia. Tutto sommato, nemmeno io ero un ortodosso, per cui avevo ben poco da rinfacciare a Tom, sempre che facesse ciò che mi aspettavo da lui.
Prima di coricarmi decisi di telefonare a Quantico per aggiornare Peter Wharton. Era quasi una chiamata di cortesia: ogni mattina presto gli mandavo una relazione e lui non era il tipo di capo che stava addosso ai suoi subordinati, quasi asfissiandoli. Ti lasciava libero: se avevi successo premiava la tua audacia, se fallivi pagavi care le tue stupidaggini. Mi trasmise entusiasmo, e mi suggerì di contare di più sulla squadra dello sceriffo Stevens, soprattutto sul detective che conduceva il caso. Gli risposi, tra i denti, che gli avrei dato retta.
Fisicamente a pezzi, stavo per spegnere la luce quando mi ricordai delle lettere segrete di Sharon. Maledicendo la mia curiosità, mi decisi a leggerne una. Solo una. Inoltre, da troppo tempo aspettavano che gli dessi uno sguardo, e chissà, ci avrei potuto trovare qualche chiave che mi avrebbe permesso di avanzare nell’indagine, sebbene ne dubitassi. In parte consideravo l’omicidio di quella ragazza, come la polizia della contea di Jefferson, un caso chiuso.
Estrassi quei fogli accuratamente piegati da un cassetto in cui tenevo la biancheria. Li avevo nascosti lì come avrebbe fatto un adolescente timido. Sembravo quasi ridicolo, ma pensavo che sarebbe stato l’ultimo posto i cui avrebbe rovistato la graziosa donna che veniva di tanto in tanto a cucinare e a fare qualche pulizia in casa. Scoprii, sconcertato, che in realtà non erano delle lettere: si trattava di tre pagine apparentemente strappate con estrema delicatezza da un diario. Erano datate: ciascuna di esse corrispondeva a un giorno diverso. Per non far lavorare troppo il mio cervello già esausto, decisi di iniziare dalla prima in ordine cronologico. In seguito avrei letto il resto. Credevo di essere preparato a tutto, ma dopo un paragrafo in cui raccontava alcuni fatti insignificanti che erano successi durante quella giornata, Sharon aveva scritto con mano ferma: “Odio Vera Taylor con tutto il mio cuore. Se avessi il coraggio e la forza sufficienti, sarei capace di ucciderla con le mie stesse mani”.