Sette

Mi sveglio nell’oscurità gelida mentre il sudore gocciola sul pavimento, con la gamba sinistra attorcigliata su per il letto. Il nodo alla sciarpa si è stretto e la stoffa mi sega dolorosamente la caviglia. Lacrime di disperazione mi solcano il viso. Mi sento sconfitta; i sogni sono ricominciati.

Ad alcuni viene l’emicrania. Sanno quando sta per arrivare e l’unica soluzione è evitare i fattori scatenanti e prendere degli antidolorifici. Quando però il mal di testa arriva comunque, l’unica cura è sdraiarsi in un posto tranquillo e attendere che passi. Io non soffro di emicrania, ma di brutti sogni che si ripresentano ciclicamente. Talvolta questi cicli durano qualche giorno, a volte settimane. Dopodiché smettono per un po’, spesso per mesi o persino per anni, e io mi illudo che se ne siano andati per sempre.

Ma poi tornano a prendersi la rivincita su di me. So quando stanno per arrivare e che cosa li provoca, ma non ci sono farmaci in grado di aiutarmi e non posso stendermi in un posto tranquillo ad aspettare che passino, perché è proprio in quel momento che sferrano l’attacco.

La ragione per cui sono spaventata è che su questa casa c’era scritto “fattori scatenanti” ovunque.

Faccio questi sogni da che ho memoria. Da bambina mi svegliavo gridando come una pazza e i miei genitori correvano in camera mia temendo che fossi stata aggredita. E in effetti ero stata aggredita, ma soltanto nei film dell’orrore che scorrevano nella mia testa. I miei mi stringevano forte, papà mi consolava mentre mamma piangeva in silenzio. Durante quei cicli di incubi, soffrivo anche di giorno. In parte perché ero troppo stanca, ma anche perché non ero del tutto sicura che quanto era successo nella mia immaginazione di bambina non fosse accaduto anche nel mondo reale. I miei genitori e gli insegnanti si allarmarono a tal punto che mi mandarono da una psicologa per l’infanzia.

Lei cercava di nasconderlo, ma io vedevo la perplessità sul suo viso quando le raccontavo le storie dei mostri che mi ferivano con coltelli, asce, spade, pugnali e aghi giganteschi e mi trascinavano per casa cercando di uccidermi. E il dolore, oddio, il dolore. E poi c’erano gli altri incubi, quelli astratti che non avevano alcun senso, pieni di forme e colori mutevoli, che mi si chiudevano addosso, seminando morte nella loro scia.

La sua conclusione fu che ero affetta da un disturbo profondo, scatenato dagli episodi di bullismo di cui molto probabilmente ero vittima. Naturalmente, fornì a genitori e insegnanti una versione più edulcorata.

La mia nuova casa è l’ambiente perfetto per un ciclo di incubi. Di giorno è un imponente edificio vittoriano, ma di notte si trasforma in una villa gotica vagamente inquietante dove è facile immaginare che un vampiro possa venire a schiacciare un pisolino. Di giorno è un luogo tranquillo dove riposare o lavorare. Di notte, si sente ogni genere di rumori. Il legno si allunga e si accorcia, si inumidisce e poi si asciuga. Questo genera scricchiolii che risuonano come qualcuno che inspira ed espira. Come se la casa fosse viva.

Il biglietto del suicida.

Jack che mi sta addosso.

Jack e Martha che cercano di cacciarmi via.

Una vicina ostile.

Martha aveva ragione. Avrei dovuto fare le valigie e andarmene.

No. Quella non è un’opzione.

Mi trascino di nuovo sul letto. Allento il nodo intorno alla gamba. Prendo in mano il telefono e gli auricolari. Premo play. Chiudo gli occhi. Mi immergo fra le note di Wake Up Alone di Amy Winehouse. È una canzone profondamente triste, ma la melodia mi culla, mi consola, lavando via il terrore.

Il corpo inizia a rilassarsi, il respiro si fa morbido e regolare. Mi lascio trasportare…

Tuttavia, nell’oscurità sento che mi stanno aspettando. Quelle figure fuori misura, due volte più grandi di me, scolpite in una sagoma umana ben riconoscibile. Mi spiano dalla finestra dell’abbaino e giù dal lucernario. Si nascondono dietro la porta chiusa della stanza. Ma io so che sono lì. Vedo i loro volti demoniaci, assassini. Coltelli e aghi in entrambe le mani. Aspettano. Aspettano che io mi addormenti per bene, così potranno intrufolarsi dentro e seminare morte mentre io mi giro, mi contorco, sanguino e chiamo a gran voce la mamma.

Con un guizzo spaventato della testa combatto contro me stessa per uscire dal dormiveglia. Ho ancora gli auricolari nelle orecchie. Ancora in preda al senso di vertigine, premo play. Amy inizia di nuovo ad accarezzarmi. Il mio corpo precipita a peso morto in uno stato di rilassamento. Stavolta sento che dormirò.

Le figure assassine se ne sono andate. Ma so che sono pazienti. Torneranno, un’altra notte, e quella notte arriverà presto.

 

L’indomani mattina, quando il pianerottolo del primo piano scricchiola sotto le mie ciabatte, mi pietrifico. Accidenti! L’ultima cosa che voglio è svegliare Martha e Jack. Non che abbia paura di loro. Solo che farei volentieri a meno di un potenziale confronto aggressivo con il marito, anche se prego che Martha sia riuscita a farlo ragionare. Jack smetterà di importunarmi o di avercela con me? Resto in attesa per un momento. Nessun suono dalle stanze vicine.

Mi sento distrutta mentre cammino in punta di piedi giù per le scale. Non so quante ore di sonno sia riuscita a farmi, ma non bastano. Mi sento uno zombie. Appena raggiungo il pianoterra l’odore di pancetta mi travolge. Qualcuno è già in piedi. Sospetto si tratti di quel buzzurro di Jack; non riesco ad associare Martha alla pancetta, piuttosto a qualcosa di più raffinato come salmone affumicato e uova strapazzate. Penso di sbirciare dentro per vedere se il campo è libero… al diavolo; pago un bel po’ di soldi per vivere qui e non sono disposta ad andarmene in giro come un fantasma indesiderato. Mentre proseguo, sono certa di sentire una porta che si chiude al piano di sopra. Senza dubbio è Martha che inizia la sua giornata. Grazie al cielo non c’è traccia di Jack in cucina. Faccio un salto in bagno e poi mi concedo una lunga e meritata doccia. Leggermente rigenerata, mi preparo una tazza di tè con del pane tostato ed esco dalla cucina.

Non torno di sopra; al contrario, entro nella sala da pranzo con le sue pareti blu conchiglia, il caminetto in marmo e l’ampio specchio che fa sembrare l’ambiente grande il doppio. C’è un pianoforte imponente all’altro capo della stanza. Ripeto lo stesso esercizio che ho provato a fare la mia prima sera qui. Chiudo gli occhi e mi concentro, cercando di capire se la casa abbia qualcosa da dirmi. Poi apro gli occhi e scruto ogni dettaglio. Ma non c’è nulla.

Faccio la stessa cosa nel cuore della casa, sul lussuoso tappeto rosso e nero dell’ingresso. La casa qui non dice una sola parola. Forse sono troppo turbata per ascoltare cos’hanno da raccontare queste quattro mura. Ma comunque non importa; ci saranno un sacco di altre occasioni. Il tempo di certo non mi manca. Mentre risalgo le scale, sorrido soddisfatta. Questa casa mi ha già rivelato un paio di cose senza nemmeno accorgersene.

Non appena entro in camera mia, infilo il chiavistello e metto la sedia sotto la maniglia. Mi tolgo le ciabatte, faccio mezzo giro su me stessa e mi blocco. Mi irrigidisco. Era un rumore quello che ho sentito? Una sensazione gelida mi scorre lungo la spina dorsale. Qualcosa, qualcuno, mi sta osservando. Sento la pelle d’oca che mi fa rizzare i peli sulle braccia coperte dalle maniche.

Rallento la respirazione. Non muovo un muscolo.

Eccolo di nuovo. Un lieve fruscio, un debole ticchettio sul legno, come se qualcuno stesse picchiettando con un bastoncino sulle assi del pavimento. Mi volto, allarmata. Lo sguardo saetta in qua e in là ma non vedo nulla. Ci sono così pochi mobili che è difficile che qualcuno possa nascondersi qui. Faccio lentamente un giro per la stanza ed è allora che lo vedo con la coda dell’occhio. Un lampo grigio, come una piuma. Poi di nuovo il debole ticchettio.

Un fremito di repulsione incontenibile mi attraversa il corpo. Il mio peggiore incubo. Un topo. Mi copro la bocca, incapace di muovermi. La coda è saldamente incastrata sotto il filo metallico di una trappola. Si dirige verso il caminetto chiuso, poi ci ripensa. Si trascina dietro la trappola come fosse una slitta e si affanna a nascondersi sotto il letto.

Cala il silenzio nella stanza. Sono troppo pietrificata per gridare. Non so da cosa abbia avuto origine, ma da sempre mi perseguita il ricordo di un topo morto con due occhi enormi che mi fissano esanimi. Mi sfiora quasi. Per qualche ragione non riesco ad andarmene. Mi balzerà addosso, correndomi sulla pelle intirizzita con quei suoi piedini infetti e le unghiette sudicie, e la coda che mi sfiora le labbra serrate in una smorfia. Adesso sono immobile come nel mio ricordo.

Avevo chiesto a Jack se ci fossero topi in giro quando sono venuta a vedere la casa, o sbaglio? Il rumore graffiante che sento provenire da sotto il letto scaccia qualunque pensiero sul mio padrone di casa e mi spinge ad agire. Con un balzo attraverso la stanza. Calcio via la sedia e armeggio con la maniglia. Richiudo la porta con un tonfo mentre ansimo, tutta trafelata. Una piccola creatura contro un essere umano grande e grosso come me? Lo so che è stupido, ma non posso farci niente.

«Ja…». Inizio a urlare, ma mi rimangio subito quel nome nonostante la paura che mi attanaglia.

So che sarebbe in grado di risolvere la situazione, ma l’ultima cosa di cui ho bisogno è di far entrare di nuovo un uomo che allunga le mani in camera mia.

D’altra parte, non posso nemmeno passare tutta la mattina fuori dalla stanza a iperventilare in preda al terrore; devo andare a lavorare. Mi passa per la mente che, se riuscissi a trovare una scopa, potrei scacciare il topo sul pianerottolo dove potrebbe vagare fino all’arrivo di Jack – Martha probabilmente è troppo fragile per occuparsene. O ancora meglio, il mio piccolo visitatore potrebbe aver già trovato una via di fuga ed essersene bello che andato al mio ritorno. Quelle bestiole sono dei piccoli Houdini, quindi spero che ci riesca.

Quando torno, armata di una scopa che ho trovato nel ripostiglio sotto le scale, apro la porta facendo bene attenzione e sgattaiolo dentro con la schiena appoggiata alla parete. Mi metto carponi e sbircio sotto il letto. Il mio piccolo amico è ancora nascosto lì. Non muove un muscolo mentre lo osservo. Forse il topo è troppo spaventato per muoversi, ha paura di me quanta ne ho io di lui. Sento l’orrore che aumenta quando incrocio il suo sguardo. Due occhietti spalancati, terrorizzati come i miei.

Il vecchio ricordo torna a prendere il sopravvento. Un enorme topo morto con gli occhi che mi fissano. Allora grido, ancora e ancora.

Si sente del trambusto sul pianerottolo al piano di sotto e il tonfo di due scarponi pesanti sulle scale prima che la porta si spalanchi e che Jack si precipiti dentro la stanza.

Abbassa lo sguardo su di me e mi dice in maniera sbrigativa: «Che problema hai? Oh, giusto… c’è un topo, vero?».

A fatica mi rimetto in piedi, ritraendo il braccio con un gesto rabbioso quando lui cerca di aiutarmi. «Mi avevi detto che non c’erano topi qui».

Lui assume un’aria innocente e sprezzante allo stesso tempo. «Davvero? Non me lo ricordo. Ma certo che ci sono topi in questa casa. Ce ne sono un sacco. È un edificio di epoca vittoriana, tesoro, prova a cercarne uno in questa città in cui non ci siano topi». Mi strappa la scopa dalle mani. «Allora, dov’è quella piccola peste? Ehi, chi se lo aspettava? Ha la coda incastrata in una trappola. Questo dovrebbe rallentarlo un po’».

Con una spazzata della scopa la trappola scivola fuori da sotto il letto girando su sé stessa e portandosi dietro il topo ancora incastrato. Io sobbalzo, pietrificata dal panico, premendomi il palmo delle mani contro il cuore che batte all’impazzata. Jack raccoglie la trappola e la solleva all’altezza della spalla. La mia bocca si contorce in una smorfia di disgusto. Me la avvicina mentre il topo appeso per la coda cerca disperatamente di rigirarsi e rimettersi dritto. Non riesco a capire se Jack stia tentando di tormentare l’animale o me. Forse entrambi. Sa benissimo quanto sono turbata.

«Perché stai facendo così?», gracchio. Nella voce mi ribolle la rabbia. «Ti diverte essere crudele con gli animali? Portalo fuori e lascialo andare».

Jack schiocca la lingua. «Non posso. E se entrasse di nuovo?».

Ne ho abbastanza di questo coglione. «L’hai messo tu nella mia stanza, vero?»

«Che cosa?», ribatte con aria sprezzante. «Smettila di dire stronzate. La signora mi ha detto senza giri di parole di starti alla larga ed è quello che stavo facendo finché non hai deciso di buttare giù il soffitto come se Freddy Krueger fosse arrivato in città».

Non credo a una sola parola. Altrimenti come avrebbe fatto un topo bloccato in una trappola ad arrivare fino in cima alla casa? È probabile che lo abbia catturato vivo da qualche parte per poi agganciarlo alla trappola e lasciarlo nella mia stanza. È una messa in scena grottesca.

Dev’essere stato questo il rumore che ho sentito al piano di sopra mentre stavo scendendo al pianoterra: lui che sgusciava fuori dalla sua stanza con il topo per poi intrufolarsi nella mia. Che bastardo!

Con un verso di disgusto che gli esce dalle labbra Jack sparisce, ma pochi minuti dopo torna con il topo in trappola in una mano e un pezzo di tubo di piombo nell’altra. Facendo attenzione, posa il povero topo indifeso sulle assi del pavimento. Poi mi guarda con un guizzo negli occhi un attimo prima di sollevare il tubo e sferrare un colpo con indicibile violenza. L’animale non resta ucciso, direi più devastato. È ridotto a una poltiglia intricata di pelo e carne, con gocce di sangue sparse in giro per le assi di legno dipinte di bianco.

Trasalisco con un misto di orrore e rabbia.

«Perché l’hai fatto? Perché non l’hai lasciato andare?»

«Era la cosa più generosa da fare, Lisa…».

Prende una busta di plastica e ci spazza dentro quel che resta della bestiola, insieme alla trappola. Si alza in piedi rivolgendomi un’occhiata inquietante e capisco che non si tratta tanto di crudeltà o di un tentativo di seduzione, quanto più di una minaccia implicita.

Non dico nulla ma ricambio con uno sguardo furibondo di sfida mentre lui se ne va.

Dopo, vado in bagno – il loro bagno – e prendo una spugna. Strofino ancora e ancora finché ogni traccia delle minuscole gocce di sangue e di pelo dell’animale non vengono via dalle assi di legno bianche.