Diciannove
Mentre fisso Jack mi sento come una bambina appena scesa da una giostra: gli occhi dicono che il movimento si è fermato, ma le orecchie dicono che sta ancora continuando e ti viene la nausea. È così che mi sento: nauseata. Letteralmente.
Incrocia le braccia sul petto, assumendo un’aria molto compiaciuta di sé. Dovrei sbattergli la porta in faccia ma rimango lì impalata.
«Ciao, Lisa».
Balbetto. «J-Jack».
Guarda la casa dall’alto in basso. «Bel posto».
E lo è davvero. Una bifamiliare in stile vittoriano nell’elegante quartiere di Dalston, nella parte est di Londra. Sono riuscita a comprarla prima che il collegamento della linea di East London raggiungesse la zona, facendo schizzare alle stelle i prezzi degli immobili. Ora l’area è piena di bar che servono pinoli e quinoa agli hipster. Jack e il suo chignon si troverebbero a proprio agio qui.
Da quando mi sono trasferita da Jack e Martha, ho tenuto pronta una storia di copertura nel caso avessero scoperto che ho una casa tutta mia. È una bella storia e mi sono esercitata a raccontarla davanti allo specchio un sacco di volte. Ora non riesco a ricordare come comincia.
«No, è di un’amica. È in vacanza e do un’occhiata alla casa per lei, le ritiro la posta, apro e chiudo le tende. Sai… per i ladri». Sono patetica e lo so bene.
La sua voce è carica di sarcasmo. «È molto gentile da parte tua. È bello avere amici che badano alla tua casa mentre sei via». Si sta divertendo, questa carogna. «Solo che è successa una cosa molto buffa… Ho bussato dai vicini e ho chiesto loro se Lisa vive qui e loro hanno detto di sì. Anche se, a quanto hanno detto, Lisa non si fa vedere molto da queste parti ultimamente. Pensavano fosse andata in vacanza. Una bella coincidenza che anche la tua amica si chiami Lisa…».
Comincia a sbirciare alle mie spalle per guardare dentro casa, così avvicino la porta al corpo.
«Che cosa ci fai qui, Jack?»
«Ecco un’altra cosa buffa. Oggi ero in città e indovina chi ho visto per strada mentre tornavo a casa? Esatto, eri tu! E ho pensato: magari Lisa vuole un po’ di compagnia, ma tu andavi così veloce che ho avuto qualche problema a starti dietro. E poi hai preso il treno sbagliato e ho pensato, che strano, si è dimenticata dove abita?». Parla come un insegnante che prende in giro uno studente, o un poliziotto che ha appena incastrato qualcuno e si sta divertendo un mondo.
«E alla fine sono riuscito a raggiungerti qui. Ma sembrava che avessi compagnia, quindi ho pensato: aspetterò finché quelle persone non saranno andate via prima di bussare e farti notare che sei venuta nella casa sbagliata. Sono parenti? Magari genitori? Sì, esatto; è probabile che siano tua madre e tuo padre».
Sento i nervi irrigidirsi quando nomina i miei genitori, che pochi minuti fa erano seduti nel mio salotto. Sono tornata a casa soltanto perché potessero venire a trovarmi. Non esiste che vengano a sapere la verità: che vivo in una camera in affitto all’ultimo piano di una vecchia casa nobiliare. Comincerebbero subito a bombardarmi di domande e pretenderebbero di sapere che diavolo sta succedendo.
Racconto a Jack una mezza verità. «È vero, questa è casa mia. La sto mettendo in affitto per guadagnarci qualcosa. La coppia che hai visto era venuta a vederla. Ovviamente, nel frattempo mi serve un posto dove vivere, quindi ho preso la stanza da te e da Martha. È un problema?».
Mi ignora. Guarda di nuovo la casa dall’alto in basso e scruta il giardino anteriore. Poi si volta verso di me. Il sarcasmo non c’è più. La voce ora è pungente e minacciosa. «A che gioco stai giocando, Lisa? Qual è il tuo scopo?».
Ormai mi sono leggermente ripresa dalla sorpresa. «Non sto giocando a nessun gioco e non ho nessuno scopo. E non mi piace essere seguita per la città dal mio padrone di casa. Sono piuttosto sicura che rientri fra le molestie. Magari parlo con un avvocato e vediamo che cosa ne pensa».
Solleva una mano come se volesse mettermela intorno alla gola e stringere. L’istinto mi dice di chiudermi subito in casa per proteggermi. Ma mi rifiuto di farlo.
Poi stringe il pugno e abbassa la mano lungo il fianco. «Credi che non sappia che cosa hai in mente? Credi che sia stupido? Conosco i tuoi giochetti e adesso ti avverto: se non lasci perdere, non fai le valigie e non esci da casa nostra, non risponderò delle conseguenze». Mi si avvicina, e i suoi sputi mi arrivano in faccia. «Hai capito?»
«Capisco che ho un contratto con una valenza legale di sei mesi. Il fatto che io metta in affitto la mia casa non infrange nessuna regola del nostro accordo».
Increspa un labbro e mi guarda con occhi furibondi, come se non fossi che sporcizia per strada. «Ti senti così furba, eh! Ricordati di non dire gatto… O». Si dà uno schiaffo su una mano. «Come sono indelicato, è un po’ di cattivo gusto da parte mia, dopo quel che è successo al micio di quella vecchia strega che vive nella casa accanto alla nostra». Mi punta un dito in faccia. «Sei avvisata».
«Mi stai minacciando?».
Mi rivolge un’altra occhiata di sdegno per poi girare i tacchi, andarsene via lungo il vialetto e sbattere il cancello dietro di sé. Nonostante abbia ostentato sicurezza di fronte alle sue minacce, sono pietrificata. Se torno da lui e Martha, chissà quali scherzi e giochetti avrà in serbo per me Jack. Non riesco a capire perché sia così arrabbiato. A lui cosa importa se ho già una casa? Ci guadagna comunque un affitto. E gli servono i soldi, a giudicare da quanto mi ha confidato Martha.
La risposta è ovvia. Jack sta nascondendo qualcosa. Proprio come sta nascondendo cosa sia accaduto all’inquilino che ha abitato nella stanza prima di me.
Ma non è l’unico ad avere dei segreti.
«Perché ha finto di non aver aiutato la mia famiglia nell’incidente che ho avuto quando ero piccola?». Sputo in faccia al dottor Wilson la domanda che mi tormenta non appena mi siedo sul bordo della sedia nel suo studio.
Avverto un senso di trionfo quando smette di scrivere su quel maledetto e irritante taccuino. Mi sento come se gliel’avessi strappato di mano e ridotto in mille pezzi minuscoli. Non mi è sembrato molto contento di vedermi, ma immagino che per questioni di professionalità non abbia potuto cacciarmi via. Forse ha pensato che se non mi avesse fatto entrare, avrei potuto farmi qualcosa di spiacevole, come quattro mesi fa.
«Hai parlato con i tuoi genitori come ti ho consigliato di fare?», ribatte in tono calmo.
Quest’uomo è un maestro nel suo campo. A prescindere da cosa io gli riversi addosso sa sempre come tornare in tema e assicurarsi che tutto scorra nella direzione da lui stabilita.
Ma io insisto, cadendo quasi dalla sedia. «E il modo in cui papà parla di lei… non è soltanto un conoscente. Siete stati amici per anni».
Respinge le accuse limitandosi a inarcare un sopracciglio. «È così che ti senti, Lisa? Come se le persone, tutte quante, ti mentissero?».
Ora sta cercando di rigirare le mie parole contro di me, di farmi sentire solo una paranoica. «Sa cosa sto dicendo. Sto parlando del fatto che lei mi ha mentito spudoratamente. Mi ha raccontato che lei non c’era quando ho avuto l’incidente, ma sa benissimo che non è vero».
Prende appunti sul suo blocco, poi alza di nuovo la testa. «Chi te l’ha detto?»
«Mia madre».
«Lisa, ho incontrato tua madre solo in tre occasioni separate. Una volta al circolo del golf di tuo padre…».
«Perché mi sta facendo questo?»
«Facendo cosa?». Continua a scrivere le mie parole.
Digrignando i denti, pronta a provocare qualche danno serio, mi chino e mi tolgo una scarpa, poi la lancio dall’altra parte della stanza.
L’uomo si irrigidisce. «Non tollero comportamenti violenti qui».
«Non si preoccupi, dottore, non torcerò un capello della sua testa da bugiardo».
Mi tolgo la seconda scarpa e la lancio via.
«Non voglio chiamare la polizia, ma date le circostanze potrei non avere alternative».
Non lo sto a sentire mentre salto sul lettino di pelle, poi punto le piante dei piedi verso di lui. Gli mostro la serie di cicatrici che nessuno vede mai. Impallidisce.
«Sono brutte, vero? Quando ero piccola, avevo dato a ognuna un nome in stile Biancaneve e i sette nani». Incrocio una gamba sull’altra per toccarmi il piede. «Questa si chiama Bozzolo perché è piuttosto irregolare, come se qualcosa avesse cercato di strapparmi la carne a morsi. Poi, questa si chiama Fiondolo, perché in inverno mi faceva così male che quando ero piccola mi faceva cadere per terra. Mi fiondava per terra. Fiondolo. L’ha capita?»
«Lisa…».
Non voglio permettergli di interrompermi, così passo all’altro piede. «Su questo piede c’è solo una delle mie carissime amiche, come può vedere. Si chiama Dimenticalo. È così piccola che quasi non c’è. Ma io non la dimentico mai. Non ne dimentico nessuna. Sono così rivoltanti». Abbasso la gamba. «Ho bisogno che lei mi dica che cos’è successo veramente. Che tipo di incidente può lasciare cicatrici del genere sulle piante dei piedi?».
Il medico recupera le scarpe e me le restituisce. «Immagino tu sappia quanto sia irrazionale il tuo comportamento. La gente normale non lancia le scarpe in giro».
«Normale? Perché non dice che cosa intende? Che sono pazza?».
Indietreggia mentre mi rimetto le scarpe. «Non penso che dovremmo continuare per oggi. Voglio che torni domani. Riprenderemo la conversazione da qui».
Sto quasi per accettare quando la noto. La fotografia sulla scrivania. Come ho fatto a non vederla prima? È la stessa foto che ha mio padre appesa al muro del salotto, di lui ai tempi dell’università con altri due compagni di medicina. Questa foto è leggermente diversa; nessuno dei ragazzi indossa le mascherine da chirurgo a mo’ di travestimento. Hanno i volti ben visibili. Noto papà, affascinante e pronto a conquistare il mondo. Non riconosco il secondo, ma so bene chi è il terzo: il dottor Wilson.
Il medico nota dove ho posato lo sguardo. Attraversa la stanza e con fare impassibile rovescia a faccia in giù la cornice, poi mi fissa con aria di sfida. Dopo questa scoperta potrei tartassarlo di domande, ma sarebbe inutile. Non rivelerebbe nulla e si limiterebbe a vomitare i suoi insulsi bla-bla-bla da strizzacervelli. Non importa. Non mi serve più una confessione da parte sua.
Arrivata alla porta, gli dico: «Con i miei piedi pieni di cicatrici, ho percorso le strade di Londra in cerca della casa che appare nei miei ricordi. L’ho fatto per anni. Non riuscivo a smettere».
«Quale casa?». Scuote la testa, aggrottando la fronte in un’espressione confusa.
«La casa dove so che avvenne in realtà l’incidente di quando avevo cinque anni».
«Lisa, non esiste nessuna casa». Mi guarda con compassione. «L’incidente è avvenuto in una fattoria, come ti hanno detto i tuoi genitori».
«Si sbaglia».
Stavolta sente che c’è qualcosa di diverso nella mia risposta. Allora è quasi senza fiato quando mi rivolge la domanda successiva. «Che intendi dire?»
«L’ho trovata. La casa».
«Lisa?». Non sembra più un medico ma un uomo che ha appena preso un pugno a tradimento.
«Ora vivo nella stanza degli ospiti di quella casa. La casa dei miei incubi».