Ventotto
I colpi violenti alla porta d’ingresso mi riscuotono dal sonno. Disperata, guardo le pareti intorno a me. Mugugno. Ancora di un funereo nero. Sembra che i muri si siano avvicinati tra loro di qualche centimetro, trasformando quella che prima era una stanza degli ospiti in una galleria che porta all’inferno. Era così anche per John Peters? Un inferno sulla Terra?
Cerco con la mano la bottiglia d’acqua, desiderosa di bagnarmi la bocca, stranamente secca. Con dei movimenti fiacchi, svito il tappo e avvicino la bottiglia alle labbra.
Il grido furioso dal pianoterra mi ferma prima che io possa bere.
«Dov’è mia figlia? Che cosa le avete fatto?».
È mio padre. Mi ci vuole qualche istante prima che riesca a capire cosa sta accadendo. Che diavolo ci fa lui qui? E come ha fatto a trovarmi?
Mentre mi sollevo a fatica dal letto, sento Jack che gli risponde: «Non so di cosa stai parlando, amico. Ora sparisci, da bravo; questa è proprietà privata. Ehi, dove credi di andare?».
A giudicare dai rumori sembra che ci sia una colluttazione all’ingresso. La mia mente distorta fa sì che le pareti scure si avvicinino ancora di più mentre traballo verso la porta. Avanzo a passo incerto, scuotendo la testa nel tentativo di schiarire le idee. Se papà mi vede in questo stato non oso immaginare cosa dirà. Scendo giù per le scale, con la sensazione di strisciare, più che camminare. Giunta in fondo oscillo sui talloni e mi fermo. Conto e respiro:
Uno, due, allaccio la scarpa.
Tre, quattro, busso alla porta.
I rumori al pianoterra si fanno sempre più forti.
Non c’è più tempo per contare e respirare; devo scendere di sotto. Subito. Quando raggiungo l’ingresso, mi fermo nel cuore della casa, sul tappeto, allarmata dalla scena che mi trovo di fronte. Papà sta cercando di farsi strada a forza oltre il mio padrone di casa, ma Jack non ne vuole sapere e con le mani enormi lo respinge.
Quando papà mi vede da sopra la spalla di Jack, grida: «Prendi le tue cose. Ce ne andiamo da questo posto. Ti riportiamo a casa».
Sono troppo sconvolta per dire qualcosa.
A un tratto compare Martha e mi scivola accanto andando a posizionarsi vicino al marito. «Chi diavolo è lei?»
«Sono il padre di Lisa e se non mi permettete di portare via mia figlia chiamo la polizia».
Martha lo squadra dalla testa ai piedi. La sua voce è calma quando parla. «Se lei non se ne va dall’ingresso di casa mia, sarò io a chiamare la polizia».
Ancora una volta, papà tenta di superare Jack e ancora una volta fallisce.
È agitato. «Non vado assolutamente da nessuna parte senza mia figlia».
Allora Martha si volta e mi lancia un’occhiata curiosa. «Conosci quest’uomo?».
Sono imbarazzata. Proprio come ti imbarazzano i tuoi genitori da adolescente. «È mio padre».
«Be’, farai meglio a uscire e a risolvere la situazione. E permettimi di ricordarti», aggiunge scandendo bene le parole, «che i tuoi genitori hanno il permesso di venirti a trovare, ma soltanto dopo aver dato il dovuto preavviso a me e a Jack».
A testa bassa, passo accanto a Jack ed esco di casa. La porta si chiude, ma non del tutto; sono sicura che Jack e Martha siano rimasti lì dietro a origliare, tutti compiaciuti.
Grido quando mio padre mi afferra per un braccio e mi trascina giù per il vialetto dove ha parcheggiato. Sul sedile del passeggero c’è mamma, con un’espressione carica di preoccupazione dipinta sul volto.
«Che diavolo sta succedendo, ragazzina?». Papà sta ancora gridando, mentre mi conficca le dita nella carne. Mio padre non è mai violento, mai. «Queste persone ti hanno fatto del male? Che cosa ci fai qui?».
Non so davvero cosa rispondere. Avevo immaginato diversi scenari quando sono venuta a stare nella casa con il simbolo del costruttore sulla facciata, ma di certo non avevo previsto che i miei genitori potessero rintracciarmi fino a qui.
Cerco di sembrare calma e offesa dal loro intervento, ma sono consapevole che non ci riuscirò. «Ho preso in affitto una stanza, tutto qua. È più comodo per il lavoro. Ora, per favore, andate via».
«Non mentire!».
Sento la guancia pulsare. Per un momento, non sono nemmeno sicura di cosa sia accaduto, finché non capisco che mi ha appena dato uno schiaffo. Non sono mai stata picchiata dai miei genitori prima d’ora e non riesco a crederci. Ha il viso contorto dalla paura e dall’odio e ora ho davvero paura di lui, per la prima volta in vita mia. In quello stesso momento, sento un gemito di disperazione dall’auto, poi la portiera del passeggero si spalanca e mia madre corre da noi per cercare di separarci.
È ovvio che ha pianto. «Edward! Edward, cosa stai facendo? Non picchiarla».
Papà fa un paio di passi indietro. Sembra distrutto, un po’ come mi sentivo io quando ero stesa sul letto.
«Mi dispiace, Lisa. Sai che non ti ho mai fatto del male». La sua voce diventa calma e controllata, ma sembra più severa di qualunque grido. «Sali in auto. Io vado dentro a prendere le tue cose». Si è già voltato dall’altra parte.
«Non ti azzardare».
Mi precipito dietro di lui, ma mia madre mi afferra per un braccio e mi trattiene. Lottiamo per un momento, ma lei è sorprendentemente forte e io sorprendentemente debole. Non riesco a liberarmi.
Allora con uno strattone mi volta verso di sé. «Lisa, tesoro, che succede? Cosa ci fai qui? Perché non vivi più a casa tua?».
Sono sul punto di raccontarle che mi sono trasferita più vicino al lavoro, ma non ho il cuore di farlo perché la vedo troppo turbata.
«Lisa, tu non stai bene. Hai un aspetto terribile, mio bellissimo angelo. Devi venire a casa con noi adesso».
Papà spalanca di nuovo la porta di casa. Mi sorprende che Martha e Jack non tentino nemmeno di fermarlo. Non si scambiano una sola parola. Forse hanno visto che mi ha picchiata e non vogliono interferire. O forse hanno solo capito che è un’opportunità perfetta per sbarazzarsi di me senza finire in tribunale. Un gran colpo di fortuna per loro.
Papà sale i gradini a due a due e si precipita in camera mia.
«Lisa? Mi stai ascoltando?». La mamma cerca di attirare di nuovo la mia attenzione. «Non mi sembra che tu abbia mangiato, né dormito». È sull’orlo delle lacrime, preoccupatissima. Mi avvolge nel suo abbraccio.
Allora io mi appoggio a lei, sentendomi d’un tratto sfinita. Sono così stanca. È quel genere di stanchezza che ti fa desiderare di sdraiarti in un parco da qualche parte a dormire.
Dormire. Dormire. Dormire.
Sembra molto più facile accettare che andrò via con loro. Dire addio a questa casa e ai suoi segreti, che probabilmente mi farebbero comunque del male. Abbandonare questa caccia che mi sta lentamente distruggendo.
L’assassina di gatti e il coltivatore di cannabis ora sono in piedi davanti a casa con un’espressione vacua, mentre fissano me e la mamma. Papà sbuca fuori all’improvviso, con in mano un borsone in cui ha ficcato tutte le mie cose. Sto tremando anche se non fa freddo. Papà getta la borsa nel bagagliaio dell’auto e poi mi prende per un braccio. Lascio che mi trascini sul sedile posteriore. Quando si sistema al volante, per qualche momento china la testa all’indietro in quello che sembra un gesto di sollievo. Mette in moto. Ce ne andiamo.
Per un attimo, condivido il senso di sollievo di mio padre. Ma poi guardo fuori dal lunotto posteriore. Non guardo Martha e Jack, ancora in piedi sulla soglia, ma la casa. Le ampie finestre che tengono nascosti i loro segreti a me e al mondo esterno. La facciata di mattoni che sembra diventare sempre più cupa, più ostile, ogni volta che la vedo. Il simbolo del costruttore è ancora lo stesso. La mia bussola per ritrovare il passato.
In qualche anfratto nascosto della memoria, e dell’anima, sono di nuovo quella bambina di cinque anni che viene portata via da questa casa. Che cosa sto facendo? Non posso andarmene, non adesso. Devo restare e capire, a prescindere da quanto possa essere sfinita, esausta e spaventata.
Se non lo faccio, non sarò in grado di andare avanti. Questa strada porta solo alla vodka e alle pillole e…
Inizio ad armeggiare con la maniglia dell’auto. Mia madre grida e mi afferra per impedirmi di saltare giù dall’auto in corsa. Papà urla da sopra la spalla, ma non riesco a sentire cosa sta dicendo. L’auto sussulta e vira fuori dal vialetto prima di raggiungere il viale.
Salto fuori, lontano dall’abbraccio amorevole di mia madre, e torno dritto verso casa. Inciampo su una zolla di sassi ed erba e cado. A terra è umido e freddo e io striscio verso la porta d’ingresso come un pellegrino in cerca della salvezza. I singhiozzi di mamma non si placano.
Alzo lo sguardo. Papà è in piedi sopra di me. Non tenta di trascinarmi via. Al contrario posa le mie cose a terra, accanto a me.
La sua voce è calma e contenuta. «Molto bene, Lisa. Fa’ come ti pare. Abbiamo altri metodi per salvarti, non dimenticarlo». Si volta per andare via, ma poi aggiunge: «Lo facciamo solo perché ti amiamo. Lo sai questo, vero?».
Vorrei parlare, rassicurarlo, ma la bocca non si muove. I suoi piedi scricchiolano sulla ghiaia mentre cammina verso l’auto. Sbatte la portiera, a dimostrazione delle sue vere emozioni. I miei adorati genitori se ne vanno. E io mi sento male. Male perché sto causando loro così tanto dolore insopportabile. Ma potrebbero porre fine a tutto questo, se solo mi dicessero la verità.
Ora è tutto tranquillo. Gli uccellini cantano. Potrei restare qui stesa per sempre, a fissare il cielo di un azzurro sfolgorante, a inspirare l’aria leggera dell’estate. Vorrei alzarmi, ma non credo di riuscirci. Non so per quanto tempo resto stesa lì. Forse solo per un minuto o due prima di vedere una sagoma che svetta su di me. È Martha. Non c’è traccia di Jack.
Mi rivolge un sorriso. «Sei una combattente, Lisa, te lo concedo. Solo che combatti per le cose sbagliate. Saresti dovuta andare via con i tuoi genitori. Se solo mi avessero avvertito del loro arrivo, invece di piombare qui come due ultrà di calcio, li avrei aiutati».
«È per questo che tu…?». Mi trattengo, meglio evitare un confronto diretto con lei sulla mia stanza dipinta di nero. Potrebbe spingerla a compiere chissà quale atto terribile nei miei confronti.
Martha china il capo e il sole sembra non esserle più amico, mettendo in risalto le rughe e le grinze sotto strati e strati di trucco. «Per questo, cosa?»
«Per questo che li hai lasciati entrare?». La bugia mi viene in mente senza difficoltà.
Mi porge una mano per aiutarmi ad alzarmi, ma io non l’accetto. Fatico a rimettermi in piedi da sola. Martha fa spallucce e torna in casa. Dopo che se n’è andata, raccolgo il borsone con le dita malferme e percorro la breve distanza che mi separa dalla casa con gli occhi fissi sulla mia chiave speciale scolpita nel simbolo del costruttore.
Tuttavia, la mente è concentrata su qualcos’altro.
C’è solo un modo in cui i miei genitori possono aver scoperto che vivo in questa casa.
Dovrebbe fare caldo, ma la brezza estiva mi scava nella pelle come una pioggia di schegge di ghiaccio quando l’indomani avanzo come una pazza verso lo studio del dottor Wilson. Sono determinata a vuotare il sacco con lui. Mi ha venduta ai miei genitori. Ha raccontato loro dove vivo adesso. Alla faccia della sacra riservatezza dottore-paziente. Io gli ho rivelato i miei più profondi segreti e lui… Come ha potuto farmi questo?
Almeno ho trascorso una buona notte di sonno. Senza incubi, senza sonnambulismo. Forse sto migliorando senza accorgermene. Certo, e i Beatles stanno per tornare insieme. Ho preso un paio di pillole per calmare i nervi. Cammino, con la sensazione che le gambe appartengano a un’altra persona, attraverso le strade più lussuose di Hampstead, chiusa nella mia bolla. La mente non si dà pace ripensando a quanto ha fatto il dottor Wilson.
La risatina squillante di un bambino accanto alla madre, che spinge un passeggino, mi fa voltare la testa. Ed è allora che la vedo. Una donna che sta uscendo dalla metropolitana di Hampstead, con un completo nero di sartoria, tacchi incredibilmente alti e un cappello di paglia da barcaiolo a righe nere, inclinato da una parte in maniera sbarazzina. Ha una borsa elegante e avanza con la grazia di una modella diretta alle passerelle della Settimana della moda di New York. In un primo momento penso: Wow, quella donna è la copia spiccicata di Martha. Eppure si comporta in maniera diversa dalla Martha che conosco.
Ha lo stesso portamento elegante della mia padrona di casa, tuttavia questa donna sprizza arroganza da tutti i pori. Incede a testa alta; distoglie lo sguardo dai passanti come se non li reputasse degni di camminare per le strade di North London insieme a lei. Io mi fermo sulla soglia di un negozio e fingo di guardare una vetrina quando questa donna dall’aria chic e intoccabile mi fluttua accanto.
Il respiro mi rimane incastrato sulla lingua. È davvero Martha.
Perché sono così scioccata di vederla qui? Non lo so. Non c’è nessuna legge che impedisca alla mia padrona di casa di trovarsi in questa parte di Londra, né di assomigliare più che mai a una modella. Ma non si tratta di questo. Non sono abituata a vederla nei panni di una che se ne va in giro come se fosse la padrona del mondo. Di solito non sembra nemmeno che sia lei la proprietaria di casa sua, figuriamoci di Hampstead.
Esco dalla porta del negozio e la osservo mentre si allontana. Non c’è ragione per cui non dovrei chiamarla e salutarla; non ho nessun problema con lei. Invece, la osservo girare a sinistra su una strada laterale, una via che ho avuto modo di conoscere molto bene nelle ultime settimane. La stradina è in una zona senza negozi. Che stia andando a trovare qualcuno?
Allora mi domando…
Affretto il passo e la seguo. Martha svolta in un’altra stradina laterale, la stessa che ho percorso io pochi minuti prima. La osservo con discrezione mentre scruta le case e le villette. In cerca… di cosa? La borsa firmata le cade rigida lungo il fianco quando trova l’edificio che stava cercando. Martha raggiunge la porta. Adesso devo stare attenta. Mi acquatto e sgambetto dietro una delle tante auto parcheggiate, fino a trovarmi a circa venti metri dal punto in cui Martha sta guardando con sdegno una placca di ottone sopra un campanello. Ora non ci sono più dubbi. Sta proprio andando a trovare qualcuno.
Il dottor Wilson.
Preme il campanello. Nessuna risposta. Martha suona di nuovo, impaziente, e ci lascia sopra il dito per almeno cinque secondi. La porta si apre lentamente. Non riesco a vedere chi sia, ma immagino si tratti del buon dottore. Martha tira indietro la testa e parla come se si stesse rivolgendo a un servo, poi l’altra persona le risponde con qualche parola, ma non riesco a sentire che cosa dice. A quel punto la porta si spalanca. Martha entra. La porta si richiude alle sue spalle.
Mi alzo e scuoto la testa, incredula. Non è che io non riesca a credere che possa andare da uno strizzacervelli. Chi non ci va? Ma quante probabilità ci sono che si sia rivolta allo stesso da cui vado io? Non è una coincidenza un po’ troppo grossa? E che dire dell’onorario? Il dottor Wilson non è certo economico. Un migliaio di sterline solo per dargli un colpo di telefono, figuriamoci stendersi sul suo lettino. Dove prende tutti quei soldi? Jack il tuttofare in realtà non sa fare quasi nulla; sembra che non abbia mai da lavorare e la casa cade a pezzi perché non ci sono i soldi per rimetterla a posto. Inoltre, Martha mi ha detto che una delle ragioni per cui vivo in quella casa è che Jack ha bisogno di un’entrata extra.
Sono così persa nei pensieri che quasi non mi accorgo che un paio di minuti dopo la porta del dottor Wilson si spalanca e la strana coppia esce in strada. Mi acquatto di nuovo dietro il cofano. I due passano accanto al mio nascondiglio.
Mentre camminano, le parole dell’uomo mi arrivano chiare all’orecchio.
«Avresti dovuto telefonare prima. Non mi piace essere messo alle strette in questo modo». La sua voce è fredda come l’acciaio. Di certo uno psichiatra non userebbe mai un tono così sprezzante con una paziente.
La voce di lei è altrettanto dura. «No. Scommetto di no».
Le due voci adirate si intrecciano via via fra loro e sfumano finché la coppia non è più a portata d’orecchio. Ho le nocche delle mani sbiancate, anche se non mi sono accorta di aver stretto i pugni. È da ieri che sono infuriata perché il dottor Wilson ha raccontato ai miei che vivo in quella casa. Ora sono paralizzata dalla paura all’idea che possa dire qualcosa alla mia padrona di casa, inavvertitamente o meno. Per esempio che l’inquilina che vive in affitto da lei ha scelto quella casa di proposito.
Che sia una sua paziente? Che sia una sua paziente? Questa ipotesi mi rigira nella testa come un mantra. Quanto spero sia la verità. L’alternativa… non riesco nemmeno a pensarci. Non sopporto l’idea che Martha stia cercando di buttarmi fuori. E se chiamasse Jack e io trovassi di nuovo tutte le mie cose impilate sul pavimento? Sono arrivata fino a questo punto e non voglio – non posso – permettere che qualcosa mi sbarri la strada che mi porterà alla verità.
Vengo colta da un senso di urgenza. Un bisogno spasmodico di tornare a casa e… Cosa? Barricarmi nella stanza? Continuare a comportarmi come se non avessi visto Martha con il buon dottore? Sì, è ciò che farò. Fingere. Ormai sono una maestra nell’arte della finzione.
Mi affretto lungo la strada, con i passi che stridono sul terreno compatto, per tenerli d’occhio, anche se non so bene a quale scopo. E se fingessi di imbattermi in loro per caso, facendogli capire che so cosa sta succedendo? No, è assolutamente stupido! Non devo farglielo sapere.
Li intravedo mentre svoltano nella strada che porta al viale principale. Quando raggiungo l’angolo, sono scomparsi. L’adrenalina che mi scorre rapida nelle vene mi fa tremare tutto il corpo. Dove sono andati? Sbircio nel primo pub che incontro. Non c’è traccia dei due. Una caffetteria: nemmeno lì. Con aria distratta, butto giù una pillola per calmare i nervi iperattivi.
Pensa. Pensa. Pensa.
Torno sui miei passi. Controllo di nuovo dentro la caffetteria. Ah, eccoli lì. Nascosti nel loro piccolo mondo a un tavolo sul retro del locale. Mi vedranno se entro, così resto a fissarli dalla vetrata. Si possono capire un sacco di cose di una persona soltanto osservandola.
Il dottore sta parlando con un atteggiamento teso, evitando lo sguardo di lei. Sulle labbra truccate alla perfezione di Martha c’è un ghigno di sbieco che indica rabbia. A un tratto scatta dalla sedia con un tale impeto da farmi trasalire.
Il dottor Wilson appare imbarazzato da quello che lei gli dice subito dopo, ma non ribatte e gesticolando la invita a sedersi di nuovo. Al contrario, lei afferra la borsa dal tavolo e si sporge in avanti. Gli sussurra all’orecchio parole che solo lui può sentire. La sua bocca si muove così in fretta che le labbra assomigliano a due vermi rossi che le si contorcono sulla faccia.
Senza perdere tempo, mi volto di spalle per metà, con lo sguardo rivolto verso il salone di bellezza della porta accanto. Clic clic clic. È il rumore dei tacchi di Martha che marciano verso la porta. Un delicato profumo di agrumi mi sfiora le narici: Martha è tornata in strada. Mi volto completamente dall’altra parte. Non deve vedermi. Quando li guardo da sopra la spalla, sono faccia a faccia per strada.
Mi sembra di sentire il dottor Wilson che dice: «Lei avrebbe dovuto essere la tua migliore amica…».
Un camion passa vicino ai due e non riesco a sentire il resto.
Clic clic clic; la donna se ne sta andando.
Allora lui le grida dietro: «Non minacciarmi, Martha. Non mi lascerò intimidire. Ho la coscienza pulita!».
«Non ti lascerai intimidire?». Martha deve aver deciso di affrontarlo di nuovo. Immagino la stessa posa da diva di Hollywood che aveva la notte in cui è venuta in camera mia dopo che lei e Jack hanno cercato di cacciarmi via. «Razza di omuncolo patetico! Ti spezzerò come un ramoscello!».
E se ne va di nuovo. Stavolta lui non la ferma. Si sente il rumore di un’auto che si avvicina. Si ferma. Una portiera si chiude di botto. Il motore romba e l’auto si allontana. Immagino che abbia chiamato un taxi.
Il dottor Wilson inizia a muoversi e io trovo il coraggio di voltarmi verso di lui. Ha le spalle ricurve e sì, sta tremando. Sta forse piangendo? Questa volta non lo seguo.
A cosa ho appena assistito e cosa ho appena sentito? Un dottore e una paziente che sono diventati troppo intimi? Un uomo che ha appena svelato i miei segreti più personali? O due amici che hanno litigato? Restarmene lì in mezzo alla strada non mi aiuterà a scoprirlo. C’è solo una cosa da fare quando sarò tornata a casa: aspettare.
Lascerò che sia Martha a fare la prima mossa.