Dodici

L’indomani, quando entro nel pub di Soho, ho un sussulto. La luce non è fioca e calda, ma accecante e chiassosa come la calca all’interno del locale, composta in prevalenza da giovani pieni di vita. È troppo affollato, la musica e le voci che chiacchierano fanno a gara per farsi sentire. Sono quasi sul punto di girare i tacchi e andarmene. Poi individuo Alex che svetta in fondo al bancone. Anche lui mi vede. Mi faccio forza e ricordo a me stessa il motivo per cui sono qui.

Non è il solito Alex sorridente. Di certo non è felice di vedermi; non posso biasimarlo, dopo che gli ho voltato le spalle l’ultima volta che le nostre strade si sono incrociate a casa di Patsy. Attenzione, però: è stato lui a mollarmi, non il contrario.

Lo raggiungo e non posso far altro che entrare in contatto con i corpi accanto a me in maniera fin troppo intima.

«Come te la passi?», inizio con una domanda sicura.

La risposta mi riporta con la mente in luoghi dove non vorrei andare: «Mi dispiace per come sono finite le cose fra noi. Avrei dovuto gestirla in modo diverso».

«Non credo esista un modo innocuo per porre fine a una storia. O sei innamorato di qualcuno o non lo sei, e tu hai deciso che senza alcun dubbio non eri innamorato di me». La mia voce è intrisa di un rancore sfacciato. Subito dopo, vorrei rimangiarmi tutto; non sono mai stata brava ad affrontare la sensazione di essere ferita.

Lui ha un’aria arrabbiata quando avvicina il volto a pochi centimetri dal mio. «Questo non è giusto. Data la situazione, che diavolo avrei dovuto fare?»

«Fai sul serio? Vuoi davvero che torniamo sulla questione?». Trattengo un moto di rabbia, consapevole della calca che ci circonda, così faccio un bel respiro profondo. Che senso ha arrabbiarmi? Non sono venuta qui per farmi travolgere dal passato.

«Ho bisogno che tu mi faccia un favore, se ti è possibile». Mi congratulo con me stessa per aver recuperato la calma.

Lui resta sospettoso e sulla difensiva. «Ma certo. Se sono in grado di aiutarti, lo farò».

«Tu parli diverse lingue, vero?»

«Sssì». Allunga la parola con aria diffidente.

Appoggio la borsa sul bancone e tiro fuori il cellulare. Lo apro e lo giro verso di lui. «Sei in grado di leggere questo?».

È una foto della riga scritta a matita in fondo alla lettera d’addio. Alex prende in mano il cellulare, corrucciando le sopracciglia mentre esamina la frase.

«È cirillico…».

«Cosa?». Mi scervello. Non ricordo di aver mai sentito parlare di un Paese di nome Cirillica o Cirillandia. Imparare le lingue a scuola per me era una specie di tortura forzata. Io andavo forte con i numeri, non con le parole.

Mi lancia un’occhiata fugace, poi torna a posare lo sguardo sullo schermo. «È russo». Ah! «Lo parlo da quando ero bambino. Mia nonna è russa. Lei è convinta che se un bambino della famiglia non lo impara succederà un disastro. Forse ha ragione». Fa intravedere il fantasma di un sorriso, lasciando trasparire l’affetto che nutre per la nonna. Devono essere molto legati.

Resto affascinata. Non siamo mai arrivati alla fase in cui si parla delle famiglie. Oltre alla nonna deve avere anche una madre e un padre. Ha fratelli e sorelle? Certo, Patsy mi ha detto di essere amica della nonna di Alex e di considerarlo una sorta di nipote onorario. Non riesco a nascondere la nostalgia che provo mentre lo guardo. In fretta, abbasso gli occhi sul telefono. Ho bisogno di tenere a bada le emozioni; be’, almeno di fronte ad Alex.

«Sai leggerlo?»

«Sì».

Mi lascio sfuggire un sospiro di frustrazione. A volte prende le cose in maniera un po’ troppo letterale e ha bisogno di una spintarella. «Questo l’avevo capito. Puoi dirmi cosa dice?»

«Ah, sì, certo». È imbarazzato ma sorride. Mi piace un sacco il suo sorriso. Vorrei poterlo bloccare in questo momento, impacchettarlo e portarmelo a casa.

«Sono versi del poeta russo Etienne Solanov. Era un amico, un compagno, di Puškin».

Vorrei fingere di sapere di chi sta parlando, ma poi cambio idea. Ho sentito a malapena nominare Puškin. «Chi era?».

Ovviamente Alex lo conosce benissimo. «Era un autore minore che per un po’ si è guadagnato la reputazione di “messo della morte”. Sai, chi stava per andare in guerra, o era condannato in cella, o considerava l’idea del suicidio, teneva con sé un libro delle sue poesie per passare il tempo».

«E che cosa gli accadde?».

Alex ride. «Iniziò una relazione con la moglie di qualcun altro solo per provocare il marito e sfidarlo a duello, avendo così modo di farsi sparare. Credo che all’epoca avesse ventisei anni».

«Be’, immagino che fosse l’anima delle feste. Che cosa dice la frase?».

Alex studia i versi. «“Altri potranno attendere che qualcuno spenga per loro le candele. Io sono felice di spegnerle da solo”». Alex mi guarda. «Accidenti, che pensiero tetro».

Che il mio uomo della lettera stesse parlando della propria candela? Meditava di spazzare via la propria vita con un soffio? Tengo per me i miei pensieri deprimenti.

Al contrario, scelgo di procedere su un terreno sicuro. «Come fai a saperne così tanto dell’opera di questo poeta?»

«Mia nonna lo ama in modo particolare. Ha la raccolta completa della sua opera anche in russo». Assume un’aria malinconica. «Me la leggeva sempre quando ero un ragazzino».

«Pare proprio che voi due abbiate un ottimo rapporto».

Il suo viso si rattrista, perso nei ricordi di sé e della donna che ovviamente ama tantissimo.

«La nonna venne in Inghilterra praticamente senza nulla. Si sistemò nell’East End. Lavorava nel commercio di stoffe per pochi spiccioli, ma quando mi racconta della propria vita non si lamenta mai». La sua voce si riempie di emozione contenuta. «“Le cose belle accadono a chi sa aspettare”. È questo che mi diceva sempre».

Le cose belle accadono a chi sa aspettare. La sua adorata nonna si sbagliava. In questa vita non puoi permetterti di aspettare. A volte devi uscire allo scoperto e prenderti quello che ti spetta.

«Posso chiederti di tradurre un’altra cosa?», gli domando esitante.

«Nessun problema».

Scelgo con cura le parole con cui formulare la richiesta. Poi mi butto. «Non sono stata in grado di portare con me la scritta. È nella mia camera».

«Wow». Mi ferma. «Vuoi davvero imboccare questa strada di nuovo?»

«Quale strada?». Sono confusa. Di che diamine va blaterando?

«Se vengo là… nella tua stanza… che cosa succederà? Finiremo a letto insieme, e non ho bisogno di un’altra scenata».

Stanza. Letto. Scenata.

D’un tratto capisco dove vuole arrivare. È questo che significava per lui fare l’amore con me? Una scenata?

Tiro indietro la testa, furibonda. «Sai una cosa, Alex? Quando tua nonna ti ha insegnato tutte queste belle poesie avrebbe dovuto dedicare un po’ di tempo a insegnarti anche le buone maniere. Non mi interessa il tuo corpo, hai capito? La frase in russo che ho bisogno di tradurre non è scritta sulla mia coperta».

Allora getta le braccia in aria con un gesto di stizza per sottolineare il suo sdegno. «Lisa, non posso farmi coinvolgere di nuovo da tutta questa follia. I tuoi comportamenti da pazza».

Un secchio di acqua gelata sarebbe stato più caldo delle parole di rabbia che mi rovescia addosso. «Non parlarmi così». Ora sono turbata e sto facendo del mio meglio per tenere a bada le emozioni. «Io. Non. Sono. Pazza».

«Non sto dicendo che sei pazza».

Pazza. Pazza. Pazza. Questa parola mi rimbomba nella testa, come un ospite indesiderato di cui non riesco a sbarazzarmi.

«È pazza?». Ecco cos’ha chiesto mia madre al medico con un filo di voce sottile e tremante mentre io ero in ospedale dopo l’incidente. Ero in uno stato di semi-incoscienza, la mamma non aveva idea che potessi sentire tutte le chiacchiere che mi sussurravano intorno. Avrei voluto urlare fino a farmi uscire gli occhi dalle orbite. Sprofondare e sparire per sempre dentro il materasso. Distrutta. Devastata. Ecco come mi ero sentita. Ed è così che deve essersi sentito anche l’uomo che viveva nella mia stanza. Non ce la faccio a stare a sentire Alex che me lo rinfaccia ancora adesso.

Afferro la borsa. «Alex. Fottiti».

Me ne vado. Io e la mia rabbia ci facciamo strada in mezzo alla gente. Qualcuno mi lancia un improperio dietro la schiena per la mia maleducazione. Che si fottano anche loro. L’aria fredda all’esterno mi colpisce e la inspiro più in fretta che posso, con il petto che si alza e si abbassa in un oceano di emozioni indesiderate. Dimentico del tutto la missione, concentrandomi soltanto sulla volontà di andare via.

A un tratto la sua mano mi afferra il braccio. Ansimo. Alex mi volta in modo che io lo guardi in faccia. Il trambusto della strada è assordante, così mi trascina in un angolo vuoto accanto a un sushi bar stipato di persone. Incrociamo lo sguardo, poi ci voltiamo. Entrambi spostiamo il peso del corpo da un piede all’altro, mentre ci ritroviamo di nuovo in preda all’imbarazzo.

Sono io a parlare per prima. «Non volevo scattare così là dentro». Deglutisco. «So che non sono una delle tue solite fidanzate normali, ma io sono fatta così e mi rifiuto di scusarmi per questo».

Mi ferma sollevando il palmo della mano a mezz’aria. «Passerò a leggere quella frase». La sua espressione si fa cupa. «A quanto mi ha raccontato zia Patsy, in pratica i tuoi padroni di casa sono membri onorari del club degli psicopatici. Una bella coppia di brutte persone».

«È Jack che tiene in mano le redini di tutto. Martha è una donna attempata e disillusa, ammaliata da un paio di natiche giovani e appetitose».

«Cogliamo l’attimo. Andiamo».

Si incammina. Gli stringo il braccio abbastanza forte da farlo fermare. È ora di raccontargli la parte difficile del piano. Quella in cui lui penserà che sto davvero dando i numeri.

«Non mi è permesso ricevere dei visitatori, a parte i miei genitori».

«Non capisco. Come facciamo allora?».

Nervosa, mi inumidisco il labbro inferiore. «Dovrò farti entrare di nascosto».

 

Il cellulare suona appena arrivo all’ingresso di Piccadilly Circus. Mi allontano dai turisti ciondolanti che si godono le bellezze di Londra.

È papà. Mi lascio sfuggire un mugugno. Sospetto che voglia controllare se sono andata a parlare con il dottor Wilson.

Assumo un tono di voce festoso e disinvolto. «Ciao, papà. Come stai?».

Si schiarisce la voce; non è mai un buon segno. «Sto bene, e lo stesso vale per tua madre. Ti chiamo al volo per ricordarti che verremo a trovarti mercoledì».

Mi rimangio l’imprecazione che ho già pronta sulla punta della lingua. Come ho fatto a dimenticare di aver accettato che venissero a farmi visita?

«Papà, ho davvero un sacco di lavoro questa settimana. Sono impegnatissima. Mi dispiace tanto, ma dovremo rimandare».

Vivo nel mondo dei sogni se credo che papà me la faccia passare liscia. E infatti non mi delude. «Tua madre non vede l’ora di salutarti». Fa una pausa, poi ammorbidisce il tono. «Vale per entrambi, a dire il vero. Sarà il cuore tenero dei genitori; abbiamo bisogno di vederti con i nostri occhi».

Considero l’idea di controbattere fino a spuntarla, ma c’è qualcosa di strano nella sua voce. Qualcosa che ho sentito anche mentre mi sussurrava all’orecchio, tenendomi la mano, in ospedale: senso di colpa. Mando giù il dispiacere che mi blocca la gola. Il fatto che il mio meraviglioso padre debba sentirsi in colpa perché io ho cercato di uccidermi, sempre che questo sia davvero ciò che ho tentato di fare, mi riempie di dolore. Non è giusto. Non è giusto che i genitori soffrano quando sono i figli la causa delle proprie sofferenze.

A volte vorrei tornare indietro a quel terribile giorno e ricominciare tutto da capo.

«Ma certo, papà. Anch’io non vedo l’ora di salutarvi tutti e due».

Dopo la telefonata mi incammino giù per i gradini della metropolitana. Supero un enorme cartellone che pubblicizza un nuovo computer. È gigantesco. Occupa tutta la parete. Come una grande scritta sul muro.

Come riuscirò a far entrare Alex in camera mia?