Ventitré
Il mio respiro e quello di Alex crepitano nella stanza, affannati e irregolari, sconvolti dall’impatto di quanto ha appena finito di leggere.
Ci scambiamo un’occhiata di sottecchi. Sono io a cominciare a parlare. «Quindi aveva già pensato di togliersi la vita prima di farlo».
Alex annuisce lentamente. Sbuffa fuori l’aria in maniera irregolare. «Non è stato facile da leggere. A un certo punto mi è quasi venuta voglia di fermarmi».
Mi volto di nuovo verso la scritta, corrucciando la fronte nel tentativo di nascondere la speranza che nutro nel cuore. Tuttavia, trovo comunque il coraggio di dire: «Il cibo, i piatti rotti…».
«Bicchieri a terra», prosegue Alex. «Pensi che si tratti della tua festa di compleanno?». Mi scruta da vicino. Sento ancora il dubbio nella sua voce.
Dentro di me, nel profondo, sento un dolore che mi spinge a desiderare con tutta me stessa che sia così. Eppure… «Non lo so». Il mio viso si contorce mentre rifletto.
«Non voglio certo disilluderti, ma il cibo, i piatti e i bicchieri rotti possono significare qualunque cosa».
Alex ha ragione. Inizio a camminare avanti e indietro, con le braccia incrociate sul petto per la tensione. Mi sento frustrata. Vorrei che la scritta innescasse un ricordo, ma non è così. Niente di tutto ciò che ricordo di quell’epoca è reale. L’unica realtà è quella dei miei tremendi incubi.
Allora lui suggerisce piano: «Vuoi la mia opinione?».
Continuo a camminare mentre annuisco.
«Okay, ecco come la vedo io, a giudicare da quanto ho letto». Mi guarda dritto negli occhi. «L’anno è il 1998. Quindi la data corrisponde al momento in cui hai compiuto cinque anni, quando hai detto che c’è stata una festa di compleanno in tuo onore». Attende una conferma, che gli do subito.
«Quando lui torna la casa è un disastro, come se ci si fosse abbattuto sopra un tornado. Continua a incolpare sé stesso al punto da pensare al suicidio».
Faccio una smorfia: quella parola è così brutale.
Alex continua: «A me sembra la classica scena dopo una rottura. Poco prima c’è stata una lite che è sfociata sul piano fisico. La casa finisce nel caos. Dopo che lui è uscito per andare al lavoro, lei fa le valigie per sé e per i bambini. E se ne vanno. Con il senno di poi, lui incolpa sé stesso. Vorrebbe che la lite non ci fosse mai stata».
«Ma allora cosa intende quando dice che deve mentire? Recitare? Perché usa proprio queste parole?». Scrocio le braccia e cammino verso di lui. «È davvero una scelta lessicale bizzarra da usare per descrivere una lite».
Alex muove in fretta le dita a mezz’aria. «Durante il tirocinio da avvocato, ho fatto uno stage presso un ufficio specializzato in casi di divorzio. C’era un cliente in particolare che stava cercando di impedire alla moglie di divorziare, insistendo sul fatto che l’avesse lasciato da poco. Questo significava che la moglie doveva attendere anni prima di dare il via alle pratiche per il divorzio. Alla fine è saltato fuori che lui aveva mentito e recitato davanti a tutta la famiglia, agli amici e a noi: lei lo aveva lasciato da un anno e mezzo. Aveva finto con tutti che le cose fossero normali, che lei vivesse ancora nella loro casa di famiglia».
Alex allora si stringe nelle spalle. «Sospetto che sia questo che intendesse il nostro uomo. Aveva intenzione di recitare e mentire a tutti, fingendo che non ci fosse proprio nessun problema. Sai perché lo fece il nostro cliente?». Non aspetta una risposta. «Era troppo imbarazzato, spaventato all’idea che la gente scoprisse che il suo matrimonio era finito».
Non voglio ancora dargliela vinta. «E che mi dici della donna di cui parla alla fine? Quella che gli telefona? Lui sembra sorpreso dal fatto che la nostra misteriosa amica sappia già cos’è successo in casa, di qualunque cosa si tratti».
«E chi può dire che cosa accadesse in casa sua?».
Ribatto in tono di scherno: «Chiunque sia questa donna, non prova molta compassione per lui. In realtà, dimostra di essere una vera e propria stronza».
«Magari era un’amica della moglie, no? Una della famiglia di lei?».
Avverto l’impulso improvviso di posare le mani sul viso gentile di Alex. È il genere di ragazzo con cui avrei voluto trascorrere il resto dei miei giorni. Gli poso la testa sulla spalla in cerca di conforto e forza.
Proprio ora che abbiamo ritrovato l’intesa, rischio di spezzare l’incantesimo.
«Devo assolutamente scoprire tutto quello che posso su quest’uomo…».
Lui inarca un sopracciglio. «E vuoi che io ti aiuti».
«Sei un avvocato, quindi hai accesso a ogni genere di carte. Puoi trovare i documenti relativi a questa casa». Non sono ancora in ginocchio a supplicarlo, ma la sensazione è quella.
Il silenzio si fa intenso mentre Alex riflette su quanto gli ho chiesto. «Va bene». Non riesco a contenere un sorriso mentre prosegue. «Non dimenticare il nostro patto. Se questa storia non ha niente a che fare con te, devi lasciare la casa».
«Signorsì, capitano». Gli faccio il saluto militare, mettendomi sull’attenti. Poi ricordo un’altra cosa e sposto lo sguardo sulle pareti. «Quello che hai letto stasera sembra l’epilogo di una storia. Penso che qui ci siano altre scritte. Manca una parte centrale». Mi volto verso Alex con sguardo speranzoso. «Ti spiace…?»
«Non posso». Guarda l’orologio. «Sono già in ritardo per l’evento del mio studio. Il mio capo non me la farà passare liscia se non mi faccio vivo».
La stanza sembra scomparire mentre ci fissiamo a vicenda nel profondo degli occhi. So che cosa sta per accadere. E anche lui lo sa. Ci baciamo. Niente pressione, niente lingua, un semplice e delicato contatto di labbra che termina nel giro di pochi secondi. Nessuno dei due ha voglia di riflettere su cosa significhi. Ci sono cose che è meglio lasciare impacchettate e non aprire mai.
Si dirige verso la porta senza più incrociare il mio sguardo in maniera diretta, mentre io lo accompagno di sotto. Alla porta gli faccio una domanda: «L’altro giorno Patsy stava per dirmi qualcosa di importante, poi ha visto il suo gatto fra le mie braccia…».
«Vuoi che glielo chieda?»
«Sarebbe molto gentile da parte tua».
Apre la porta e mi dice: «Nel frattempo, non cercare altre scritte. Lasciami il tempo di vedere se scopro qualcosa. Tu, invece, riposa un po’. Rimettiti in forze. Mi terrò in contatto».
Poi se ne va. Non appena torno in camera la scritta sul muro mi chiama a sé. Avverto ancora quell’impulso: un incontrollabile bisogno di accarezzarla con il palmo delle mani. Il legame è talmente forte da essere quasi spaventoso, qualcosa che sfugge al mio controllo. Mi affretto a fare un passo indietro.
Rimetterò a posto la carta da parati domani mattina.
“Riposa un po’”, mi ha consigliato Alex.
Non posso farlo. So che mi sto avvicinando alla verità.
Mi stendo sul letto. Sento che la casa mi chiama di nuovo.
Per una volta nella vita sono contenta di non voler dormire.
Appena dopo mezzanotte, Martha e Jack tornano a casa, ridendo e parlando. Sembra che lui sia sbronzo, che sia messo un po’ male.
All’una del mattino le scale scricchiolano. I miei padroni di casa stanno venendo di sopra. Dio solo sa che cos’abbiano fatto al pianoterra per tutto questo tempo. Del sesso osceno sul tavolo della sala da pranzo? No. Non riesco a immaginare che Martha possa permettergli di sciupare la sua aura di fascino. E per quanto ne so, mi pare improbabile che Jack faccia qualcosa che possa scomporre il suo chignon. La porta della loro camera da letto si chiude.
Alle due in casa cala il silenzio. Sono pronta.
Esco dalla stanza. Cammino in punta di piedi al buio e mi dirigo verso quel buco di bagno al pianoterra che devo usare per contratto. Faccio quel che devo fare e poi tiro la catenella vecchio stile. Il gabinetto esterno – non fingiamo che sia qualcos’altro – trema quasi per lo scarico d’acqua gorgogliante. Il rumore del serbatoio soffoca quel suono con il suo chiacchiericcio fatto di migliaia di bolle. Ormai ho smesso di provare risentimento per non avere accesso al bagno padronale al primo piano. È casa loro e hanno diritto alla loro privacy. La cosa strana è che sono arrivata al punto di apprezzare questo bagno, la stanza più inospitale della casa. C’è qualcosa di elegante, quasi di ricercato, nella tubatura lunga e ricurva che porta al serbatoio. Amo la robustezza delle pareti. La finestra da cui si intravede uno spicchio del giardino proibito.
E in realtà è per questo che sono qui. Il giardino.
Sono vestita come un ladro di notte, con dei vecchi pantaloni neri e un maglione. Ho i capelli raccolti in un berretto e sono armata di cellulare con l’applicazione della torcia pronta all’uso. La finestra è chiusa in maniera permanente, il che spiega la fragranza, ma so già che una qualunque chiave da finestra la aprirà. E così ne ho presa una al negozio. L’unico piccolo problema è la dimensione della finestra, ma c’è un vantaggio nell’essere magri: puoi infilarti dappertutto.
Mi arrampico sopra il sedile della toilette. Infilo la chiave nella finestra e la apro spingendo verso l’esterno. Oppone resistenza, ma non ho intenzione di arrendermi. Finalmente, con un lamento stridulo e forzato, si apre. Spingo ancora un po’, fino a bloccarla a una certa angolazione. Non posso rischiare di forzarla troppo, nel caso tutta la cornice vada a schiantarsi a terra. Mi volto di lato e cerco di sgusciarci attraverso. Sgattaiolare fuori è abbastanza semplice, ma dall’altro lato c’è il vuoto e non so dove aggrapparmi. Usando la parete del bagno come trampolino, mi spingo con i piedi. Passo dall’altra parte e atterro su un intrico di arnesi di legno marcio che cede quando ci piombo sopra. Probabilmente è un altro dei lavori rattoppati e lasciati a metà da Jack.
Mi allontano in fretta dalla casa e mi nascondo dietro una di quelle minuscole serre che si comprano nei negozi di giardinaggio e che puoi montare da solo. La plastica è strappata e svolazzante. Dentro non c’è nulla. Attendo un minuto o due nel caso Jack abbia sentito il rumore, anche se non so proprio quale scusa potrò usare per spiegare perché sono uscita dalla finestra. Ma lui non arriva, così mi addentro nel giardino e accendo la torcia del cellulare.
Il giardino è rigoglioso. Quello che mi lascia basita è che è incolto e trascurato.
È un pochino possessivo quando si tratta del giardino. Ci coltiva di tutto. Era stata questa la spiegazione di Martha sul perché Jack mi avesse afferrato per un braccio quando avevo cercato di uscire in giardino. Ha ragione lei, ci sono un sacco di piante che crescono qui, ma il cosiddetto pollice verde di Jack non si prende cura proprio di un bel niente qua fuori. Grossi alberi da frutto con mele e pere appassite. Cespugli che potrebbero essere ricoperti di fiori se solo fossero potati, annaffiati e fertilizzati. Zolle di prato secco e marrone, sentieri pieni di erbacce, il relitto di una lavatrice e una bici arrugginita con una ruota mancante. Questo giardino sembra stregato. Soltanto le staccionate su entrambi i lati sono tenute in ordine. Immagino di dover ringraziare il cielo che non ci siano dei lunghi tumuli di terra con sopra una croce.
È questo che sto cercando? Una tomba? La scritta sul muro e la lettera d’addio lasciata da un uomo che ora è sepolto in giardino? Anche per me fa troppo film hollywoodiano. In ogni caso, Jack nasconde qualcosa qua fuori. Questa casa mi scorre nel sangue; sono obbligata a scoprire tutto il possibile su di lui.
Mi addentro sempre di più fra le fronde. C’è spazzatura sparpagliata in giro e ammassi di vegetazione densa. Poi il panorama cambia. È come se avessi messo piede in un giardino diverso. Vedo piccoli appezzamenti di terra annaffiati, diserbati, arati con cura. Ci sono delle canne che sostengono piante alte e perfettamente in salute. La luce della torcia sulle foglie le rende di un verde brillante. Sono nascoste alla vista nel folto di questa giungla, ma durante il giorno devono essere esposte alla luce del sole. Poco più in là ci sono gli attrezzi del mestiere del bravo giardiniere. Zappe, rastrelli e cesoie. C’è un rubinetto con un tubo di gomma arrotolato sopra. A differenza della maniglia e della serratura della finestra del bagno, il rubinetto di metallo è ben oliato e lucente. Ci sono anche dei pali di metallo conficcati nel terreno lungo la recinzione, con delle piccole luci rosse che li illuminano.
Wow! Devo rimangiarmi quanto ho detto su Jack: sa davvero come curare un giardino.
Rimango a fissare, attonita, senza credere ai miei occhi. Perché Jack dovrebbe nascondere questa oasi accattivante agli occhi del mondo? Non ha alcun senso. Mi addentro ancora di più e i gruppetti di piante diventano più densi. Prendo fra le dita una delle foglie. Non sono un’esperta né di giardini né di piante, ma hanno un’aria familiare. Sento il cervello che va in sovraccarico mentre cerco di ricordare dove le ho viste… D’un tratto ritraggo la mano come se mi fossi scottata. So di cosa si tratta. Ho trovato il piccolo e sporco segreto del giardino.
Cannabis.