Venti
Fisso sconsolata i sushi rolls – cetriolo piccante, tonno e pollo teriyaki – sul tavolo del ristorante giapponese, sapendo che lui non verrà. Accidenti, è probabile che nemmeno io mi farei viva se fossi nei suoi panni.
La porta si apre. Mi sento sollevata: è qui.
Sento il bisogno di alzarmi per accoglierlo, come per dimostrargli tutto il mio rispetto.
«Di che si tratta, Lisa?». Alex è decisamente meno contento; ha proprio l’aria scocciata.
«Vuoi sederti?». Indico la sedia di fronte a me. «Ho ordinato un po’ di sushi rolls. Pollo teriyaki». Il tuo preferito.
Non coglie l’allusione implicita e si siede con fare sbrigativo. «Non ho fame. Pensavo…».
«Una volta vivevo in quella casa. La casa di Martha e Jack». Ecco. Ho scoperto le carte. Ora anche Alex lo sa.
Gli ho detto ciò che ho raccontato al dottor Wilson poche ore fa e non riesco ancora a credere di averlo fatto. Il mio segreto, alla luce del sole. Non sono mai stata un’inquilina qualunque in cerca di una casa, come tutta la gente che brama una stanza in giro per Londra. Avevo preso di mira la casa e ho preso la stanza in affitto solo per poterci entrare.
Con la mente torno all’indimenticabile momento in cui finalmente ho trovato la casa che mi perseguita da quando ho memoria. Come ho detto al dottor Wilson, per anni ho perlustrato le strade di Londra, ossessionata dall’idea di trovare l’edificio che appare come un mostro furibondo nei miei incubi. Dopo l’incidente del tentato suicidio, ho deciso che l’unico modo di ritrovare la sanità mentale era rallentare nella caccia alla casa. Rinunciare a una cosa che per me era diventata naturale come respirare non è stato facile. Era diventato un elemento vitale, come un altro braccio, o una gamba, o un secondo cervello. Qualcosa che mi avrebbe divorato sempre più, senza darmi mai pace, e che mi avrebbe affondato i denti nella carne finché non avessi scoperto la verità. Ma la verità era che la missione di trovare la casa mi stava spingendo sull’orlo del precipizio. Sì, dirò le cose come stanno: mi stava facendo impazzire.
Un martedì di acquazzoni estivi, ero tornata in ufficio dopo pranzo e avevo trovato Cheryl china sull’iPad insieme a Debbie. Ero quasi passata indisturbata accanto alle due quando Cheryl mi aveva chiesto di avvicinarmi.
«Quale stanza credi che dovrebbe prendere Debbie?».
Avevo tentennato. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era una chiacchierata amichevole sulle loro vite personali. Sapevo che Debbie si era lasciata con il ragazzo con cui conviveva ed era ovvio che stesse cercando di sistemarsi temporaneamente da qualche altra parte. Un luogo per rimettersi in sesto.
Ero dispiaciuta per lei – e anche un po’ invidiosa; era riuscita a tenersi stretta una relazione per ben sette anni. Io non ce l’avevo fatta a reggere più di quattro mesi. A ogni modo, non doveva essere facile ricominciare tutto da capo. Così mi ero avvicinata e mi ero chinata anch’io per guardare lo schermo dell’iPad.
Cheryl allora aveva detto: «C’è questa stanzetta carina a Camden».
Era un’adorabile stanza al piano terra, tutta bianca e luminosa, con una porta finestra che dava sul giardino e un fantastico caminetto in stile anni Trenta con tanto di specchio. L’affitto mensile era talmente alto da far venire le lacrime agli occhi.
«Oppure questa…». Debbie aveva premuto il dito sullo schermo ed era apparsa la foto dell’esterno di una casa.
Ci sono momenti nella vita in cui non riesci a parlare, a respirare, ed è come se il tempo si fermasse. Sentivo il battito accelerare mentre fissavo qualcosa sulla facciata della casa. Dentro ero tutta un fremito mentre riconoscevo il fregio: il cerchio inciso sulla pietra con la chiave all’interno. Era come se fosse la mia chiave speciale, messa lì appositamente per me, per permettermi di entrare nel luogo che mi aveva perseguitato per così tanti anni.
Nessuna delle colleghe aveva notato la mia strana reazione, mentre Debbie aveva aperto la foto della stanza in affitto.
Io non l’avevo nemmeno guardata, sopraffatta da un misto di incredulità ed emozione, poi mi ero raddrizzata e avevo detto a Cheryl tutto d’un fiato: «Prendi la stanza a Camden. È un po’ costosa ma Camden è una zona davvero alla moda. È lì che gira tutta la gente stilosa».
Dovevo un po’ invogliarla; l’ultima cosa che volevo era che prendesse la stanza nella mia casa. Perché era mia. In pratica avevo setacciato le strade di Londra per tutta la vita per trovarla. Non potevo crederci. Avrei potuto finalmente svelare i segreti del mio passato. O almeno quello che credevo fosse il mio passato.
Poi le avevo lasciate lì da sole e mi ero diretta verso la toilette con il telefono in mano. Una volta dentro mi ero registrata in tutta fretta al sito web di affitti e avevo aperto la scheda della casa. Infine avevo organizzato un incontro per vedere la stanza.
Ero rimasta a fissare la casa, ammaliata. Era stato come ritrovare un vecchio amico. O un nemico.
Alex ora mi sta fissando, con le labbra leggermente socchiuse. Proprio come il dottor Wilson quando gli ho rivelato il mio segreto. Il buon dottore, che si vantava di avere un atteggiamento distaccato, aveva subito nascosto lo stupore, insistendo perché continuassi a parlare. Ma io non avrei potuto dire altro nemmeno se avessi voluto. Ero distrutta, esausta, e riuscivo a malapena a pensare.
«Non capisco», dice infine Alex, scuotendo piano la testa. «Che significa che vivevi in quella casa? La casa accanto a quella di zia Patsy?»
«No, la casa accanto a quella di Babbo Natale al polo nord», rispondo in tono acido. «Ovvio che intendo la casa dove ho preso la stanza in affitto».
«Quando ci hai abitato?». Sono contenta di vedere che assaggia un pezzo del suo sushi preferito.
Ora arriva la parte difficile. «Non lo so».
Il sushi roll gli rimane a mezz’aria davanti alla bocca mentre lui mi scruta con sguardo scettico da dietro le ciglia lunghe. «Oggi ho lavorato con un cliente molto esigente, un vero e proprio coglione che si dà delle arie, non ho fatto la pausa pranzo e tutto ciò che voglio adesso è scolarmi una mezza pinta di birra e andare a letto».
Ha davvero l’aria stanca. Ha due occhiaie scure sotto gli occhi e un colorito che sembra supplicare una dose di vitamina D.
«Ricordi cosa accadde la sera che tornammo a casa tua?», gli chiedo lentamente.
E chi se lo scorda?
Riluttante, annuisce e si infila il rotolino di riso in bocca.
Sento i nervi a fior di pelle. «Ho questi incubi. A volte cammino nel sonno. Li ho da quando ero bambina. Sono sempre gli stessi. Una donna che urla, bambini che urlano, qualcuno che corre verso di me con dei coltelli che poi si trasformano in aghi inquietanti. C’è un topo con degli occhi giganteschi che mi fissa. Finisce sempre con un uomo che grida. Un grido molto diverso. Dopodiché so solo che mi ritrovo in un’auto che mi porta via da quella casa».
In tutta fretta mi passo la lingua sulle labbra prima di continuare. «La cosa che più risalta della facciata esterna della casa è un cerchio in pietra con una chiave dentro. L’avrai visto di sicuro quando sei venuto a trovare zia Patsy».
Socchiude gli occhi mentre riflette. Poi inarca le sopracciglia nell’istante in cui se lo ricorda.
«È il simbolo di un costruttore. Chiunque abbia realizzato la casa… ha lasciato questo segno, una sorta di firma per intenderci, per dire a tutti che è stato lui a costruire la casa. Ho fatto delle ricerche sui simboli dei costruttori e non ne ho trovato nessuno come questo. È speciale. Unico nel suo genere. Ho pensato che se fossi riuscita a trovarlo, avrei fatto bingo: avrei trovato la casa, e così è stato».
Alex ingoia il resto del roll, mentre il pomo d’Adamo gli sobbalza in maniera irregolare. «È roba pesante. Urla e coltelli e aghi. Simboli di costruttori».
«Ricordi le cicatrici che hai visto sul mio corpo?».
È una delle poche persone che conosco a non distogliere lo sguardo in segno di pietà o disgusto quando si parla delle mie cicatrici. Perfino quando le scoprì la prima volta che andammo a letto insieme, non si voltò dall’altra parte. Non mi chiese se sarebbero sbiadite con il tempo, né se potessi eliminarle con la chirurgia. Non chiese nulla.
Allora mi dice: «Non ho mai avuto nessun problema con le cicatrici». Ha un tono ferito.
«Questo lo so».
Non sono state le cicatrici a spingerlo a lasciarmi.
«Non credi a una sola parola, vero?»
«Credo tu faccia questi sogni, certo, ma il resto…». Spalanca le mani. Almeno non se l’è data a gambe.
Faccio una risatina lieve, priva di allegria, che mi lascia una strana sensazione di bruciore al petto. «So che sembra una follia».
«Non è questo». Inizia a parlarmi in tono animato, muovendo le mani, sollevando le spalle e guardandosi intorno. «È solo che la mente può giocarci brutti scherzi. Anni fa, mi ero sbronzato di brutto e mi sono svegliato con la convinzione di aver chiesto alla mia ragazza di sposarmi. Rivedevo la scena nella mente, un fotogramma alla volta, come se fosse davvero accaduto. Era reale. Me la stavo facendo sotto: lei era adorabile, ma farla diventare mia moglie? Grazie, ma no. Alla fine si scoprì che non gliel’avevo mai chiesto; faceva tutto parte di un’illusione da ubriaco».
«Tu con una moglie?», lo stuzzico.
Alza gli occhi al cielo. «Lo so. Adesso cominci a fare la strizzacervelli con me…». Il buonumore svanisce. «Lisa, non volevo…».
«È tutto okay. Smettila di trattarmi come se fossi delicata come un pezzo di cristallo. I miei lo fanno da tutta la vita».
«Hai chiesto ai tuoi genitori di parlarti del passato? Della casa?»
«L’ho fatto e hanno negato tutto». Sento la rabbia ribollire di nuovo. «So che non mi stanno dicendo la verità».
«E perché dovrebbero mentirti?».
Ora sono io a parlare in maniera concitata. «Ne ho parlato a lungo con il mio terapista». Non gli dico che sospetto che anche il dottor Wilson mi stia nascondendo qualcosa. «L’uomo che si è ucciso e la scritta sul muro», proseguo. «Non so come spiegarlo. Chiamalo sesto senso, ma lui ha qualcosa a che fare con il mio passato. Con quanto mi è accaduto in quella casa».
Quando ho scoperto la lettera d’addio è stato come se un altro pezzo del puzzle del mio passato fosse tornato a posto. Ecco perché devo scoprire di più sull’uomo che l’ha scritta; la strada che porta a lui mi condurrà al mio passato.
«E tu vuoi che ti aiuti a scoprire se ci sono altre scritte e a tradurle, nel caso?», conclude giustamente Alex.
Non voglio girarci troppo intorno. «Lo farai?».
Mi lascia in sospeso e mangia un altro roll. L’adrenalina è a mille e mi pompa un’ondata di calore in tutto il corpo. Se non mi darà una mano non so che cosa farò.
Si lecca la salsa dalle dita, poi si china in avanti. «Facciamo un patto. Se ci sono altre scritte in camera tua ti aiuterò. Se non ci sono, voglio che annulli il contratto e che te ne vai da quella casa».
All’inizio mi sento oltraggiata. Chi si crede di essere per darmi degli ordini? Pensa davvero che io possa lasciare la casa così su due piedi dopo che finalmente l’ho trovata? Tanto vale tagliarmi la gola. Ma questo non c’è bisogno che lo sappia.
«Affare fatto».
A quel punto ci stringiamo la mano.
«Quando vuoi che passi da te?»
«I padroni di casa saranno fuori domani sera, credo. Martha dice che andranno a vedere Macbeth a teatro. Ti chiamo io».
Per anni ho dato la caccia a una casa con un simbolo unico nel suo genere e mi ci sono trasferita allo scopo di capire cosa sia accaduto davvero lì dentro vent’anni fa. Il tutto basandomi sul ricordo di alcune grida e del fatto che poi mi hanno portata via in auto. Quando avevo cinque anni. Non è che sembra folle. È folle.
Non sto perdendo la testa, vero? In quella casa mi è davvero successo qualcosa quando ero bambina. O mi sbaglio?
Alzo lo sguardo. La casa. Proprio come ho fatto quando sono venuta a visitarla la prima volta. Ora che il mio segreto non è più soltanto mio mi sembra diversa. Le pareti di pietra color biscotto non sono più il segno di una calda accoglienza; sono annerite dall’ostilità, mute sulle vite delle persone – delle famiglie – che hanno vissuto qui in precedenza. L’edera non è più rigogliosa ma inquietante, serpeggia e si arrotola per prepararsi a strangolare il suo ospite. Il simbolo del costruttore con la chiave inscritta al centro sostiene il mio sguardo. È l’unica parte della casa che è rimasta immutata. È il mio amuleto portafortuna. La stella polare dei miei ricordi che mi ha guidata fin qui.
Quando apro la porta il mio unico scopo è arrivare in camera il più in fretta possibile perché non ho voglia di un altro scontro con Jack riguardo alla mia vera casa. E comunque, che cosa ci può fare lui? Non ho infranto nessuna legge. Vorrei vederlo mentre prova a sbattermi in mezzo alla strada. Che gridi, strepiti, minacci e faccia pure l’arrogante. Io non me ne vado. Per quanto io tenti di aumentare la mia dose di coraggio, in me c’è un seme di paura che non la smette di crescere. Ora sono allo scoperto, altre due persone sono al corrente della vera ragione per cui sono entrata in questa casa e Jack avrà già spifferato che ho un posto tutto mio.
Forse è per questo che invece di andare subito di sopra, vengo attirata dal tappeto nero e rosso nel cuore della casa. Non appena mi ci metto sopra, la calma risale su per i piedi sfregiati, propagandosi per tutto il corpo. La sensazione calda e accogliente spazza via ogni preoccupazione. Respirando dal naso e dalla bocca, inondo i polmoni di aria fresca. Mi sento di nuovo in equilibrio, a posto con me stessa, in sintonia.
Una volta di sopra, chiudo la porta e metto la catenella. Non accendo la luce. Mi guardo intorno alla ricerca di qualche altro scherzo o tiro mancino di Jack.
È tutto in ordine.
Dovrei mangiare ma non ho fame, così mi avvicino alla parete, dove la carta da parati ricopre di nuovo la scritta, e ci poso sopra il palmo. È ciò che avrei voluto fare quando ho scoperto la scritta: passare i polpastrelli su ogni lettera, nella speranza che comunicassero con me e mi parlassero del passato. Mi volto verso le altre pareti, quasi tentata di tirare giù ogni singolo pezzo di carta da parati, per svelare altri segreti. Tuttavia, decido di non farlo: aspetterò Alex. Il pensiero di farlo da sola mi infonde un profondo terrore. Non so da dove venga questa sensazione.
Allora mi preparo per andare a dormire. Passo fra le dita la stoffa morbida della sciarpa, poi lego la gamba al letto. Sono troppo distrutta per ballare stasera, ma sento comunque il bisogno del ritmo della mia musica per trasformare il battito corporeo e prepararlo al sonno.
Mi stendo. Mi infilo gli auricolari. Premo play.
Tears Dry On Their Own di Amy mi culla.
Chiudo gli occhi e spero.