Nove
La gente mi passa accanto di corsa per uscire dalla stazione della metropolitana, muovendo i piedi al celebre ritmo londinese. Non vedo l’ora di tornare a casa. In confronto agli altri sono una lumaca; sembra che qualcuno mi abbia sostituito i muscoli delle gambe con delle pietre. Mi sento stanca. Oddio, sono esausta. Una mano invisibile mi ha staccato la spina. Non è il lavoro ad avermi esaurita, ma piuttosto la lettera d’addio che ho trovato.
A chiunque possa interessare.
È l’ultima cosa a cui penso prima di prendere sonno, quando grazie al cielo ci riesco, e la prima a dare inizio alla mia giornata. Non riesco a concedere all’uomo il riposo che bramava. Forse è per via del mio tentativo di togliermi la vita, o di qualunque drammatico incidente si sia trattato. Non lo so, ma non posso lasciare in pace il mio invisibile compagno di stanza. Ossessiva. È così che in passato i terapisti hanno definito la mia personalità. Una volta che qualcosa mi mette radici in testa non riesco a lasciar perdere. Cresce e cresce finché la mente non mi appartiene più. Ora c’è un uomo morto che si è messo in fila dietro a tutti gli altri problemi che ho già.
È passata quasi una settimana dall’incidente del topo. Martha è venuta nella mia stanza per scusarsi e assicurarmi che Jack non avrebbe mai fatto la cosa orribile di cui lo stavo accusando. È buffo: a quanto pare è ben consapevole dell’infedeltà del marito ma non del resto. Le ho lasciato fare il suo monologo, senza discutere, e l’ho riaccompagnata alla porta. Non ho più visto Jack e mi sta bene così. Finché non combinerà altre bravate andremo d’accordo.
Un altro pendolare mi sfiora la spalla, in maniera neanche troppo gentile. Io accelero il passo mentre percorro la via principale. Svolto all’angolo della strada dove mi attende la mia nuova casa. Via via che mi avvicino, vedo la vicina di Martha e Jack che pota le rose nel giardino. Non la vedo dal nostro incontro indimenticabile durante il quale mi aveva accusato di aver riso del suo giardino insieme a Martha e a Jack. Jack aveva affermato che si trattasse solo dello sproloquio di una pazza. Non riesco a reprimere una smorfia. “Pazzo” è una parola talmente brutta. Un’etichetta che ti si attacca addosso per la vita.
Quel che è chiaro è che non corre buon sangue fra lei e i miei padroni di casa.
E se…?
Mi avvicino con nuove intenzioni.
La donna smette di tagliuzzare e mi lancia un’occhiataccia maligna. Gli angoli della bocca si piegano in una smorfia di acido disprezzo. I pantaloni estivi e la camicia imbrattata di terra le cadono larghi sulla figura minuta e, nonostante il bel tempo, indossa il solito capello di lana con il fiore fatto a maglia. Il tempo ha lasciato tracce sul suo viso, ma gli occhi castani e acuti non sembrano suggerire che possa aver perso qualche rotella, come Jack ha affermato in maniera più che eloquente.
«Io sono Lisa», mi presento, sfoderando un ampio sorriso.
Lei non ricambia. A dire il vero, ora sulla sua bocca e sulle sopracciglia noto un’espressione che manifesta tutta la sua irritazione.
Un miagolio insistente mi coglie di sorpresa. Abbasso lo sguardo e vedo un soriano tigrato e ben nutrito con un collare e una piastrina d’argento con il nome che si struscia contro la gamba della donna. C’è un altro soriano alle sue spalle, con il manto ricoperto di chiazze vorticose, intento a tirare avanti e indietro la zampina mentre gioca con la terra.
«Betty». La mia nuova vicina si rivolge al gatto che le gira intorno alla gamba. «Smettila di fare la mammona». Ha la voce carica di affetto. «Vai a giocare con Davis».
Betty e Davis. Ah, Bette Davis. Il nome senza dubbio finisce per “e”. Il gatto fa le fusa mentre scivola via, raggomitolandosi sul selciato di pietra come se l’idea di ruzzolare nella terra fosse troppo scandalosa per prenderla in considerazione.
«Che cosa vuoi?», dice la donna, guardandomi in cagnesco con gli occhi stretti.
«Mi sono appena trasferita qui accanto».
Un grugnito di sdegno le sale dalla gola. «Sei una di loro, vero?»
«Di loro cosa?»
«Dei loro amici». Sputa fuori la parola come se fosse la più velenosa al mondo. Mi sorprende che le rose non appassiscano e muoiano. «Ti ringrazio molto, signorina, per aver avuto la buona educazione di salutare, come senza dubbio ti ha insegnato tua madre. Ma se mi vedi ancora, apprezzerei se ti limitassi a proseguire felice per la tua strada». Le forbici si chiudono lungo il suo fianco con uno schiocco.
«No», mi affretto a rassicurarla. «Non sono miei amici. Ho soltanto preso in affitto una stanza all’ultimo piano».
La pelle del suo viso si rilassa, cedendo ancora di più, mentre si prende un secondo per studiarmi di nuovo.
«Be’, se fossi in te», ringhia alzando il volume, senza dubbio nella speranza di farsi sentire dai vicini, «terrei a portata di mano una bottiglia di acquasanta, per tenere a bada il male che sprigionano quei due».
Abbasso la voce, sperando che basti per farle intendere che preferisco non attirare l’attenzione di Jack e Martha mentre parlo con lei. «Non va molto d’accordo con loro?».
Bette è tornata a strusciarsi contro la gamba della padrona. «Credo tu voglia dire che loro non vanno d’accordo con me. Vivo qui da ben sessant’anni, da quando ero una bambina. Questa casa apparteneva ai miei genitori e un giorno diventerà dei miei nipoti». Ecco di nuovo la solita smorfia sulla sua bocca. «Anche se, a giudicare da come mi guarda ultimamente la famiglia di Lottie, sembra che vogliano che io vada incontro al Creatore il prima possibile. Maledetti giovani spudorati. Sono anni che dico a Lottie di dar loro una bella lezione. Se non stanno attenti, lascerò tutto a Bette e Davis».
Posso immaginare cosa succederebbe alla sua famiglia. Un’enorme battaglia legale, felini contro umani.
«Ehm… non ho capito il suo nome».
«Perché non te l’ho detto», è la risposta secca. Poi il viso rugoso si illumina quando la donna mi rivolge un sorriso malizioso. «È così che dicevamo ai ragazzi ai miei tempi. Poteva anche piacermi concedermi un buon vecchio ballo al Palais o a Soho, ma non ero disposta a prendermi troppe libertà con l’elastico delle mutandine».
A quelle parole contraggo le labbra. Questa signora ha un bel caratterino. Mi piace.
Adesso le brilla lo sguardo. «Puoi chiamarmi Patricia o Patsy. Ma mai Trish. Conoscevo una Trish una volta; aveva una voce da sirena antinebbia e un carattere talmente subdolo che sarebbe stato meglio se fosse sprofondata insieme al Titanic». Lancia un’occhiata alla casa. «Sarebbe andata d’accordo con quei due, come tre scimmiette su un ramo che si imbottiscono le guance di banane».
«Patsy». Decido di entrare in confidenza con lei. «Che è successo fra lei, Martha e Jack?»
«Ti faccio vedere». Si affretta a raggiungere la porta d’ingresso.
Non riesco a credere alla mia fortuna. La seguo in fretta insieme ai gatti che fanno le fusa alle mie spalle. La donna mi fa strada lungo un corridoio riempito in maniera caotica, con un tavolo da parete in legno, un attaccapanni in stile vittoriano, le pareti ricoperte di ritratti di famiglia e altre foto più recenti di bambini sorridenti, che senza dubbio ora sono diventati degli adulti che non vedono l’ora di mettere le mani sulla casa. Arriviamo nella stanza sul retro, che non è una cucina, come nella villa accanto, ma una spaziosa serra inondata di luce estiva. Patsy apre la porta finestra e mi indica il giardino con la mano. È uno spettacolo a perdita d’occhio di fiori di tutti i colori, farfalle e api. Il profumo di boccioli è persistente. Accanto alla porta c’è un tavolo azzurro e grigio in mosaico con le sedie coordinate e nell’angolo più lontano una panchina all’ombra di un fico. Un luogo davvero tranquillo.
Ma perché mi ha portata qui?
Leggendo la curiosità e lo stupore sul mio viso, la donna mi si avvicina. Sussurra: «Perfino gli alberi del giardino hanno le orecchie». Poi punta un dito ricurvo e ammicca in direzione dello steccato che delimita il confine con la casa di Martha e Jack.
«Ho giocato in questo giardino fin da quando ero alta così». Si porta una mano appena sopra il ginocchio. Le sue dita sono tutte storte; un classico sintomo di artrite cronica. «Un paio di mesi fa, sua maestà mi mostra delle mappe catastali con cui pretende – pretende – di dimostrare che la parte in fondo del mio giardino appartiene alla loro casa. Secondo queste cosiddette mappe, il loro giardino non finisce laggiù, ma comprende anche una notevole striscia di terra che corre lungo tutto il retro della casa, oltre le altre villette, fino in fondo alla strada». Sbuffa. «A cosa serve a loro un pezzo di giardino in più, eh? Lui se ne sta là fuori a qualunque ora del giorno e della notte, a fare cosa? Il loro giardino è un’indecenza».
Ripenso a Jack che mi afferra la mano in malo modo mentre cerco di entrare nel giardino durante la prima visita alla casa. Martha sostiene che sia soltanto un po’ territoriale. Che ci sia qualcosa di più? Ha forse qualcosa da nascondere?
Allora avverto un tremore nella voce di Patsy. «Una notte quei bastardi hanno abbattuto il mio steccato sul retro mentre ero fuori per il fine settimana a trovare mia figlia. Codardi». Ha gli occhi gonfi di lacrime. «La polizia dice che c’è ben poco da fare a riguardo. Io non sono come gli altri residenti della strada, che si sono arresi». Riesco quasi a sentire lo scricchiolio della sua schiena che si raddrizza con risolutezza. «Non la passeranno liscia. Li porterò in tribunale, fino al Bailey, se devo».
Non ho il cuore di dirgli che la corte di Old Bailey si occupa di casi di omicidio.
«Il mio avvocato, mio nipote, è qui proprio in questo momento per prendere appunti in merito al nostro incontro. Be’, non è proprio mio nipote. Sono amica di sua nonna da quando eravamo signorine e uscivamo in paese. Il che mi ricorda che devo preparargli una bella tazza di tè prima che se ne vada».
Questa rivelazione mi sorprende. Non avevo idea che ci fosse qualcun altro in casa.
Mentre vaga per la cucina, provo pena per tutti i suoi problemi. E una grande simpatia nei suoi confronti; non dev’essere facile perdere parte della propria casa. Tuttavia, devo concentrarmi sul motivo per cui sono venuta a parlare con lei.
«Ricorda qualcuna delle persone o delle famiglie che hanno vissuto qui accanto?».
Patsy versa il tè aromatizzato nella teiera. «Certo che mi ricordo. Ci sono stati i Latimer, i Morris, i Patel». Con un dito, ossuto e solitario, si gratta le labbra mentre fruga nella memoria. «Ah, sì, i Warren. Dio onnipotente, i bambini erano come animali selvatici. Avrebbero dovuto stare dietro le sbarre allo zoo di Londra. Poi i Peters, e i Mitz. O quelli erano dall’altro lato della strada? A volte mi confondo un po’».
Prima che faccia davvero confusione le domando: «Sa per caso se avevano un inquilino prima che arrivassi io?».
Patsy ha l’aria smarrita mentre mescola il tè nella teiera di porcellana. Poi assume un’espressione fissa mentre ragiona. «Credo ce ne sia stato uno. Sì, un uomo. Non lo vedevo molto in giro…». Lascia la frase in sospeso mentre contrae le sopracciglia rade.
«Ricordo che lo vedevo dalla finestra della mia camera, intento a vagare per il giardino come un prigioniero che se ne va a zonzo per il cortile. Sai, come se avesse sulle spalle tutti i problemi del mondo. Non l’ho mai visto in faccia». Con i denti minuscoli si tormenta il labbro inferiore, mentre posa il coperchio sulla teiera.
La gioia di scoprire che c’è stato un inquilino prima di me precipita quando l’anziana aggiunge: «Certo, l’ape regina faceva andare e venire gli uomini nel suo castello di bronzo come fosse Piccadilly Circus. A qualunque ora del giorno e della notte. Ha smesso soltanto quando ha posato gli artigli su quella specie di toy boy che usa per pavoneggiarsi in giro». Schiocca la lingua in segno di disprezzo. «Una donna della sua età che se la fa con un giovanotto come quello. Fa bene a farsi tutti quei ritocchini di botulino, perché ritrovarsela sotto le lenzuola non dev’essere un gran bello spettacolo».
Stavolta non riesco a trattenere una risata. È una bella sensazione. Proprio bella. Non ricordo l’ultima volta che ho piegato la testa all’indietro per abbandonarmi a una risata di pura gioia.
Patsy mi invita ad avvicinarmi piegando un dito. Il suo alito mi scalda la guancia. «C’è stato senza dubbio un uomo. Viveva già là quando lei si è portata a casa Jack. Non ricordo quando se ne sia andato».
Quindi Jack mi ha mentito? Perché avrebbe dovuto? Se un inquilino si fosse ucciso in casa sua Jack non avrebbe avuto problemi con le autorità. Che cosa sta coprendo? C’entra qualcosa con il giardino? Le domande mi vorticano in testa con la potenza distruttiva di un uragano. Si susseguono una dopo l’altra, pretendendo una risposta immediata.
Più veloci, sempre più veloci.
Respira. Respira e basta.
Uno, due, allaccio la scarpa.
Tre, quattro…
Non riesco a rallentare. Non posso. I denti aguzzi della disperazione mi attanagliano i nervi. Dove sono le mie pillole? Accidenti. Sono in casa. Nella mia stanza. Sento il sudore scorrermi all’attaccatura dei capelli. Una vertebra dopo l’altra, la spina dorsale mi si congela in una colonna di ghiaccio. Le piante dei piedi iniziano a farmi male lungo le solite cicatrici dolorose. Rabbrividisco. Tremo. Quasi come se stessi per perdere i sensi.
Patsy mi fissa, con gli occhi spalancati per la preoccupazione, proprio come fa mamma.
La voce professionale di un uomo si fa strada nel mio velo di sofferenza dalla porta della cucina. «Ho scritto un ampio resoconto di…». Tace improvvisamente quando posa lo sguardo su di me. «Lisa?».
Vederlo dovrebbe farmi precipitare dal ciglio del burrone. Al contrario, riprendo il controllo.
«Alex?».