Uno
Trattengo il fiato mentre alzo gli occhi sulla casa. Ha un’aria maestosa, addirittura solenne. Tre piani, forse anche un seminterrato. Il sole estivo del tardo pomeriggio conferisce alle pareti di pietra color biscotto una nota di calda giovialità. È accogliente. L’edera si arrampica su per i muri verso i comignoli massicci, dove un nugolo di uccelli se ne sta appollaiato a sbirciare il mondo. Nessuno di loro canta. È facile immaginare che in passato sia stata la casa di un rispettabile gentiluomo vittoriano alla ricerca di spazio per la famiglia in crescita, con un’infinità di alloggi per la servitù ai piani superiori.
Naturalmente, è indipendente; nessun padre di epoca vittoriana avrebbe voluto che le lezioni di piano della figlia disturbassero i vicini o che questi, a loro volta, potessero sentirlo rimproverare una domestica che aveva avuto l’ardire di servirgli aringhe bruciacchiate.
Il viale è fiancheggiato da alberi verdi e rigogliosi che lo schermano dalle case vicine. È chiaro che all’epoca non era una zona appariscente e, persino adesso che la sua prosperità è sotto gli occhi di tutti, rimane pur sempre intima e accogliente, sebbene ora alcune dimore siano state suddivise e trasformate in appartamenti e monolocali. Oppure in camere da dare in affitto.
L’unico dettaglio fuori posto in questa istantanea così perfetta è nel vialetto. Un furgoncino bianco. La scritta «Jack il tuttofare» a lettere cubitali su una fiancata, «Si eseguono lavori domestici di ogni genere, anche piccole riparazioni» sull’altra. C’è anche un numero di telefono. Fissata con delle cinghie sul portapacchi del tettuccio, c’è una scala con delle strisce di stoffa legate a ciascuna estremità. I distinti vittoriani che avevano abitato in questa casa senza dubbio avrebbero detto a “Jack” di parcheggiare sul retro la sua moderna carrozza.
Attraverso il vialetto stringendo in mano il foglio dell’agenzia immobiliare con la stessa intensità con cui terrei stretto il testamento contenente le mie ultime volontà. La ghiaia mi punge sotto le suole sottili delle scarpe nere a tacco basso. Mi suda la mano e la carta si inumidisce, sbavando in parte l’inchiostro. Mentre avanzo, il mio sguardo è attirato dall’insolito simbolo sopra il portico. È un grosso cerchio inciso nella pietra, all’interno del quale, a quanto pare, è raffigurata una chiave. C’è una data: 1878.
Il portone d’ingresso è massiccio, nero, lucido, con un batacchio senza troppe pretese. Il sangue mi pulsa nelle vene mentre busso. Non sento nessun rumore di passi, ma dopo un po’ avverto l’inquietante sensazione che qualcuno mi stia osservando. Mi tranquillizzo quando individuo il minuscolo scintillio rotondo di uno spioncino in plastica sulla porta. Chiunque ci sia dall’altra parte decide che non costituisco una minaccia e la porta si spalanca.
«Tu devi essere Lisa, vero? Quella dell’agenzia immobiliare».
L’uomo ha all’incirca la mia età, tra i venti e i trent’anni, ma le somiglianze finiscono qui. Ha un abbigliamento casual, con dei jeans e una maglietta sbiaditi e i capelli raccolti in maniera disordinata in una specie di chignon. È un uomo moderno a cui piace farsi notare, a partire dall’orecchino d’oro in perfetto stile pirata fino ai tatuaggi su entrambe le braccia che fanno a gara per attirare l’attenzione. Perché la gente ci tiene tanto a farsi marchiare la pelle? Dovrebbe rimanere liscia e immacolata, e soltanto all’inevitabile trascorrere del tempo dovrebbe essere concesso di lasciare la propria impronta dietro di sé. A dire il vero è di bell’aspetto; l’unica pecca nella sua mascella squadrata così virile è data dai denti ingialliti da qualche sigaretta di troppo.
«Esatto», rispondo infine, assumendo un tono di voce speranzoso e cordiale. Quella stanza mi serve davvero.
Lui dà un’occhiata all’orologio. Fa una smorfia. «Be’, sei un po’ in anticipo».
La smorfia che gli incupisce il viso si farebbe ancora più profonda se sapesse che sono rimasta a passeggiare su e giù per il viale negli ultimi venti minuti?
«È un problema? Devo tornare più tardi?».
Fa di nuovo una smorfia, stavolta accompagnata da un sorriso smagliante e macchiato di nicotina, e mi fa cenno di entrare. «Certo che no! Io non mi perdo in formalità».
Non me lo faccio ripetere due volte. È come se stessi tornando a casa. Ed è proprio quello che potrebbe diventare questo edificio così imponente, se solo riuscissi ad accaparrarmi la stanza: casa.
«Entra nella mia tana, come disse il ragno alla mosca. Comunque, io sono Jack».
Mi fa strada nel corridoio. Non riesco a smettere di guardarmi intorno con gli occhi spalancati per lo stupore. La casa sembra perfino più grande di quanto apparisse dall’esterno. Il corridoio, ancora con le piastrelle bianche e nere di una volta, conduce a quella che sembra una sala da pranzo: più in là si intravede una cucina. Ci sono altre porte, tutte sigillate. Stanze che Jack non ha intenzione di mostrarmi, a quanto pare. Punta dritto verso le scale, con il bel corrimano in legno decorato e un copri gradini di una fantasia fastidiosa.
Sul pavimento dell’ingresso c’è un grande tappeto. È notevole, nero e rosso con gli orli fiorati e quelle che sembrano scritte in arabo al centro. Mi ricorda i tappeti e gli arazzi ricoperti di polvere nel mercato marocchino che ho visto quando sono andata in vacanza con mamma e papà, quando ero ancora adolescente. Mi concedo un momento per indugiarci sopra. Per inspirare nel cuore della casa. Ecco cos’è il corridoio: il cuore di una casa. Non bisogna credere a nessuno di quei moderni agenti immobiliari che blaterano sostenendo che sia la cucina. Il cuore batte nello spazio tra la porta d’ingresso e le scale, dove la casa di solito è immobile. Inerte.
«Vieni?», mi domanda Jack, già a metà delle scale.
Tolgo i piedi dal tappeto e lo seguo.
È strano che un ragazzo così giovane sia il proprietario di una casa tanto maestosa. Deve valere milioni, e allora mi domando se sia sua. L’agenzia immobiliare non mi ha detto chi fosse il padrone di casa, si è limitata a fornirmi un contatto diretto per concordare un orario di visita che andasse bene a entrambi.
«Allora, che cosa fai per vivere, Lisa?»
«Mi occupo di software per conto di una banca».
Jack sembra sorpreso dalla mia scelta professionale. «Software? Un po’ bizzarro per una ragazza, no?».
Davvero i ragazzi dicono ancora frasi del genere? Mi domando se Jack abbia mai sentito parlare del movimento #MeToo. Non considero il commento degno di risposta. Alex non avrebbe mai detto sciocchezze simili.
Mi viene in mente che sto correndo un rischio entrando in casa da sola con quest’uomo. Uno sconosciuto. Poi mi domando se mi sto comportando da snob. L’istruzione privata a volte può avere questo effetto. Non ho alcuna ragione per pensare che sia pericoloso. Potrebbe essere “insignificante quanto inoffensivo”, come direbbe mia madre. Cerco di rassicurarmi con il pensiero che la città è strapiena di persone che non hanno alternativa al trovare alloggio in casa di sconosciuti. E comunque, l’agenzia immobiliare è a conoscenza della mia visita.
Raggiungiamo il pianerottolo del primo piano. Tutte le porte sono chiuse a parte una, che mi permette di intravedere quello che sembra un bagno molto grande. Vengo accompagnata su per un’altra rampa di scale, stavolta più sbilenca e stretta, senza copri gradini né tappeti, che conduce alla parte più alta della casa.
Le scale scricchiolano e si lamentano sotto il nostro peso.
«Hai visto qualche altra stanza?», chiede.
Scuoto la testa anche se so che non può vedermi. «No. Questa è la prima che ha attirato la mia attenzione. Sono venute altre persone a vederla?»
«Qualcuno», risponde. «È venuta un’attrice la scorsa settimana. Sembrava abbastanza carina, però siamo onesti, recitare sarà anche divertente ma non è un lavoro stabile. Niente lavoro significa niente soldi per l’affitto». Mi lancia uno sguardo da sopra la spalla. «Non siamo un ente benefico».
Mi affretto a rassicurarlo: «Io ho un contratto a tempo indeterminato da quattro anni. Ho delle referenze e il certificato del casellario giudiziale».
Si ferma in cima alle scale e si volta verso di me. Sembra davvero molto compiaciuto. «Un casellario giudiziale? Sei zelante. Mi piace».
Ansimo appena, mentre raggiungo la sommità delle scale.
«Eccola lì». Jack indica una porta che ci attende in fondo a un corridoio molto corto. È dipinta di un bianco opaco privo di nota e mi fissa come se avesse atteso in silenzio il mio arrivo per tutta la vita.
Il respiro mi si blocca stranamente in gola mentre Jack abbassa la maniglia antica. Spalanca la porta. Entra.
Resto immobile dove sono: un’estranea che sbircia all’interno.
«Stai bene? Sembra che tu stia congelando». Indica la grande finestra dell’abbaino all’estremità opposta della stanza. «Vuoi che la chiuda?»
«No, sto bene. Sto smaltendo i postumi di un’influenza». Entro.
«Infatti stavo per dirti che hai un bel po’ di vestiti addosso». Mi rivolge un sorriso amichevole per sottolineare le sue parole.
Non c’è bisogno che me lo faccia notare: lo so che sono conciata come Frosty il Pupazzo di neve, con il mio vestito di lana a maniche lunghe che mi copre dal mento fino alle ginocchia, e un paio di leggings pesanti. Le uniche porzioni di pelle che si intravedono sono il collo dei piedi, le mani e la faccia. Dovrei essere in un bagno di sudore, e invece no. So cos’altro vede lui: una donna con i capelli corti, scalati e con le punte arricciate all’insù, un viso allungato su cui spiccano gli occhi grandi. Niente trucco. Tocchi di colore e ombreggiature non fanno proprio per me. E basta, in realtà: non c’è altro da vedere. Mi considero una ragazza qualunque. E a me sta bene così.
«Dunque, questa potrebbe diventare la tua nuova umile dimora. Carina, no?».
Ha ragione, a dire il vero. La stanza è carina. Sull’annuncio era descritta come spaziosa e accogliente. Si trova nel sottotetto e il soffitto è spiovente. È inondata di luce naturale; i raggi di sole brillano attraverso il lucernaio e la finestra di un abbaino, con una spettacolare vista sul viale e sulla periferia settentrionale di Londra. C’è un piccolo camino nero ornato da una lamiera in metallo che impedisce ai residui di cenere del comignolo di entrare nella stanza. Uno specchio ovale a figura intera. Le pareti sono state decorate di recente con della carta da parati bianca e anche le assi del pavimento sono state dipinte di fresco, di bianco. Il mobilio è funzionale: un letto matrimoniale dotato di tutta la biancheria, un armadietto a mo’ di comodino, un armadio a muro, una scrivania con sedia annessa. Ma mi piace. Non mi serve molto.
Questa stanza è fatta per me.
L’unico piccolo problema è che puzza di deodorante per ambienti. Uno stucchevole odore di alcol dolciastro di produzione industriale. Poco male. Se la stanza diventerà mia, sarà facile rimediare. Tuttavia, mi resta attaccato alle narici e ne percepisco il gusto amaro in fondo alla lingua.
«Posso chiederti perché se n’è andato l’inquilino precedente?»
«Inquilino precedente?». China la testa mentre mi squadra con un’espressione inquisitoria, senza l’ombra di un sorriso. «Cosa ti fa pensare che qualcun altro abbia vissuto qui?»
«Mi chiedevo solo per quale motivo qualcuno possa aver lasciato una stanza così bella».
Il sorriso torna a illuminargli il viso. «Non ci sono stati altri inquilini, Lisa. Tu saresti la prima! Vuoi vedere la cucina e la sala da pranzo?».
Mentre ce ne andiamo non posso fare a meno di rivolgere un ultimo, lungo sguardo alla stanza.
La sala da pranzo è da dimenticare, arredata in modo trasandato, con un orrendo tavolo in legno anni Novanta, coordinato con sedie e armadio. Mia madre ne resterebbe scandalizzata. La sua sala da pranzo è il suo orgoglio e la sua gioia. Un luogo in cui la famiglia si siede per condividere, ridere e stare insieme. Un concetto un po’ antiquato per molti, ma per mia madre le tradizioni sono importanti.
La cucina è molto ampia. Sembra nuova ma di qualità piuttosto scadente. Immagino che possa essere opera di Jack; non mi sembra un tipo attento a questi dettagli. Jack spiega che avrò uno spazio riservato in frigorifero. Sento la sua voce mentre parla e parla, ma non lo sto ascoltando per davvero. Sto fissando fuori dal vetro che occupa la metà superiore della porta sul retro.
Il giardino sembra non avere fine. È ricoperto da un fitto strato di alberi, alti arbusti e prato, solcato da sentieri seminascosti dalle erbacce. A giudicare dalla distanza della casa successiva, il giardino potrebbe essere lungo un centinaio di metri, ma con tutte quelle piante è impossibile stabilirlo.
Cerco di aprire la porta sul retro.
Jack mi allontana bruscamente la mano dalla maniglia. Io indietreggio per la sorpresa.
«Ehi, ehi, ehi», si lascia scappare.
Il cuore inizia a battermi all’impazzata. Forse Jack non è poi così insignificante e inoffensivo, dopotutto. Forse è un insignificante serial killer.
Solleva le mani in segno di pace. «Non volevo spaventarti. Il giardino è il nostro spazio privato». Rallenta e abbassa il tono di voce, iniziando a parlare fin troppo cautamente. «Sai, devi lasciarti qualcosa di riservato quando metti in affitto una stanza in casa tua, non credi?».
Poi aggiunge con fare speranzoso: «Se ti piace prendere il sole, c’è un sacco di spazio davanti alla casa. Anche se vedo che hai una carnagione color pesche con la panna, quindi forse il sole non fa molto per te. Molto saggio; il melanoma e tutto il resto».
Mi strofino il polso nel punto in cui mi ha afferrato, anche se non mi fa davvero male. Deglutisco in maniera convulsa, con il cuore che batte all’impazzata. Bastava dire che l’accesso al giardino è vietato. Non c’era bisogno di una reazione fisica così energica. So che ha chiesto scusa, eppure…
«Lisa, non è vero?». Una nuova voce mi distrae da Jack.
Una donna è in piedi sulla soglia. Altezza media, ha parecchi anni più di lui. Indossa un elegante completo nero con pantaloni, tacchi vertiginosi e sfoggia la magrezza dolorosa di chi si sta riprendendo da una lunga malattia o da una malsana dedizione alle diete. È probabile che sia sulla cinquantina, anche se non sembra stia affrontando serenamente la mezz’età. Il suo viso ha lineamenti delicati, ma la pelle ha la consistenza tirata e immobile del botulino. Solo gli occhi verdi che fiammeggiano in direzione di Jack, ignorandomi, fanno intuire che splendida donna sia stata un tempo. E lo è ancora, in un certo senso.
Rispondo mentre mi allontano da Jack. Riesco ancora a sentire la stretta della sua mano sulla mia. «Sì, sono venuta a vedere la stanza». Lancio una rapida occhiata a Jack; sono lieta di vedere che anche lui si sente a disagio. «Suo figlio mi stava facendo fare il giro della vostra bellissima casa».
Stranamente non risponde. Al contrario, sento il ticchettio dei suoi tacchi sul pavimento di pietra consumata mentre si avvicina a Jack. Si allunga verso di lui e lo bacia… sulla bocca.
Ops! Gaffe da schiaffo sulla fronte! La mortificazione mi infiamma le guance. Vorrei che la terra mi inghiottisse. Avrei dovuto ricordare che l’annuncio diceva che la casa apparteneva a una coppia, non a madre e figlio. Per l’amor del cielo, non si assomigliano nemmeno. Ecco l’ansia che torna; la donna mi sbatterà fuori dalla porta. Non posso farmi sfuggire la stanza.
«Mi dispiace così tanto», blatero. Zitta. Zitta, la stai combinando sempre più grossa.
La moglie di Jack sminuisce le mie parole con un gesto mentre si avvicina e mi porge la mano. «Io sono Martha».
Ha una stretta decisa, la pelle morbida; non è una donna che ha dovuto lavorare molto nella vita. Una nuvola di profumo costoso mi avvolge delicatamente.
Rivolge al marito un sorriso smagliante. «Perché non vai a raccogliere un po’ di fagiolini per la cena?».
Con un semplice cenno del capo nella mia direzione, Jack si mostra più che ansioso di svignarsela nel giardino a cui non ho accesso.
«Non voleva essere inopportuno». Sposto l’attenzione su Martha. «È un pochino possessivo quando si tratta del giardino. Ci coltiva di tutto». Abbassa la voce usando un tono che si usa fra amiche intime. «Detto fra noi, a volte guarda male anche me quando esco là fuori. Preparo del tè, così possiamo chiacchierare in salotto?».
L’idea del tè è allettante, ma… «Mi dispiace, ho poco tempo. Un’altra volta».
Sostiene il mio sguardo. «Ci sarà un’altra volta? Jack ti ha offerto la stanza?»
«Non siamo arrivati a quella parte della conversazione».
«Se dico che è tua, la prendi?».
Esito mentre ripenso alla mano dell’uomo su di me. Scaccio via il ricordo.
«Sarei molto lieta di poter prendere in affitto la vostra stanza degli ospiti».
Esco dalla casa con un sorriso ottimista stampato in faccia, sentendo lo sguardo di Martha che mi segue mentre cammino. Non appena la porta si chiude, lascio andare un sospiro e avverto il bisogno impellente di appoggiarmi a qualcosa.
«Vi siete fatti quattro risate alle mie spalle, vero?».
Vengo presa alla sprovvista dalla voce che arriva dalla mia sinistra. Una vecchia signora mi fissa dal giardino della casa vicina. Porta un cappello di lana marrone, con un fiore color malva cucito sulla parte anteriore, e mi sta puntando contro un paio di cesoie da giardinaggio con un atteggiamento che sembra dire che è pronta a usarle contro di me.
Faccio un passo indietro. «Chiedo scusa?»
«Ve ne stavate a indicare il mio giardino e a farvi una bella scorpacciata di risate. E comunque è il mio maledetto giardino».
Sono completamente sbalordita. «Scusi… io non…».
Non mi lascia finire, ma torna di corsa in casa, seguita da due gatti. La porta si richiude con fragore alle sue spalle.