Ventisette

Le pareti, il pavimento, il soffitto, il lucernario, la cornice della finestra…

No! No! No! Le pareti. Perdo la consapevolezza delle mie stesse azioni. Dopodiché so solo che mi ritrovo ad afferrare le pareti, come fossi una pazza. Peccato che sotto le dita ci sia il freddo e duro mattone. Non c’è nessuna carta. La carta da parati è scomparsa. Non può essere vero. Non sta accadendo sul serio. Sono nel ben mezzo di un altro dei miei folli sogni, oppure di un episodio di sonnanbulismo. Abbasso le palpebre e cerco di calmare il respiro affannato.

Uno, due, allaccio…

La filastrocca non esce. Ci riprovo.

Uno, due, allaccio…

Spalanco gli occhi. Oddio, è tutto vero. Con la mano incerta mi copro la bocca tremante mentre giro su me stessa, disperata. La parete sotto la finestra è nera. Quella accanto al letto è nera. Quella accanto alla porta… nera. Nero. Nero. Un nero sterminato e lucido come l’ebano.

Il messaggio di John è sparito. Sparito.

Mi sento scossa da un dolore talmente travolgente che mi viene quasi da accasciarmi contro la parete dipinta di quell’odioso colore nero.

Gemendo, sbatto con entrambe le mani sul muro più vicino a me, cercando di sfregare via la vernice. Sfrego, sfrego, sfrego. Non viene via. Si è asciugata in fretta. Attonita, mi fisso il palmo delle mani, come se mi aspettassi di vederle coperte di sangue.

La collera mi consuma, scura come la stanza. Se quel bastardo coltivatore di erba pensa di farla franca, vive su un altro pianeta. Mi precipito fuori dalla camera, marcio giù per le scale e trovo Jack che fischietta in cucina, intento a prepararsi una tazza di tè.

«Come osi?», gli grido addosso con tutta la forza della mia rabbia.

Sfodera il suo odioso sorrisetto scaltro. «Ho cercato di dirtelo prima che te ne andassi di corsa di sopra con il nasino all’insù: la stanza è stata ridecorata».

«Ridecorata?». Ora sto urlando e non ho alcuna intenzione di smettere. «Come osi entrare nella mia stanza e cambiare qualcosa? Non ne hai nessun diritto».

Allora mi fissa con uno sguardo serissimo. «Diritto? Prima di tutto, è la nostra stanza nella nostra casa. Secondo, se leggi per bene il contratto c’è scritto, chiaro come il sole, che il padrone di casa può apportare qualunque cambiamento decorativo ritenga opportuno».

Mi ha fregata. Sono furiosa con me stessa. «Voglio che tu tolga quella vernice. Non mi interessa come, fallo e basta».

Prende in mano la tazza e comincia a sorseggiare. «Non si può fare, tesorino». Ha il coraggio di sogghignare. «Pensavo ti avrebbe fatto piacere vedere che ho finalmente aggiustato il lucernario. Anche se avevo detto a Martha che avremmo potuto lasciarlo così ancora per qualche giorno, ma la signora ha detto di toglierci il pensiero».

D’un tratto rimango immobile. Completamente immobile. «Ti ha detto Martha di farlo?».

Beve un lungo sorso di tè mentre mi squadra da sopra la tazza. «Qual è il problema? Il lucernario è aggiustato. È il motivo per cui mi hai assillato da quando sei arrivata qui, no?». Solleva il mento con aria arrogante. «Sai cosa puoi fare se non ti piace?».

Mi viene quasi da ringhiargli in faccia, ma mi trattengo. Non voglio dare soddisfazione a questo coglione.

Allora decido di colpirlo con la gentilezza. Con enorme piacere e in tono gioviale gli dico: «Resterò qui per tutta la durata dei sei mesi del contratto. Sono sicura che ci farai l’abitudine».

Giro i tacchi e me ne vado. Mentre salgo le scale c’è un nome che mi riecheggia in testa. Non è quello di John Peters, ma quello di Martha Palmer.

C’è solo un motivo per cui può aver ordinato al marito di dipingere la stanza di nero: per mandarmi via. Il topo, i mosconi, Bette… è sempre stata opera di Martha. Santo cielo, porta al collo la targhetta con il nome di quel povero gatto come fosse una medaglia al valore. Non è questo che fanno i serial killer? Conservare trofei appartenuti alle vittime? È lei che comanda in questa casa. Dovrei farle un grande applauso per l’eccezionale interpretazione della povera moglie oppressa, che mi ha tratta in inganno. Ha reso alla perfezione il concetto di “Noi ragazze dobbiamo aiutarci a vicenda”.

Sento che in Martha c’è qualcosa di freddo e calcolatore che mi terrorizza.

 

La sera resto in camera mia. Non mangio. Non bevo. Non ascolto nemmeno Amy. Le pareti nere sembrano aver rimpicciolito la stanza. Di solito adoro questo colore. Ha sfumature che non tutti comprendono. Questo nero che mi circonda, però, mi soffoca. È senza fondo come la mia disperazione.

«Martha ha fatto così anche a te, John?», domando alla stanza, stesa sul letto. «È per questo che ti sei tolto la vita? Perché lei cercava di cacciarti via?».

No. Qualunque cosa abbia spinto John a dire addio al mondo, credo che non abbia nulla a che fare con quella pazza ammazza-gatti di Martha. Dalle sue parole traspariva qualcosa di molto più profondo, più doloroso, che lo ha spinto oltre il precipizio. Ma cosa?

Ora potrei non scoprirlo mai più, perché i suoi messaggi, la sua storia, sono spariti per sempre.