Trentaquattro

Vago intontita nel mondo del dormiveglia, parzialmente cosciente, quando la porta della camera comincia ad aprirsi. Il cuore mi scoppia di speranza ora che Alex è finalmente arrivato. Si è dimostrato un vero tesoro anche quando io l’ho cacciato via in malo modo, cosa di cui mi vergogno. Sto per essere finalmente liberata da questa stanza. Potrò sentire il sole sulla pelle, il vento fra i capelli, il sapore della libertà, tutte cose che ho dato per scontate per tutta la vita.

Ma il cuore mi sprofonda nel petto quando mi accorgo che non si tratta di Alex. Dietro l’infermiere alto c’è una donna venuta a farmi visita. Quando riesco a mettere a fuoco, capisco perché non sono riuscita subito a intuire chi fosse. È l’ultima persona che mi aspettavo di vedere. Mamma.

La voce dell’infermiere è morbida e decisa quando le spiega: «Come può vedere, Lisa è molto stanca. Quindi, se potesse limitare la visita a quindici minuti circa, le saremmo molto grati».

Mia madre non risponde. Sembra che non l’abbia nemmeno sentito. Pallida e scioccata, sembra una paziente più di quanto non lo sembri io. Ciò che attira maggiormente il mio sguardo sono i capelli. La mamma non l’ha mai detto, ma so che si vanta della sua abilità di tenere sempre in ordine i capelli senza alcuno sforzo. Lucenti, vivi, ogni ciocca in ordine e al proprio posto. Ora ha i capelli opachi, aggrovigliati e, mi sembra di capire, non lavati. Quando l’infermiere ci lascia, mamma osserva attentamente la stanza prima di posare lo sguardo su di me.

«Quindi, eccoti qui». La sua voce è senza vita quanto i capelli. Ha le dita intrecciate fra loro, premute con forza nel tentativo disperato di placare il tormento interiore.

«Sì, eccomi qui». Mi rifiuto di alzarmi. Le mie parole sono cariche di amaro sarcasmo. «Un grosso applauso a papà e al suo carissimo amico, il dottor Wilson. Sono una squadra imbattibile. Suppongo tu stia per dirmi che non avevi idea di cosa avessero in mente, vero? Risparmia il fiato. Non mi interessa».

Mia madre si siede sulla poltrona, con la schiena dritta. «No, non avevo idea di cosa avessero in mente. Tuo padre me l’ha accennato all’ora di pranzo, come se gli fosse appena venuto in mente». I suoi occhi stanchi si posano sulle mani serrate. «Crede che sia la cosa migliore per te».

Poso la testa sul cuscino. La mia risposta, rapida come un fulmine, è carica di rabbia. «E tu che cosa credi? Che rinchiudermi qui sia la cosa migliore? Questa cella ti sembra la cosa migliore?».

Mamma chiude gli occhi per qualche momento. «Ascolta, Lisa, voglio che tu sappia una cosa: tutto ciò che abbiamo fatto, lo abbiamo sempre fatto pensando che fosse la cosa migliore per te».

La cosa migliore. Sto iniziando a odiare questa parola. Migliore. Non è forse sinonimo di eccellente, straordinario, supremo? È così che le sembra la situazione? Poi mi viene in mente che è una di quelle parole di copertura dietro cui si nascondono le famiglie della classe media come la mia, in modo da non dover fare i conti con le emozioni.

Mia madre fissa il paesaggio fuori dalla finestra rinforzata. Non saprei definirlo, ma c’è qualcosa nel suo modo di fare che mi dà ai nervi.

Serro le labbra. «Bene, buono a sapersi. Grazie di essere passata».

Tuttavia lei non distoglie lo sguardo dai giardini all’esterno. «Ma io non credo più che sia così».

Cosa? Le ho appena sentito dire che…? Ora ha la mia più totale attenzione, sbalordita come sono.

«Forse, quando eri piccola. Ma non adesso». La sua voce riversa un silenzio tutto nuovo in questa stanza, così abituata ai silenzi. «Devi capire che, quando imbocchi la strada che abbiamo imboccato noi all’epoca, dopo un po’ diventa impossibile tornare indietro. Ogni falsità porta a un’altra falsità e resti bloccato lì». Indurisce il tono sulla parola “bloccato”. «Non puoi ribaltare le cose da un giorno all’altro. Lo capisci questo, vero?».

Che cosa significa? Falsità? Sta forse dicendo…?

Allora mi guarda. La pelle è tirata per la tensione, ma santo cielo, i suoi occhi ardono di determinazione. «Il fatto è che avevi ragione. Non c’è stato nessun incidente nel Sussex. Non c’è mai stato».

Si aspetta che rimanga colpita o che salti su, agitando i pugni in aria e gridando “Evviva!”? So già che non c’è stato nessun incidente nel Sussex; ormai sono oltre questa fase.

«Sfortunatamente, è un po’ troppo tardi. Ma grazie comunque». Ho la bocca carica di acidità.

Tuttavia sembra che mia madre non mi stia ascoltando e che non abbia notato il sarcasmo con cui le rivolgo la parola. O forse l’ha notato e non gliene frega niente.

Quando ricomincia a parlare, la sua voce è lontana. «Ti portammo in ospedale per un po’, uno privato. Avremmo dovuto prenderci cura di te soltanto per qualche tempo…».

Tiro indietro le coperte del letto e scatto in piedi, accovacciandomi subito davanti alla poltrona. «Che cosa significa, prendervi cura di me?».

Mia madre si rifiuta di guardarmi mentre con le unghie scava nei braccioli trapuntati della poltrona. È come se il giardino fosse un tribunale e lei stesse testimoniando, dopo aver giurato sulla Bibbia. Vorrei costringerla a voltarsi verso di me. A guardarmi in faccia. Ma la lascio sprofondare nel passato perché i cancelli della verità sono finalmente aperti.

«Ma i mesi si susseguirono uno dopo l’altro». Il suo tono di voce misurato scivola via tremante. Le parole le cadono dalla bocca incerta come macigni bollenti che non riesce a buttare fuori abbastanza in fretta. «Alla fine, adottarti sembrò la cosa più semplice per tutti. A quel punto, dovemmo inventarci una storia per coprire l’accaduto e così ti raccontammo dell’incidente. Avevamo intenzione di dirti la verità più tardi, una volta che fossi stata abbastanza grande da capire, ma non l’abbiamo mai fatto. È stato imperdonabile e mi dispiace immensamente».

Ho aspettato questo momento per così tanto tempo e ora che è arrivato non mi sento pronta. Non so bene come reagire. «Allora, che cosa accadde in realtà?».

Strizza forte gli occhi mentre combatte contro i propri demoni. «Non lo so. Tuo padre sì, invece, e credo che lo sappia anche il dottor Wilson. Ma io no».

«Che significa che non lo sai?». Ora sono chinata sopra di lei, indignata, con il respiro affannato che la sfiora.

Quando i suoi occhi si aprono, sono carichi di un dolore talmente straziante che indietreggio. «Io. Non. Lo. So». La sua voce tormentata riecheggia nella stanza.

Poi mi sento quasi soffocare da una tremenda sensazione di immobilità mentre il mio cervello elabora le informazioni. Le parole di mia madre si fanno lentamente strada dalle orecchie al cuore. «Adottata? Sono stata adottata?». È come se mi stessi esercitando a parlare in una lingua straniera.

La donna il cui cuore batte sulla poltrona accanto a me non è davvero mia madre? È come se qualcuno mi avesse colpito il petto con una mazza, perché non ho mai provato tanto dolore in vita mia.

«Non sei la nostra figlia biologica. Ti abbiamo adottata. Ti ho amata con tutto il mio cuore dal primo momento in cui ti ho vista».

Si dondola sulla poltrona, con le lacrime che le solcano il viso. Non riesco a parlare. Non riesco a piangere. In me c’è posto solo per una furia cieca. Non verso le persone che ho sempre chiamato madre e padre, ma verso me stessa. Perché non mi è mai passato per la mente che anche questo potesse fare parte del puzzle?

Dal giorno in cui sei entrata nelle nostre vite. Non ha forse detto così la mamma, quando lei e papà sono venuti a farmi visita? Non mi sono forse chiesta come mai? Perché non sono andata fino in fondo per capire, perché non ho insistito con loro? E dov’è il mio certificato di nascita? Perché non ho mai pensato di fare una domanda del genere? Con tutti i documenti che ho controllato, non ho mai pensato a questo?

Ho così tante domande, ma si accavallano tutte nella mente. Una massa confusa in cui non riesco a farmi strada. Mia madre cerca di aiutarmi. A parte il fatto che non è mia madre, certo. «Non so dove siano i tuoi veri genitori. Né se tu abbia fratelli o sorelle. Tuo padre sa più di me; forse sarà in grado di dirtelo».

Allora mia madre sussulta quando le pianto le dita nel ginocchio tremante, in preda alla disperazione. «Lui sa che cos’è successo in quella casa? Il giorno del mio quinto compleanno?»

«Non ha più senso fingere». È sprofondata in un torpore profondo; non sono nemmeno sicura che mi veda ancora.

Mi sento completamente persa. Furiosa come non mai, ma non so bene nei confronti di chi. Risoluta ma del tutto confusa. Eppure allo stesso tempo mi sento come se stessi guardando un mondo che per la prima volta ha un senso. Solo che un senso compiuto ancora non ce l’ha. Non so ancora cosa sia accaduto in quella casa. Devo scoprirlo.

«Chi è lui?». Credo di conoscere la risposta a questa domanda, ma ho commesso molti errori in passato solo per aver dato per scontate certe cose.

La donna che mi chiama figlia sta vivendo il suo incubo personale. «Capisci perché l’abbiamo fatto, vero?».

Mi sta implorando, supplicando, senza dubbio tendendo le braccia in cerca di perdono. Be’, dovrà tenderle per molto tempo.

«Chi è? Il mio vero padre?».

Mia madre – che non è mia madre; oddio, è tutto così confuso – si alza di scatto dalla poltrona, che dondola sulle gambe mentre io atterro sul sedere. È già arrivata alla porta, ma io l’afferro prima che possa andarsene. La costringo a voltarsi verso di me.

Grido: «Chi è mio padre?».

Mamma cerca di divincolarsi. «Lisa, lasciami andare. Lasciami andare!».

«Non finché non mi avrai risposto».

Iniziamo a lottare. Che Dio mi perdoni, perché la sbatto contro la parete. Trafelata, mi respinge appoggiandomi le mani contro il petto, ma io non ho intenzione di cedere, non adesso. E poi altre mani mi afferrano per le spalle e per la vita e mi trascinano via.

«Lasciatemi andare. Lasciatemi andare».

Ma non mi lasciano.

Mia madre scappa dalla porta. No. No. Non posso farmela sfuggire.

Ma lei se n’è già andata quando urlo: «Chi è il mio vero padre?».

E la mia vera madre? Chi mi ha stretta e tenuta fra le braccia prima che lo facesse Barbara Kendal?

 

Ho dormito ancora. Mi sento a terra; abbattuta dalla terribile bomba che mamma ha fatto scoppiare in questa camera. Adottata. Una parola che mi ha cambiato la vita per sempre. Da dove vengo? Chi mi ha dato la vita? Ho i miei sospetti, certo, ma il mio viaggio ha preso talmente tante svolte che non darò più nulla per scontato. Almeno mamma mi ha detto la verità. Dovrei esserle grata per questo. Mamma? Continuo a chiamarla così?

Sento delle voci fuori dalla stanza. La porzione di cielo che vedo fuori dalla finestra ha già le ombre allungate della sera. La porta si spalanca ed entra un medico, che poi la richiude.

«Lisa?».

Il cuore mi sprofonda in petto. Speravo fosse Alex.

«Ascolta, vogliamo che tu ti rimetta il più in fretta possibile», prosegue, «ma per raggiungere il nostro obiettivo abbiamo bisogno del tuo aiuto e di quello della tua famiglia. Lo capisci?»

«Certo».

«E questo significa che abbiamo tutti delle regole da rispettare». Sprofondo ancora di più nello sconforto; è arrabbiato per la storia del cellulare.

«Ho informato tuo padre che è controproducente ricevere visite per i primi giorni», continua, «se non da parte sua e di tua madre. Sfortunatamente, ha dimenticato di informare tuo fratello, e a quanto pare è un giovanotto molto sicuro di sé che non accetta un no come risposta. Date le circostanze, sono disposto a concedergli una breve visita, ma temo che dovrà essere supervisionata, e ti sarei grato se potessi spiegargli che in futuro ci aspettiamo che le nostre regole vengano rispettate».

Fratello? Ho appena perso una madre e guadagnato un fratello? Prima di poter capire che diamine sta succedendo il medico apre la porta e accompagna dentro Alex. Oh, quel fratello. Trattengo l’impulso di sorridere con aria trionfante.

Alex sfodera la sua espressione più scontenta. Si sistema sulla poltrona accanto al letto mentre il medico resta in piedi in fondo alla stanza a braccia conserte.

Alex si volta verso di lui. «Possiamo avere un po’ di privacy?»

«Questo temo non sia possibile. Lisa non sta affatto bene».

Alex è freddo e sbrigativo. «Sono un avvocato. Conosco bene la legislazione relativa alle famiglie e alla privacy. Lei può dire lo stesso?».

Il medico dilata le narici mentre ribolle di rabbia. Rimane immobile per un attimo, poi mostra la mano aperta a mezz’aria. «Soltanto cinque minuti».

Se ne va, ma sospetto che abbia l’orecchio premuto contro la porta.

Rivolgo ad Alex un sorriso scaltro. «Credevo ti occupassi di diritto commerciale e di loschi affari con l’Europa dell’Est, non di diritti umani».

Alex fa spallucce. «Lui questo non lo sa». Poi mi prende per mano. «Che è successo, Lisa?»

«Loro…». Mi accorgo che sto per imbarcarmi in uno sfogo delirante su una cospirazione in cui sono coinvolti i miei genitori, Wilson e Martha allo scopo di rinchiudermi in un manicomio, ma capisco che effetto potrebbe avere su Alex, così cambio tattica. «Mi hanno ricoverata».

Alex serra le labbra. «Capisco. E tu cosa ne pensi?».

Mi viene quasi da urlare, ma mi sforzo di abbassare la voce. «Dici sul serio? Non vedi cosa sta succedendo?».

Cerca le parole giuste per dirlo. «Be’, siamo onesti. Dopo quello che è successo, forse è la cosa migliore».

La cosa migliore! Qualcuno deve bandire queste parole prima o poi.

Allontano la testa e piombo sul cuscino. Non sono pronta a condividere con lui la bomba che ha sganciato mia madre. «No. Sei coinvolto anche tu? Insieme a quegli altri impostori?».

Lui resta calmo. «Non sono coinvolto in niente. Voglio solo che tu sia al sicuro. E ora come ora questo sembra il posto più sicuro per te».

Quando mi rimetto a sedere, ogni mia parola è carica di collera. «Vogliono tenermi lontana dalla casa perché mi sto avvicinando alla verità. Non lo capisci?».

Ora parla proprio come un avvocato. «Chi ti vuole lontana dalla casa?»

«Mio padre sapeva dov’era la mia stanza».

È confuso. «Non capisco cosa intendi».

«Ammetto che fossi turbata, ma non ricordo che Martha e Jack abbiano detto o mostrato a mio padre dove fosse. Potrei sbagliarmi, ma lui è salito su per le scale verso camera mia senza esitazione».

«Che cosa vuoi dire?».

La testa mi trema e pulsa. «Non lo so. Quello che so è che i pezzi del puzzle stanno iniziando a svelarsi e la casa è l’unica pista da seguire per rimetterli a posto. Senti, non mi serve una consulenza legale a cento sterline l’ora. Se non sei in grado di aiutarmi, puoi anche uscire da quella porta».

Allora si guarda intorno. Sospira e mi guarda negli occhi. «Sì, forse hai ragione; vogliono che tu stia lontana da quella casa. Ma sarò sincero: anch’io voglio che tu stia lontana da quella casa. Sono stato molto chiaro su questo punto. È pericoloso. Lì dentro sono accadute cose terribili e potrebbero accadere di nuovo. Invece, finché starai qui, non ti accadrà nulla. Ecco perché penso che dovresti stenderti e rilassarti. Dimentica la casa per un po’. Sarà ancora esattamente al suo posto quando uscirai».

«Non se ne parla. Tornerò là con o senza il tuo aiuto».

Poi infila la mano in tasca, tira fuori la bottiglia di profumo Eternity e me la porge. «Mi hai anche chiesto di comprarti un profumo! Se questo non è un segno che non stai bene, non so cosa sia».

«È un regalo per una persona che mi ha fatto un favore qui dentro». Ricordo la storia straziante della donna. «Farà miracoli per lei, molto più di qualunque medicina».

Mi guarda con aria pensierosa. «Ricordi quando ti ho incontrata su quel viale e ti comportavi in modo tanto strano?».

Annuisco, riluttante.

«Che cosa stavi vedendo esattamente?».

Non voglio ripensarci, ma chissà come riesco a descrivergli tutte le immagini che avevo nella mente: le ombre, le forme, l’oscurità e poi il rovescio della medaglia, ovvero la bellezza e un mondo in cui vale la pena di vivere. Poi continuo a raccontargli cos’ho visto nella sala da pranzo.

Adesso sembra turbato. «Senti, ho chiesto in giro. Quelli che descrivi sembrano i classici sintomi di allucinazioni. Come un trip di acido».

«C-cosa? Acido?». Dire che sono sconvolta è un eufemismo.

«L’hai preso di proposito per espandere la tua percezione? È un comportamento molto pericoloso, devo dire».

Sono più che indignata. «Ma certo che no, cazzo. Non sono una tossica, se è questo che mi stai chiedendo».

Mi guarda con un’espressione severa. «C’è un’altra possibilità. Jack o Martha, o entrambi, potrebbero averti drogato il cibo per spingerti al limite e farti rinchiudere qui dentro. Credi sia possibile?».

Rimango inorridita e allarmata alla prospettiva che mi sta suggerendo. «No, non credo. Non tocco nulla in quella casa».

Annuisce. «Proprio niente?».

Mi scervello. «Ho dell’acqua in camera mia».

D’un tratto mi sveglio dal torpore. La mente torna al momento in cui Martha era in piedi in fondo alle scale che portano alla mia camera, dopo il mio confronto con Jack in giardino. Era questo che stava facendo? Stava tornando dalla mia stanza dopo aver drogato le mie bottiglie d’acqua? Ricordo di aver bevuto subito prima di andare da Alex e Patsy, quando sono andata in camera mia prima dell’episodio in sala da pranzo… e ogni volta, subito dopo aver bevuto, ho provato quelle strane e spaventose sensazioni.

«Credi che Martha possa averla manomessa? Che ci abbia messo dentro dell’LSD? Jack è uno spacciatore…».

«Che cosa?», sbotta Alex.

Lo zittisco con un cenno della mano; possiamo pensarci più tardi.

«Jack sarebbe in grado di rimediarne un po’ in fretta». Se Martha e Jack fossero qui li strozzerei entrambi molto lentamente. Come hanno potuto farmi questo? O forse Martha gli ha chiesto di procurarselo senza dirgli che cosa aveva in mente? «È stata lei a farmi impazzire…».

«No, è solo una possibilità», mi interrompe Alex. «Ma il fatto è che chiunque sia disposto a fare cose del genere non si fermerebbe davanti a nulla. Capisci? Non puoi tornare in quella casa. Non sai che altro potrebbero fare».

Tiro giù le coperte, per rimarcare le mie intenzioni. «Non mi interessa. Io ci torno. Ora aiutami a uscire di qui».

Ha l’aria addolorata. «Sai, Lisa, ai tempi della facoltà di legge, c’era un giovane studente. Un ragazzo brillante, il primo della classe, destinato a diventare una stella dell’Old Bailey. Il problema è che gli piaceva farsi. Niente di troppo serio, ma era convinto di potersi aprire molte porte con gli allucinogeni. Diceva che gli oggetti prendevano vita e iniziavano a parlargli».

Proprio come hanno fatto con me le sedie e l’armadietto in sala da pranzo.

Alex conclude: «Insomma, diceva di poter trovare le risposte alle domande dell’universo e cose del genere. Be’, si sbagliava. È una lunga storia, ma da allora è entrato e uscito periodicamente da posti come questo. Adesso lavora in un mercatino dell’usato, due giorni a settimana. Ti sei già spinta oltre il precipizio, prima ancora di tutto questo; ora sei appesa a un filo. Se in quella casa dovessero giocarti ancora un tiro mancino, stavolta potresti non tornare indietro. Non lo capisci? Non puoi rimettere piede lì dentro».

Certo, ha ragione. Ma ciò che non capisce è che ho vissuto nel mio inferno personale da quando avevo cinque anni. E ci vivrò per sempre se non scopro la verità. Entrare e uscire da posti come questo, lavorare in qualche mercatino dell’usato… Non fa differenza per me, ma almeno se torno in quella casa ho una possibilità per fuggire da questo inferno ed essere libera. O forse no. Ma devo provarci.

Allora mi viene in mente un modo per andare incontro alla sua coscienza e a tutte le sue preoccupazioni per il mio benessere. «Se torno a casa mia e prometto di restare lì, mi aiuterai a uscire di qui?».

Il suo viso si illumina. «Davvero?»

«Certo. Lo farò, ma devi aiutarmi a uscire di qui».

Aspetta un bel po’ prima di alzarsi. «Okay. Lasciami visionare i documenti del tuo ricovero. È molto probabile che ci trovi un errore, si trova sempre. E se non c’è, me lo inventerò».

Si avvia verso la porta. Mentre cammina, mi viene in mente una cosa. «Alex?»

«Sì?»

«Cosa intendevi quando hai detto che in quella casa è accaduto qualcosa di terribile?».

Distoglie lo sguardo. «Oh, niente. Stavo pensando ai tuoi presunti trip di acido e alla storia di Bette, tutto qui».