Due
Dopo essere uscita da casa di Jack e Martha salgo in auto. Sto tremando e afferro il volante nel tentativo di calmarmi. Ma non ci riesco. Apro il vano portaoggetti, tiro fuori la scatola di antidepressivi e ne ingoio due senz’acqua. Chiudo gli occhi mentre aspetto che la loro magia inizi a fare effetto. Appoggio la testa allo schienale e sposto delicatamente i polpastrelli sulle tempie. Massaggio. Inspiro a fondo. Ricorro alla mia tecnica di respirazione interna per placare la mente.
Uno, due, allaccio la scarpa.
Tre, quattro, busso alla porta.
Cinque, sei…
Piano piano funziona.
Una volta che la tensione inizia a dissiparsi controllo l’orologio. Le quattro e mezza e ho ancora un’altra visita da fare oggi. I miei genitori si aspettano che passi a trovarli stasera nella loro casa nel Surrey. In circostanze normali, annullerei senza esitazioni, ma queste non sono circostanze normali. Se non ci vado o non mi faccio viva, andranno nel panico e daranno l’allarme a tutto il parentado. O, ancora peggio, alla polizia. L’ultima cosa di cui ho bisogno è di ritrovarmi con una schiera di amici e parenti o le forze dell’ordine alle calcagna.
Metto in moto e parto. Le strade sono bloccate, intasate dal traffico, il che è un bene. Devo concentrarmi sulla guida. Non c’è tempo per pensieri disordinati e insicurezze. Quando esco dalla M25, attraverso la Mole Valley con i suoi campi di erba disseminati di mucche grasse e pecore grasse. Paesi pingui pieni di case pingui e di auto pingui parcheggiate nei vialetti. Questa è l’Inghilterra in cui sono cresciuta. Niente potrebbe essere più inglese della casa di proprietà dei miei genitori. È una vecchia casa canonica, più piccola di quella dove sono andata a vedere la stanza, ma ugualmente grandiosa, a suo modo. E niente potrebbe essere più inglese dei miei genitori, che mi stanno aspettando sulla porta d’ingresso. Mi hanno vista lungo la strada prima ancora che arrivassi davanti a casa. Ecco che posto è.
Mio padre sa come ergersi in tutta la sua controllata rigidità, e l’occhio non può fare a meno di indugiare sulla sua altezza. Mamma lo definisce in maniera scherzosa la volpe grigia, accennando ai capelli sale e pepe. Prima di andare in pensione era uno stimato dottore di Londra e verso la fine della carriera svolgeva la libera professione. È il genere di uomo che non si incontra più così spesso. Un tipo forte e silenzioso. Stoico, suppongo sia il termine corretto.
Mamma è più bassa e i capelli che le abbracciano le orecchie sono più bianchi che grigi. Sul viso le si legge l’età in tutti i punti giusti; cicatrici e rughe non la spaventano, lo so per esperienza. Anche lei è il genere di donna che non si incontra più così spesso. Una donna che si vanta immensamente dei successi del marito e della sua unica figlia, ma che preferisce rimanere in disparte ad applaudire. Di certo non è il tipo di donna che viene scambiata per la madre del marito.
Si chiamano Edward e Barbara. È Barbara, mai Barby. Entrambi indossano abiti da campagna più che adatti al contesto. Non so se siano in tweed, ma ne hanno tutta l’aria. Una coppia solida, sposata da trentacinque anni, l’anniversario cade fra sei mesi esatti. Una solidità che anch’io desidererei trovare insieme a un uomo. Naturalmente, mi torna in mente Alex. Scaccio il pensiero senza pietà.
«Ciao, cara!».
Il saluto di mio padre è caloroso, ma allo stesso tempo intriso di una rigidità tale da far presagire cosa sta per accadere. Nessun abbraccio, nessun bacio sulla guancia. Al contrario, mi sistema una ciocca di capelli proprio come faceva quando ero piccola.
Mamma mi regala uno dei suoi sorrisi smaglianti mentre mi bacia sulla guancia. Non mi lascia più andare, strofinandomi le mani con fervore su e giù per le braccia coperte dalle maniche. Mi scruta da capo a piedi, alla ricerca di qualche cambiamento. Vorrei che non lo facesse; mi mette così a disagio.
Quando entriamo in casa noto, come sempre, che la vecchia canonica è disseminata di mie fotografie. Io che vinco premi scolastici, che ricevo la laurea cum laude in matematica, che vinco le gare di equitazione e che stringo le braccia intorno al collo di vari cavalli. È tutto piuttosto imbarazzante ma c’è anche una sorta di nota dissonante in tutte queste fotografie. Una frattura invisibile. Non ci sono amici in posa accanto a me, né fidanzati. E sono magra, in maniera addirittura dolorosa. In confronto a me, si potrebbe dire che Martha debba perdere ancora qualche chilo. E so anche che le foto in cui ho raggiunto il livello massimo di magrezza – ossa sporgenti, un viso tutto occhi – sono chiuse a chiave da qualche parte, lontano da occhi indiscreti.
Non ci sono in giro foto di me da bambina. Mamma dice che furono rubate, insieme a un sacco di altri oggetti, durante un furto alla casa in cui vivevamo quando ero molto piccola, una casa che non ricordo. L’unica altra foto che spicca è quella di papà da giovane alla facoltà di medicina. È un’immagine di lui mezzo ubriaco, in posa insieme a due studenti di medicina suoi amici, con le mascherine da chirurgo e le pinte di birra sollevate verso l’obiettivo per fare i buffoni.
Entriamo nel giardino, tranquillo e ben curato. Sul tavolo in ferro battuto ci attende una distesa di frollini, biscotti alla cannella e una torta di frutta fatta in casa da mia madre, insieme a una teiera, il cui profumo si fonde con quello dei boccioli dei pregiati garofani variopinti di papà.
Mamma decide di servirmi per prima, posando una fetta di torta sul mio piattino da tè. In realtà è più una mattonella: è il suo modo silenzioso di tenermi all’ingrasso. Lo sguardo rimane fisso su di me mentre aspetta il momento. Il momento in cui io spezzo un angolino di torta e me lo infilo in bocca, cosa che faccio da brava figlia ubbidiente. Mastico.
«Ottima la torta, mamma». Mi lecco le labbra in maniera esagerata. «Mary Berry dovrà stare attenta a non farsi soffiare il programma di cucina».
Mamma assume un’espressione estatica, con un lampo di soddisfazione che le scalda lo sguardo. Un’altra al posto suo probabilmente applaudirebbe con fervore per la contentezza, come uno di quei meme che si riciclano sui social media. Ovviamente sto mentendo. La torta ha la consistenza e il gusto di un ammasso congelato di zucchero e grasso mescolato con la plastilina.
Viene versato il tè e i miei iniziano a chiacchierare oziosamente sul bel tempo, sui vicini, sulle imprese di papà al circolo del golf. Ma è tutta una finzione. So qual è il vero motivo per cui siamo qui. È prevedibile quanto il fatto che la domenica vadano in chiesa. Non posso fare a meno di notare le occhiate esplicite che si scambiano.
È papà a dare il via alle danze. «Allora, come stai oggi, mia cara?».
Sono sicura che si tratti della stessa frase che usava con i pazienti.
Bevo un sorso di tè tiepido prima di rispondere. «Sto bene».
E allora si prosegue con mia madre che si unisce alla conversazione. «Stai mangiando in maniera adeguata?»
«Sì. Tre pasti al giorno, come da copione». Mi infilo in bocca un altro morso di zucchero, grasso e plastilina, stracolmo di ribes e uva sultanina, per enfatizzare la risposta. Stavolta la torta mi si attacca sul retro degli incisivi inferiori.
«Dormi bene?»
«Sì».
Sento la pancia che si contorce. Non li biasimo per quanto stanno facendo, ma essere messa sotto un microscopio non è divertente. È maledettamente irritante. Con la lingua riesco a staccare la torta ridotta in poltiglia dai denti, ma c’è un pezzo ostinato che rifiuta di andarsene.
«Sei sicura?». Stavolta è il turno di mamma. I miei sono una coppia d’attacco che non molla.
«Sì».
«Quindi stai ancora prendendo le medicine agli orari giusti?»
«Sì, sto ancora prendendo gli antidepressivi».
Mamma sussulta. Ci avrei scommesso. Non riesce ad accettare che la parola “depressa” possa riferirsi alla sua unica figlia. Non mi piace tormentarla con questa storia, ma a volte è l’unico modo per cambiare il corso di queste conversazioni che vanno fin troppo sul personale.
Funziona; inizia a chiedermi del lavoro. Di solito è un argomento sicuro. Sanno quanto lavoro duro e quanto sono brava in quello che faccio. Racconto che forse stanno per darmi ancora una promozione, che i cacciatori di teste stanno fiutando l’aria e mi arrivano offerte con stipendi migliori. I miei sorridono gonfi di orgoglio. E anch’io sorrido, soddisfatta. Perché no? Sono brava nel mio lavoro. Troppo brava, potrebbe dire qualcuno, dal momento che non ho amici che possano definirsi tali in ufficio. Non ho amici in generale.
A un tratto mia madre finge di ricordare qualcosa. Posa la tazza sul piattino. «Oh, a proposito, cara, hai avuto modo di andare a fare visita al dottor Wilson?».
Annuisco, scostando il piattino su cui c’è ancora la maggior parte della torta. «L’ho visto un paio di volte».
I miei si scambiano di nuovo un’occhiata, stavolta preoccupati. Papà fissa lo sguardo su un punto lontano, sull’altalena gialla corrosa dalle intemperie in fondo al giardino. Quell’altalena è la mia definizione di felicità. Papà che mi spinge con attenzione mentre io vado su e giù, sempre più in alto, strillando con le mani saldamente aggrappate alla corda.
Papà allora torna a guardare il tavolo, con gli occhi adombrati dal dolore.
Mamma inarca le sopracciglia, il suo viso è il ritratto della confusione e della preoccupazione. «È strano, cara, perché di recente tuo padre ha incontrato il dottor Wilson a una cena e ha detto che non ti sei ancora messa in contatto con lui».
Se c’è una cosa che odio più del mentire ai miei genitori è venire colta in flagrante. Con la vergogna dipinta sul volto, biascico qualcosa con il fiato corto: «Sì, ecco, sono stata molto impegnata».
«Io e tuo padre», insiste mia madre, come se io fossi ancora la bambina sull’altalena a cui bisogna dire quando è arrivato il momento di tornare con i piedi per terra, «pensiamo davvero che sarebbe una buona idea se tu andassi a fargli visita. È un vecchio amico di tuo padre. Hanno frequentato insieme la facoltà di medicina. È uno degli psichiatri più illustri di Londra. La gente paga un sacco di soldi per un consulto».
Se avesse concluso la frase in questo modo, avrei gettato la spugna e avrei acconsentito ad andare dal dottor Wilson. Per sua sfortuna, aggiunge: «Soprattutto dopo quanto è appena accaduto».
Dimentico la tacita regola che impone di non perdere mai la calma in una famiglia come la mia. È una cosa indecente, che va evitata a prescindere. Scoppio. Non ricordo di aver preso in mano la torta. Ma il prezioso dolce di mia madre vola in aria, atterra sul prato e finisce in frantumi. Esattamente come mi sento io.
«Quello che è accaduto quattro mesi fa è stato uno sbaglio, cose che capitano. Okay?». Non sembrano parole uscite dalla mia bocca, ma piuttosto il lamento di una bambina che vuole farsi ascoltare dai genitori, che desidera disperatamente essere presa in considerazione. «Quante volte devo dirvelo? Non avevo davvero intenzione di farlo!». Fremo di rabbia. Vorrei fermarmi, ma non ci riesco. «E che cazzo! Chiedetelo ai ciarlatani di quel maledetto ospedale, è stato uno stramaledetto errore!».
Mia madre trema di orrore, passando lo sguardo incredulo dall’alzatina vuota della torta al mio viso. Papà ha assunto la sua espressione severa. Capisco molto bene come dovessero sentirsi i suoi studenti di medicina ai tempi in cui insegnava.
«Ti prego di non usare un linguaggio così sboccato in casa mia, Lisa. E ti prego di non insultare tua madre, visto che sta solo cercando di aiutarti. E ti pregherei anche di non riferirti ai miei colleghi come a dei ciarlatani».
Ho la testa sconvolta dalla vergogna. Le lacrime mi bruciano all’angolo degli occhi. Perché non posso essere come tutti gli altri e basta? Vedo il modo in cui i colleghi mi guardano di nascosto al lavoro. Lisa la macchina, che non va nemmeno in pausa pranzo la maggior parte dei giorni, non può essere umana. Normale.
«Ed». Mia madre parla in tono pacato, quasi sereno. «Dalle un po’ di respiro».
«Mi dispiace», sbotto, sollevando finalmente la testa per guardare negli occhi le due persone che mi amano di più al mondo.
Mia madre si ricompone. Con calma prende in mano le redini della conversazione. «Va tutto bene, cara; sei arrabbiata, lo capiamo. Nessuno sta insinuando che tu…». È chiaro che aveva il resto della frase sulla punta della lingua, ma lo ricaccia indietro deglutendo vistosamente. Cambia approccio. «Sappiamo che non volevi che accadesse; lo sappiamo».
Non vedo come potrebbe saperlo. Nemmeno io so con certezza cosa stessi cercando di fare quel giorno.
Papà, dall’alto della sua rigida istruzione, non spiccica una parola. A volte l’incoraggiamento di una madre è la medicina migliore.
«Se tu andassi a trovare il dottor Wilson, potrebbe essere in grado di aiutarti a comprendere i tuoi problemi», cerca di convincermi mia madre, «e fornirti gli strumenti per affrontarli. È un uomo brillante, non è vero, Edward?».
L’espressione indurita di mio padre è svanita. Lo stesso vale per la postura dritta con cui affronta la vita. Ha le spalle incurvate come quelle di un anziano. «Sì. È un uomo brillante».
Vorrei tanto allungare una mano verso di lui. Toccarlo. Abbracciarlo forte. Sono sempre stata la cocca di papà. Tra noi esiste un legame che si è forgiato in fondo al giardino su quell’altalena di plastica.
Prendo una decisione. Non ho il cuore di arrecare loro altro dolore.
«Andrò a trovarlo. Prenderò un appuntamento».
Non ho voglia di andare dal dottor Wilson. L’ennesimo rappresentante della comunità medica pronto a dissezionarmi. Ho la sensazione di aver incontrato ogni consulente, terapista, psichiatra, guaritore psichico e strizzacervelli da strapazzo di Londra nel raggio di trenta chilometri. Come dimenticare la seduta con il tizio che se ne andava in giro con un caftano viola e una collana di conchiglie che sembravano arrivate drittamente dalla spiaggia di Brighton, convinto di poter tirare fuori i miei problemi posandomi addosso le sue mani sudaticce e carnose? Ecco fino a che punto ho cercato disperatamente di risolvere i miei casini.
Quando sono stata dimessa dall’ospedale, quattro mesi fa, qualcosa mi ha spinta in un’altra direzione. Non so spiegare bene cosa. Magari ho finalmente capito che non potevo andare avanti così. È stato allora che ho preso una decisione.
Non ho bisogno di nessuna guida, di nessun aiuto.
Ho solo bisogno della verità.
Tuttavia, andrò a fare visita al dottor Wilson se questo farà contenti mamma e papà e mi consentirà di non averli più sul collo.
Per il resto della serata andiamo avanti a parlare come se non fosse successo nulla. È questo che accade nelle famiglie come la mia: se l’imbarazzo bussa alla porta, lo si invita a entrare, lo si disinnesca in maniera permanente e poi lo si spazza via nascondendolo sotto il tappeto. Il nostro momento di condivisione termina con la promessa da parte loro di venirmi a trovare a Londra fra due settimane. Soltanto quando risalgo in auto mi rendo conto di un particolare che riguarda la visita imminente.
Non ho raccontato loro che sto per trasferirmi nella stanza in affitto da Jack e Martha.