Quaranta
Finisco di leggere. Mamma piange a dirotto, un suono sconsolato e lugubre che riempie la stanza. Papà è raggelato, con un’espressione spettrale, come se avesse appena visto un fantasma. E immagino che in un certo senso sia così. Quello di John Peters, il mio padre biologico. E il resto della mia famiglia, massacrata nella casa accanto.
«Perché non me l’avete detto?», domando in tono pacato. Non ho più né il tempo né la forza per arrabbiarmi ancora.
È distrutto dal dolore. «Come potevo dirti che tua madre, la donna che ti ha portata in grembo per nove mesi, ha ucciso tuo fratello e tua sorella e ha cercato di uccidere anche te? Non potevo». La sua voce è ruvida, ridotta quasi a un sussurro. «Tua madre – Barbara – non ha mai saputo cosa fosse accaduto. Le dissi che dovevamo prenderci cura della figlia di un amico per un po’ di tempo. Poi divennero anni. E tu diventasti nostra».
«Aiutasti il mio padre biologico a coprire tutto?».
Papà ci mette un po’ a rispondere. «Ci conoscemmo tutti alla facoltà di medicina: tuo padre, io e Tommy Wilson. Diventammo subito amici. Gli altri studenti ci soprannominarono i Tre Moschettieri della medicina». Un sorriso debole gli balena sulle labbra al ricordo.
«Era mio padre quello nella foto che avete tolto dalla parete, vero? Quella insieme al dottor Wilson».
Non ho bisogno del suo cenno affermativo per averne conferma. «Scegliemmo tutti discipline diverse, John intraprese un lungo tirocinio per diventare chirurgo traumatologo. Divenne il migliore in circolazione». Il suo tono è decisamente fiero dei traguardi raggiunti dal mio padre biologico. «Restammo molto legati, motivo per cui quando mi chiamò in uno stato di disperazione assoluta non potei fare a meno di aiutarlo. Quando arrivai a casa sua…». Scuote la testa, il viso indurito. «Era la scena più infernale a cui avessi mai assistito. Mi lasciò libero di scegliere di non farmi coinvolgere, perché se la polizia l’avesse scoperto sarei potuto finire in prigione. Ma John non aveva fatto nulla. Non era giusto. Stava pensando soltanto alla reputazione di tua madre. Se la storia fosse finita sui giornali, l’avrebbero distrutta».
«Raccontami di mia madre», lo interrompo delicatamente.
«Non so dove si fossero conosciuti. Lei aveva alle spalle una storia travagliata. Era cresciuta nel circuito del sistema assistenziale. Non so come ci fosse finita, ma non aveva una famiglia. Era una donna così bella, così sorprendente». Fa una pausa. «Ma c’era una sorta di fragilità in lei, come se rischiasse sempre di crollare per un nonnulla…».
«Il che spiega perché una donna così bella, con un marito amorevole, abbia ucciso i propri figli». Dio, fa male dirlo ad alta voce.
Papà rimane per un po’ con lo sguardo abbassato. Poi solleva la testa e mi guarda. «Forse non sarebbe successo se non fosse stato per Martha. Martha Palmer era una delle persone più ammalianti e narcisistiche che abbia mai conosciuto. Tommy si specializzò nel campo della psichiatria e in maniera alquanto stupida iniziò a uscire con una delle sue pazienti».
Per la prima volta mia madre parla, con il disprezzo negli occhi. «L’ho incontrata una volta a una delle feste di Tommy. Faceva di tutto per farlo ingelosire flirtando con un sacco di altri uomini. Era meravigliosa, questo glielo concedo, ma era chiaro come il sole che il suo cuore era marcio nel profondo».
«Mi dissero che avevano rotto». Papà prosegue nel racconto. «Soltanto in seguito capii che era accaduto perché d’un tratto era diventata la migliore amica di Alice. Poi si buttò a capofitto su John. Doveva averlo ammaliato, perché alla fine instaurarono una relazione. Era pazzo di lei, del tutto assoggettato a quella donna». Proprio come Jack. «Gli dissi di farla finita. Non era giusto nei confronti di Alice e dei bambini. Ma non lo fece. Infatti, stava per lasciare la famiglia per lei».
A questo punto sono io a concludere la storia. «Martha venne a casa il giorno del mio compleanno. Perché?».
Mio padre risponde: «Martha Palmer era una donna perfida e malvagia. Non poteva sopportare che John tornasse a casa da Alice e dalla sua famiglia ogni sera. Così andò a casa sua. Alice la invitò a entrare, in tutta innocenza, perché era la sua migliore amica, e lei le rivelò della relazione. E mandò in pezzi tutto il suo mondo».
Sento le urla in soggiorno. Mi strofino le tempie per far tacere le voci.
Lui prosegue. «Se ne andò come se nulla fosse, dopo aver fatto una cosa tanto spregevole, mentre Alice sentiva che il mondo le si sgretolava sotto i piedi».
«Ma uccidere i suoi figli, Edward, uccidere sé stessa…». La voce scioccata di mia madre trema.
«Lo so. Lo so», sussurra papà. «Non era stata tradita soltanto dal marito, ma anche dalla sua cosiddetta migliore amica. Per lei era un peso troppo grande da sopportare. Credo che abbia perso la testa».
Segue un silenzio insopportabile. Lo infrango io chiedendo: «Come lo aiutasti?»
«Gli consigliai di andare dalla polizia, ma lui non volle. Ciò che voleva era che ti portassi via per un po’, cosa che acconsentii a fare».
Rivedo la me stessa bambina che guarda fuori dal finestrino, gli occhi fissi sul simbolo del costruttore della casa, sempre più lontano.
«Ti lasciò un oggetto appartenuto a tua madre. Una cosa che lei indossava spesso. Te la regalammo per il tuo quindicesimo compleanno», aggiunge papà in tono pacato.
«La mia sciarpa».
Che ironia. La sciarpa che mi teneva al sicuro di notte era appartenuta alla donna che aveva cercato di uccidermi. Mia madre. E allora capisco anche un’altra cosa: Martha doveva aver riconosciuto la sciarpa di Alice, dal momento che era la sua migliore amica. L’aveva vista la notte in cui mi aveva riaccompagnata in camera mia dopo avermi trovata a camminare nel sonno. Non c’era da stupirsi che mi avesse chiesto a chi fosse appartenuta. E quando le avevo detto che era di mia madre… ricordo il modo in cui l’aveva lasciata sul mio letto, stropicciata e tutta piena di nodi.
«Che ne è stato dei loro corpi?».
Papà scuote di nuovo la testa. «Non lo so. Nella nostra professione abbiamo contatti con ogni genere di persone, compresi impresari di pompe funebri che gestiscono dei crematori. Oppure potrebbe averli seppelliti. Non lo so».
In quell’istante capisco che non scoprirò mai il luogo in cui riposa la mia famiglia.
A troppe persone innocenti è già stato fatto del male. Così c’era scritto nella lettera d’addio. Troppe persone innocenti.
«Perché lui tornò nella stessa casa insieme a Martha e a Jack?».
Mio padre si lascia sfuggire una risata amara. «Quel diavolo di donna gli aveva affondato gli artigli nel profondo. Non riusciva a dimenticarla. Tommy mi raccontò il modo in cui lei agiva. Disse che il suo più grande vanto era portare via qualcosa ai propri amanti dopo aver messo fine alla relazione». Ripenso alla targhetta con il nome di Bette. «Ciò che voleva portare via a tuo padre era la casa. Deve averlo tormentato per anni sbattendogli in faccia altri uomini, e quanto era accaduto a sua moglie, ai suoi figli. Dava la colpa a lui. A un certo punto ha portato a casa un uomo più giovane, questo tale Jack, e ha esiliato John nella stanza all’ultimo piano».
«Dev’essere stato troppo per lui, perché alla fine si è ucciso. Ho trovato il biglietto che ha lasciato quando si è suicidato».
«Buon Dio», esclama mia madre, spalancando gli occhi.
«Lo so», ribatte papà.
«Cosa?». Raddrizzo la schiena. «Come fai a saperlo?»
«Io c’ero».