Quarantaquattro

Quattro mesi dopo

 

Osservo la ditta di traslochi che impacchetta tutto ciò che c’era nella casa e lo deposita nel grosso camion all’esterno. Non voglio nulla. Andrà tutto quanto a un mercatino dell’usato della zona, che si è dimostrato molto riconoscente per la donazione. Ho messo la casa in vendita e fra una settimana una giovane famiglia si trasferirà qui. Ne sono contenta. Voglio che torni a essere la casa di una famiglia, a risuonare delle risa e dei giochi spensierati dei bambini.

Jack se ne è andato da tempo. Ogni traccia della piantagione di cannabis in giardino è svanita. L’ho aiutato io a tagliare e a estirpare fino all’ultima foglia verde di illegalità. Non so dove sia adesso. E non voglio nemmeno saperlo.

«Lisa». È Alex..

Mi è stato accanto a ogni passo, ogni volta che ho avuto bisogno di lui. Come amico, niente di più. E che amico! Non avrei potuto chiedere di meglio.

Un ampio sorriso mi illumina il viso mentre gli vado incontro. Tuttavia, mi scivola via dalle labbra quando vedo la sua espressione tetra.

«Qual è il problema?».

Alex mi tira dentro casa mentre uno dei traslocatori porta fuori una sedia. Gli chiede: «Puoi dire ai tuoi di prendersi mezz’ora di pausa?»

«Lavoriamo a ore», gli ricorda l’uomo.

«Se dovessero esserci sono costi aggiuntivi, mettili sul conto, per favore».

L’uomo annuisce mentre Alex chiude con cura la porta. Mi trascina con delicatezza nel cuore della casa, dove non rimane altro che il bel tappeto nero e rosso sul pavimento.

Guardo lui, non il tappeto. «Che succede?».

Tentenna prima di iniziare a parlare. «Hai mai notato questo tappeto prima d’ora?».

Non provo alcun imbarazzo a raccontargli la verità. «Mi ci mettevo sempre sopra. Qui, nel cuore della casa. Non so spiegarti perché, ma mi aiutava a ragionare in maniera lucida. A tenere i piedi per terra, per così dire».

Ora ha un’aria addolorata, come se non volesse dirmi più nulla. Ma lo fa comunque, e indica il tappeto. «Vedi i motivi che decorano l’orlo?».

Annuisco, perplessa.

«Guardali attentamente. Non sono motivi, ma scritte…».

«Scritte in cirillico», lo interrompo, con il cuore che batte all’impazzata. Mi sento incerta e barcollante per la prima volta dopo molto tempo.

«Sono nomi», prosegue in un morbido sussurro. «Alice, Leo, Tina…».

«Marissa. Sono io». Incrocio lo sguardo di Alex con gli occhi pieni di lacrime. «Credi che mio padre – il mio padre biologico – l’avesse fatto personalizzare?»

«Pare di sì».

Restiamo lì in un silenzio rispettoso e tetro come se stessimo osservando la tomba della mia famiglia.

«Per tutti questi anni mi sono rivolta a un’infinità di terapisti che mi hanno fatto ogni genere di diagnosi – hanno detto che ero ossessiva, vittima di bullismo, affetta da stress post-traumatico, matta da legare – mentre, per tutto il tempo, ho sofferto del male più umano che esista: un cuore spezzato». Inspiro a fondo. «Puoi darmi un minuto?», chiedo con voce distante.

Alex non risponde, ma dopo pochi secondi sento la porta che si chiude.

Le lacrime mi sgorgano dagli occhi mentre cado in ginocchio e strofino con il palmo delle mani ogni nome, in adorazione. Poi passo il polpastrello su ogni lettera, cucita meravigliosamente. È come se mi trovassi di nuovo di fronte alle scritte sulla parete. Sento di aver ritrovato la mia famiglia. Non mi stupisce che fossi così attratta da questo tappeto. Per tutto il tempo la mia famiglia è stata lì ad aspettarmi, nel cuore della casa.

Mi rannicchio su me stessa e piango.