Tredici
Mi sto preparando un caffellatte quando Martha scivola nella stanza. Non ho mai visto una donna camminare in quel modo, come se toccasse a malapena il pavimento. Indossa un abitino estivo in stile anni Cinquanta: verde pastello puntellato di fragoline.
«Lisa». Martha mi onora di uno dei suoi sorrisi smaglianti. «Sono contenta di averti incrociata perché vorrei chiederti una cosa».
Prima di rispondere la scruto in viso in cerca di una prova del fatto che Jack l’abbia picchiata, ma ha un trucco così pesante che riesco a fatica a intravedere la pelle. E comunque potrebbe non averla colpita in faccia. Questa è davvero l’occasione giusta per farle il quarto grado. Per raccontarle tutto quello che ho sentito e offrirle la mia solidarietà femminile. Ma non lo faccio.
«Che cosa volevi chiedermi?»
«Ho visto una mosca, una di quelle disgustose». Un brivido le corre visibilmente giù per la schiena. «A volte abbiamo dei piccioni morti bloccati nel camino. Quelle povere bestiole non riescono più a uscire, muoiono e poi… be’, prima che uno possa accorgersene la stanza si riempie di mosche». Sfarfalla con le dita a mezz’aria imitando delle ali che svolazzano.
Quindi avevo torto. Non è stato Jack a mettere là il piccione per tormentarmi. Forse alla fine mi sta davvero lasciando in pace.
Mi ringalluzzisco. «Ce n’era uno. Non volevo disturbarvi, quindi non ho detto nulla».
Allunga il collo. «Io voglio che tu sia felice qui. Ho chiesto a Jack di mettere una rete a maglia fine sui camini una vita fa, per impedire agli uccelli di caderci dentro». Sospira. «Immagino che lo farà quando avrà tempo».
Tira fuori un pacchetto di biscotti d’avena dalla credenza, sorride e si dirige verso il frigorifero.
Forse è il fatto che sia voltata di spalle a darmi coraggio. «Perché stai con lui?».
Il braccio si paralizza all’interno del frigorifero. Poi si muove, tirando fuori un tubetto di crema al formaggio senza grassi. Non incrocia il mio sguardo nemmeno per un secondo mentre prende un coltello da tavola e un piattino fra le stoviglie e le posate lasciate a scolare accanto al lavello.
«Sei mai stata innamorata, Lisa?», chiede infine Martha mentre posa il piatto sull’isola della cucina. La sua voce è delicata e calma.
Non trovo le parole; non è così che mi aspettavo che rispondesse. Tuttavia, le confido la verità. «Ho avuto soltanto un ragazzo. È stato un disastro. Lui mi piace… mi piaceva. Ma ha deciso che non ero la donna giusta per lui».
Ancora a testa bassa, Martha apre il tubetto di crema al formaggio e inizia a spargerla con piccoli movimenti controllati. «Avevo contattato “Jack il tuttofare”, l’operaio con il furgone, perché facesse alcuni lavoretti per me. Oh, come mi faceva ridere». Le sfugge di bocca una risata cristallina. «Di’ pure che sono una vecchia stupida, ma mi faceva sentire come se fossi di nuovo una sedicenne. Tutta frizzante, strabordante di energia». So bene di cosa parla; Alex mi faceva sentire proprio così. «Quando una donna arriva alla mia età, il mondo la cancella. Io desidero l’amore come chiunque altro».
«L’altro giorno ho sentito che ti picchiava». La mia sfacciataggine mi sorprende. Avrei potuto essere più delicata, prendermi un po’ di tempo per parlare al momento giusto. Ma come si fa a trovare il momento giusto per discutere di un’orrenda violenza?
Martha allora mi guarda. «Sono sicura che ti sbagli». La paura nei suoi occhi racconta una storia ben diversa. «Forse era un rumore che proveniva da fuori. Oppure dei ragazzini che facevano gli sciocchi di ritorno da scuola».
Se non vuole ammettere che suo marito è un porco che abusa di lei, che cosa faccio? Non posso costringerla a dirlo. Magari è troppo doloroso parlarne con una quasi estranea. Io mi sono sentita esattamente così durante la seduta iniziale con il dottor Wilson e con tutti gli altri terapisti desiderosi di curarmi che ho frequentato nel corso degli anni. Riportare alla luce un terribile trauma è come strapparsi via dal corpo le viscere e il cuore, in maniera lenta e dolorosa, e metterli sotto gli occhi degli altri in tutto il loro cruento orrore. Una volta che certe cose sono uscite, non puoi fingere che non esistono. Puoi tentare di accettarle, ma non se ne andranno mai via.
«Se sentissi il bisogno di parlare, Martha, io sono qui, ricordatelo. E se non riesci a chiamare la polizia, lo farò io per te».
Mentre mi volto per andarmene, mi afferra piano un braccio. Sussulto lievemente quando mi graffia la pelle con un’unghia. «Grazie».
Poi ricordo a me stessa che ho anch’io i miei problemi da affrontare. Stavolta ho intenzione di trovare le risposte, così potrò lasciarmeli alle spalle.
Per sempre.
Svolto nel viale. Un paio di bambini che fanno skateboard in mezzo alla strada si gode quelli che, secondo i media, saranno gli ultimi strascichi dell’estate. Non c’è nessun altro in giro. Non è il genere di strada in cui i vicini si affacciano agli steccati per chiacchierare o se ne stanno seduti sul portico davanti casa per godersi la vita.
Il cellulare inizia a squillare.
«Alex?». Sono davvero sorpresa di sentirlo. Eravamo d’accordo che mi sarei messa in contatto io con lui quando fosse arrivato il momento giusto. Sono passati tre giorni.
«Bond. James Bond». Alex sfodera la sua migliore imitazione di Sean Connery, che in realtà fa un po’ pena. Non posso fare a meno di sorridere. Continua a calarsi nel personaggio. «Posso infiltrarmi nella malvagia organizzazione gestita dagli arci-criminali Martha e Jack arrampicandomi su per le pareti o calandomi da un elicottero».
A quella battuta scoppio a ridere. Ha sempre saputo come farmi divertire. Era una delle cose che mi attraevano di più in lui. Mi manca questo suo lato. Mi manca lui.
«M, Miss Moneypenny e Pussy Galore sono fuori a pranzo». La gioia scompare e divento via via più seria. «Perché hai chiamato?»
«Sto passando da zia Patsy e ho pensato che magari poteva essere un buon momento per compiere il fattaccio, ecco».
Scuoto la testa. «No, non è un buon momento. Ti chiamo io, okay?».
Pausa, e poi: «Ti va di fare un salto da zia Patsy fra una ventina di minuti?». Dà un colpo di tosse. Be’, è più un modo per schiarirsi nervosamente la gola. «Magari possiamo farci una tazza di tè e una chiacchierata».
Non ero troppo stramba per te? Troppo pazza? Lo penso, ma non lo dico.
«Ti chiamo io».
Chiudo la telefonata. L’ultima cosa che mi sarei aspettata era che Alex cercasse di far resuscitare il passato. Forse vuole che siamo amici. Ci rifletto mentre raggiungo l’ingresso di casa. No, non può esserci nessuna amicizia fra noi; non di quelle che durano. Ha visto il mio corpo e conosce il segreto dei miei incubi, ed è una cosa che aleggerà per sempre su di noi.
Non c’è traccia di Martha o di Jack, quindi mi dirigo in cucina e mi verso un bicchierino di succo d’arancia. Quando guardo fuori dalla finestra, nel giardino, vedo Jack proprio in fondo. Mi avvicino per guardare meglio. Sta parlando con qualcuno. Magari è Martha… No, è un uomo. Non riesco a vedere il volto del tizio, ma indossa dei jeans chiari e una giacca pesante. Jack gli porge qualcosa. L’uomo si guarda intorno con aria furtiva, come se fosse preoccupato che qualcuno possa vederli. Io, per esempio.
Mi sposto subito, fuori dalla loro visuale. Sono curiosa. Che cosa sta facendo Jack là fuori? Che cosa nascondono lui e il suo giardino?
Vado in camera mia. Butto la borsa sul pavimento non appena la porta si chiude e mi dirigo verso la finestra per osservare il giardino da un punto migliore, sopraelevato.
La finestra dell’abbaino non è chiusa. Che strano; sono sicura di non averla lasciata aperta. Che Jack sia entrato di nuovo in camera mia? O forse mi sbaglio e l’avevo davvero lasciata aperta? In realtà non me lo ricordo. Tenendomi a distanza di sicurezza, sbircio fuori. Non c’è traccia né di Jack, né del suo visitatore. O se ne sono andati, oppure sono nascosti dai folti alberi sul fondo del giardino.
Ecco, fine dello spettacolo.
Fa freddo, quindi chiudo la finestra dell’abbaino, ma c’è qualcosa incastrato nella cornice che la blocca. Sono confusa; come ha fatto a finire lì quell’affare? Probabilmente è stato trasportato dal vento.
La finestra non vuole proprio chiudersi per via dello strano oggetto che la ostruisce, così lo tiro via. È umido e oleoso e ha un lieve odore di piscio di gatto. Soltanto quando tiro più forte mi accorgo di cosa si tratta. È la coda di un gatto.
Spaventata, tiro indietro la mano. Paralizzata, rimango lì impalata senza sapere cosa fare. Non posso lasciarla lì fuori. Con una smorfia, tocco di nuovo la coda tigrata, stavolta tirando più forte, e trascino il corpo fin dove posso vederlo. È chiaramente morto. Ha le zampe piegate sotto il ventre e gli occhi spalancati, per il terrore o per lo shock. Ha le mascelle leggermente aperte e sembra che abbia della schiuma tutto intorno alla bocca. Non è rigido, quindi non è morto da molto. Ora giace sul mio davanzale.
Capisco subito che ancora una volta è opera di Jack. Non è possibile che questo gatto si sia arrampicato così in alto e che abbia infilato la coda nella finestra per poi decidere di spirare di morte naturale. La schiuma intorno alla bocca suggerisce che abbia mangiato qualcosa di avariato o di avvelenato.
Digrigno i denti per il disgusto e l’orrore. E anche per la paura. Perché ne so abbastanza della vita da capire che chi è in grado di fare una cosa del genere a un animale indifeso sarà anche in grado di farlo a un essere umano. Sono determinata a restare in questa stanza, ma per la prima volta sono davvero spaventata, anche di più rispetto a quando Jack è salito in camera mia per la sua “festicciola”.
Poi però le cose si mettono ancora peggio. Intorno al collo del gatto c’è un collare, uno di quelli costosi, di cuoio. Non c’è nessun indirizzo, nessuna targhetta con il nome. D’un tratto capisco chi è questo gatto. Avrei dovuto riconoscerlo dal manto tigrato.
È Bette, della casa accanto.